mercoledì 30 settembre 2009

“IO, SCONFITTO DALLA MAFIA DI STATO”

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 settembre 2009

di Luigi De Magistris
(Europarlamentare IDV)


Al Sig. Presidente della Repubblica

Piazza del Quirinale ROMA
Signor Presidente, scrivo questa lettera a Lei soprattutto nella Sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. E’ una lettera che non avrei mai voluto scrivere. E’ uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute della democrazia nella nostra amata Italia.

E’ una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’Ordine Giudiziario.

Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione.

Sebbene l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro – come recita l’art. 1 della Costituzione – non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati. Ebbene, io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che avevo sognato fin dal momento in cui mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli, luogo storico della cultura giuridica. La magistratura ce l’ho nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino. Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per diventare uditore giudiziario. Una gioia immensa che mai avrei potuto immaginare destinata a un epilogo così buio. E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche con umiltà ed equilibrio, la missione della mia vita professionale, come in modo spregiativo la definì il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti davanti al Csm. Per me, esercitare le funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana significava tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata. Quei cittadini che – contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti – sono tutti uguali davanti alla legge. Del resto Lei, signor Presidente, che è il custode della Costituzione, ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.

I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura – oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente – sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ed è nella loro memoria che ho deciso di sventolare anch’io l’agenda rossa di Borsellino, portata in piazza con immensa dignità dal fratello Salvatore. Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita debba dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo, anche a costo della vita. Per questo decisi di assumere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato: la Calabria. Una terra da cui, in genere, i magistrati forestieri scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece avevo deciso (ingenuamente) di restare.

Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40, lavorando mai meno di dodici ore al giorno, spesso anche di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare. Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto: rifarei tutto, con le stesse energie e il medesimo entusiasmo.

In questi anni difficili, ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, un gruppo di validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool. Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta, però, si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla de-legittimazione del mio lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni. Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze. Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, ma il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dalla stessa magistratura. Signor Presidente, a Lei non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e colleghi , revoche e avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle inchieste.

Ho condotto indagini nei settori più disparati, ma solo quando mi occupavo di reati contro la Pubblica amministrazione diventavo un cattivo magistrato.

Posso dire con orgoglio che il mio lavoro a Catanzaro procedeva in modo assolutamente proficuo in tutte le direzioni, come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. La polizia giudiziaria lavorava con sacrifici enormi, perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti. Le persone informate dei fatti testimoniavano e offrivano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile, in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, senza insabbiamenti di quelle contro i poteri forti (come invece troppe volte accade). Questo modo di lavorare, il popolo calabrese – piaccia o non piaccia al sistema castale – lo ha capito, mostrandoci sostegno e solidarietà. Non è poco, signor Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo. E che lo Stato stesse funzionando lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tant’è vero che si sono subito affinate nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana.

Non so se Ella, Signor Presidente, condivide la mia analisi. Ma a me pare che - dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese nel 1993 - le mafie hanno preso a istituzionalizzarsi. Hanno deciso di penetrare diffusamente nella cosa pubblica, nell’economia, nella finanza. Sono divenute il cancro della nostra democrazia. Controllano una parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica e nelle Istituzioni a tutti i livelli, nazionali e territoriali. Nemmeno la magistratura e le forze dell’ordine sono rimaste impermeabili. Si è creata un’autentica emergenza democratica, da sconfiggere in Italia e in Europa.

Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali, ma piegano le loro funzioni a interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto. Non mi dilungo oltre, perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.

Ebbene oggi, Signor Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato: si creerebbero nuovi martiri; magari, ai funerali di Stato, il popolo prenderebbe di nuovo a calci e sputi i simulacri del regime; l’Europa ci metterebbe sotto tutela. Non vale la pena rischiare, anzi non serve. Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace.

Che ci vuole del resto, signor Presidente, per trasferire un magistrato perbene, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, o per imbavagliare un giornalista che racconta i fatti? E’ tutto molto semplice, quasi banale. Ordinaria amministrazione.

Per allontanare i servitori dello Stato e del bene pubblico, bisogna prima isolarli, delegittimarli, diffamarli, calunniarli. A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato.

La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo. Ebbene, in Calabria, mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine con ogni mezzo.

Quello che si è realizzato negli anni in Calabria sul piano investigativo è rimasto ignoto, in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva di farlo conoscere all’esterno. Il resto del Paese non doveva sapere. Si praticava la scomparsa dei fatti. Quando però le vicende sono cominciate a uscire dal territorio calabrese, l’azione di sabotaggio si è fatta ancor più violenta e repentina. Invece dello sbarco degli Alleati, c’è stato quello della borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese. L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, restituiva fiducia nelle Istituzioni, svelava i legami tra mafia “militare” e colletti bianchi, smascherava il saccheggio di denaro pubblico perpetrate da politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni a danno della stragrande maggioranza della popolazione, scoperchiava un mercato del lavoro piegato a interessi illeciti, squadernava il controllo del voto e, quindi, l’inquinamento e la confisca della democrazia .

Sono cose che non si possono far conoscere, signor Presidente. Altrimenti poi il popolo prende coscienza, capisce come si fanno affari sulla pelle dei più deboli, dissente e magari innesca quella democrazia partecipativa che spaventa il sistema di potere che opprime la nostra democrazia. Una presa di coscienza e conoscenza poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale.

Lei, signor Presidente, dovrebbe conoscere – sempre quale Presidente del CSM - le attività messe in atto ai miei danni. Mi auguro che abbia assunto le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge e alla Costituzione. Avrà potuto così notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, professionisti, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine. Tutto ciò non era tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale. Come poteva un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il proprio mandato onestamente applicando la Costituzione? Signor Presidente, Lei - come altri esponenti delle Istituzioni - è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni. Perché, allora, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della nostra democrazia, cioè nelle più terribili collusioni tra criminalità organizzata e poteri deviati? Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi. Eppure avevo sperato in un Suo intervento, anche pubblico: ero ancora nella fase della mia ingenuità istituzionale. Mi illudevo nella neutralità, anzi nell’imparzialità dei pubblici poteri. Poi ho visto in volto, pagando il prezzo più amaro, l’ingiustizia senza fine.

Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere, come poi ha sancito l’Autorità Giudiziaria competente. Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva e ha capito quel che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me l’ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare. Un affetto che costituisce per me un’inesauribile risorsa aurea.

Ho denunciato fatti gravissimi all’Autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza. Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa ancora una volta era sgradita al potere. E allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e ingiusto: la lezione impartita al sottoscritto non era stata sufficiente. La logica di regime del “colpirne uno per educarne cento” usata nei miei confronti non bastava ancora a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese. Ci voleva un altro segnale forte, proveniente dalle massime Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato, signor Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi e indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettono in pericolo il sistema criminale di potere su cui si regge, in parte, il nostro Paese.

Quando la Procura della Repubblica di Salerno – un pool di magistrati, non uno “antropologicamente diverso”, come nel mio caso – ha adottato nei confronti di insigni personaggi calabresi provvedimenti non graditi a quei poteri che avevano agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, ha fatto filtrare il messaggio perverso che era in atto una “lite fra Procure”, una guerra per bande. Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata, fra magistrati di Salerno e Catanzaro. C’era invece semplicemente, come capirebbe anche mio figlio di 5 anni, una Procura che indagava, ai sensi dell’art. 11 del Codice di procedura penale, su magistrati di un altro distretto. E questi, per ostacolare le indagini, hanno a loro volta indagato i colleghi che indagavano su di loro, e me quale loro istigatore. Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difende dalla ricerca della verità, tentando di nascondersi dietro lo schermo di una legalità solo apparente.

Questa menzogna è servita a buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di Pm) tre magistrati di Salerno, uno dei quali lasciato addirittura senza lavoro. Il messaggio doveva essere chiaro e inequivocabile: non deve accadere più, basta, capito?!

Signor Presidente, io credo che Lei in questa vicenda abbia sbagliato. Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione. Ricordo bene il Suo intervento – devo dire, senza precedenti – dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno. Rimasi amareggiato, ma non meravigliato.

Signor Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato di dosso la toga che avevo indossato con amore profondo. E il fatto che non mi sia stato più consentito di esercitare il mestiere stupendo di Pubblico ministero mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria. Un’azione inaccettabile come quella che ho subìto può strapparmi le amate funzioni, può spegnere il sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non può piegare la mia dignità, nè ledere la mia schiena dritta, nè scalfire il mio entusiasmo, nè corrodere la mia passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese.

Nell’animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.

Nella Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, accompagnato dalla medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del nuovo percorso che ho intrapreso. Darò il mio contributo affinchè i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.

E’ per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’Ordine giudiziario, dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico. Lo faccio con un ulteriore impegno: quello di fare in modo che ciò che è successo a me non accada mai più a nessuno e che tanti giovani indossino la toga non con la mentalità burocratica e conformista magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente.

Luigi de Magistris

Roma, 28 settembre 2009

Processo Abu Omar: il pm chiede 13 anni per Pollari, ex direttore del Sismi

Dal Quotidiano Il Corriere della Sera
del 30 settembre 2009


MILANO - Il pm Armando Spataro ha chiesto 13 anni di carcere per l'ex direttore del Sismi ed ex comandante della Guardia di Finanza Niccolò Pollari per la vicenda Abu Omar, l'imam rapito a Milano il 17 febbraio 2003, probabilmente da agenti della Cia, con la complicità dei servizi segreti italiani. Spataro ha chiesto anche la condanna a 10 anni l'ex numero due del Sismi Marco Mancini, e quella a pene comprese tra 10 e 13 anni dei 26 agenti Cia imputati nel processo. Per gli uomini del Sismi imputati di favoreggiamento, Luciano Seno e Pio Poma, la richiesta è di 3 anni. Per 3 appartenenti al Sismi, Luciano Di Gregorio, Raffaele Di Troia e Giuseppe Ciorra, il pm chiede il non doversi procedere perchè, a causa del segreto di Stato che non rende possibile l’utilizzo di alcuni documenti, non si può provare la responsabilità.

LA REQUISITORIA - Il generale Gustavo Pignero, con le sue dichiarazioni «ha consentito la rottura di un sistema criminale, una deflagrazione di questo sistema che vedeva come principale regista il generale Pollari» aveva detto in precedenza Spataro, nel corso della sua requisitoria, ricostruendo le fasi dell'inchiesta e ripercorrendo le dichiarazioni del generale Gustavo Pignero, allora componente del Sismi, poi deceduto. Spataro ha sottolineato come Pignero, nei suoi interrogatori ebbe «una certa ripugnanza» ad usare la parola sequestro riguardo la cattura di Abu Omar. «Era un ufficiale dei carabinieri che aveva operato in altri anni - ha detto Spataro - e che era finito in questa struttura che, mi auguro, sia cambiata».
Per Spataro contro Pollari e Mancini «ci sono prove ineluttabili di responsabilità». Questa vicenda, secondo il magistrato, ha rappresentato «uno strappo insopportabile ai diritti fondamentali. Inaccettabile neanche nell'interesse della sicurezza nazionale» e ha sottolineato al termine della sua requisitoria che «le democrazie si fondano su principi irrinunciabili anche in momenti di emergenza». Per quanto riguarda Pollari in particolare, è «impensabile che il Sismi abbia eseguito il sequestro» di Abu Omar, «senza che lui lo sapesse».

LA VICENDA - Il processo per il rapimento dell'imam della mosche milanese vede imputate 33 persone, tra ex funzionari dei servizi segreti italiano e Usa, con l'accusa di aver rapito nel 2003 Abu Omar - che è imputato a Milano per terrorismo internazionale in un altro procedimento - e di averlo poi inviato in una cosiddetta operazione di "rendition" in Egitto, dove il religioso sostiene di aver subito torture durante la detenzione.

Mondadori, la presa del potere con seduzioni e mazzette

Dal Quotidiano L'Unità
del 30 settembre 2009

di Claudia Fusani
(Giornalista)


La Guerra di Segrate è per Silvio Berlusconi una sorta di prova generale della sua “discesa in campo”. Nella presa del potere di Mondadori, la principale casa editrice italiana, registra tutte le sue abilità: la seduzione, la dissimulazione, l’uso spregiudicato delle mai chiarite eppure quasi illimitate disponibilità economiche, la capacità di condizionare i giudici. Ed è la vittoria sull’altro principale azionista della Mondadori, Carlo De Benedetti, imprenditore e finanziere d’esperienza internazionale, a convincere il Cavaliere di essere ormai pronto per la conquista del cuore del potere: il governo del Paese.
La prima parte della vicenda è per Berlusconi un ricasco dell’acquisto di Rete 4 (1984) proprio da Mondadori, che gli consente di schierare nell’etere tre reti nazionali come la Rai. Con metodo, l’ormai ex costruttore edile acquista pacchetti di azioni sempre più consistenti della casa editrice quotata in borsa. Gli eredi del fondatore non vanno d’accordo e, nel 1988, Berlusconi riesce ad avere il controllo anche delle quote del più debole nipote di Arnoldo Mondadori, Leonardo. L’azienda di Segrate si ritrova così con tre azionisti: la Cir di Carlo De Benedetti (che a sua volta acquista quote azionarie), la Fininvest e la famiglia Formenton, erede di Mario, per molti anni guida indiscussa dell’azienda e genero di Arnoldo. De Benedetti stipula un patto apparentemente d’acciaio con la famiglia Formenton, convincendola a cedergli la sua quota entro il 30 gennaio 1991. Per blindare il suo predominio l’ingegnere ottiene, il 9 aprile del 1989, che Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo vendano alla sua Mondadori i loro pacchetto azionari dell'Espresso. Nasce la Grande Mondadori, che ha come presidente Caracciolo e in dote Repubblica, l’Espresso e i giornali locali della catena Finegil.
Qui entra in gioco l’abilità seduttiva di Berlusconi, che finora ha sempre dichiarato di voler stare in Mondadori «come il passeggero sul sedile posteriore di un’auto». Gioca su più piani: sulla presunta disattenzione di De Benedetti nei confronti delle aspettative dei Formenton, sulla loro fervente fede rossonera (sono gli anni del Milan stellare di Arrigo Sacchi, Gullit e Van Basten), sulla dissimulazione delle sue reali intenzioni. Nel novembre 1989 i Formenton rompono clamorosamente il sodalizio con De Benedetti e si schierano con Berlusconi: «Tu sei un mascalzone!», s’infuria Caracciolo quando il Cavaliere gli comunica di avere in mano la quota Formenton. Il 25 gennaio 1990 Berlusconi entra trionfalmente nel palazzo di Segrate disegnato dall’architetto Niemeyer: tutti capiscono che è lui il nuovo padrone e che nulla sarà più come prima.
De Benedetti contesta subito davanti alla magistratura milanese la rottura unilaterale dell'accordo con i Formenton, dando inizio a una lunga querelle giudiziaria. La battaglia è senza risparmio di colpi, che volta per volta danno il vantaggio a uno o all’altro dei principali contendenti. Dopo sedici anni di attesa e di anarchia in cui l’ex palazzinaro è potuto diventare in tutto e per tutto alternativo alla Rai, è in dirittura d’arrivo anche la legge Mammì con l’opzione zero (o tivù o giornali). Un collegio di tre arbitri, scelti di comune accordo, stabilisce il 21 giugno 1990 che l'accordo De Benedetti e Formenton è più che valido e che le azioni Mondadori sono legittimamente della Cir. Alla guida della Mondadori tornano gli uomini scelti da De Benedetti. Ma durano poco. Il lodo arbitrale viene impugnato da Berlusconi davanti alla Corte d’Appello di Roma, prima sezione civile, presieduta da Arnaldo Valente. Il giudice relatore è Vittorio Metta. È con loro che Berlusconi gioca la carta delle sue “capacità” di convinzione. Il 24 gennaio 1991 arriva la sentenza che annulla il verdetto del lodo. Valente nella motivazione arriva a giudicare non valido l’accordo originario, quello del 1988 tra De Benedetti e i Formenton. La Mondadori è di nuovo di Berlusconi.
Andare avanti a colpi di sentenze contrastanti sembra a tutti una follia. A districare la complicata matassa è Giuseppe Ciarrapico, imprenditore di destra, amico di Andreotti, in buoni rapporti con Caracciolo. Grazie alla sua mediazione la Grande Mondadori viene spartita tra De Benedetti, che si tiene la Repubblica, L'Espresso e i quotidiani locali, e Berlusconi che riceve Panorama e il resto della Mondadori, più 365 miliardi di lire di conguaglio. E’ il 30 aprile 1991.
Quattro anni e una Tangentopoli dopo, quando Berlusconi è già stato, seppur brevemente, inquilino di Palazzo Chigi, deflagrano le dichiarazioni di Stefania Ariosto, ex amica di Berlusconi ed ex compagna del suo avvocato Vittorio Dotti, secondo la quale i giudici Valente e Metta frequentavano abitualmente Cesare Previti, il legale da decenni sodale di Berlusconi: anzi, dice di aver sentito il futuro ministro della Difesa raccontare di tangenti versate ai magistrati. La Procura di Milano apre le indagini sulla sentenza della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma e va a caccia dei conti da cui sarebbero arrivati i soldi per corrompere i giudici che avevano regalato la Mondadori a Berlusconi. Si scopre che nemmeno un mese dopo la sentenza, la All Iberian che fa capo a Fininvest aveva versato 3 miliardi di lire su un conto di Cesare Previti e 1 miliardo e mezzo su quello di un avvocato faccendiere. Dopo un giro tortuoso, parte di questi soldi – secondo i giudici – era finita a Vittorio Metta («Un’eredità», dichiarerà al processo). Previti giura che i tre miliardi sono la sua parcella.
Nel 2003 Vittorio Metta – che, lasciata la magistratura, va a lavorare con Previti - sarà condannato a 13 anni, Previti a 11 anni, gli avvocati e faccendieri Attilio Pacifico a 11 anni e Giovanni Acampora a 5 anni e 6 mesi. Berlusconi non arriva nemmeno a giudizio grazie alle attenuanti generiche che fanno prescrivere il reato. Nell’aprile del 2005, in appello, nuovo ribaltamento: tutti assolti per la parte Mondadori. Nell’aprile 2006 la Cassazione condanna invece Previti, Pacifico e Acampora a 1 anno e 6 mesi e Metta a 1 anno e 9 mesi.
Corruzione c’è stata. La sentenza fu comprata con 425 milioni di lire prelevati dal conto All Iberian (Fininvest). Ma la Mondadori, da vent’anni, è proprietà di Berlusconi.

E' l'opposizione che fa il governo porco

Dal Blog di Beppe Grillo
del 30 settembre 2009

di Beppe Grillo
(Artista - Comico)


300 MILIARDI DI EURO torneranno in Italia protetti dallo scudo fiscale di Tremorti. Lo Stato incasserà il 5% per il condono. Soldi di cui non si sa nulla, con tutta probabilità mai tassati. Di chi sono questi capitali? Conoscete qualche operaio, impiegato, elettricista, meccanico, parrucchiere con decine di milioni in qualche paradiso fiscale? Insomma, conoscete qualche LAVORATORE che godrà dello scudo di Tremorti? Chi paga le tasse al 15/27/35/50% ha diritto di sapere nomi e cognomi degli esportatori di capitali e le origini del malloppo. Vogliamo la lista pubblicata sui giornali per legge, altro che impunità e anonimato.
Tremorti ha affermato: "Non credo che la criminalità si servirà di questo strumento. I capitali criminali o sono in Italia perfettamente sbiancati o continueranno la loro attività all'estero". NON CREDO? Un ministro dell'Economia che non crede che su 300 miliardi vi siano capitali mafiosi, di bancarottieri, di evasori totali, frutto del riciclaggio, denaro sporco? Ma chi crede di prendere per il culo? Questo condono di Stato è, fino a prova contraria, un condono alle mafie.
Franceschini Boccon del Prete ha detto in Parlamento che lo scudo fiscale è: "uno schiaffo in faccia a tutti gli italiani che pagano onestamente le tasse". Dalle parole ai fatti. La cosiddetta opposizione, su proposta dell'Italia dei Valori, ha chiesto il voto alla Camera per l'incostituzionalità dello scudo fiscale. Se i 280 deputati di PD, IDV e UDC fossero stati presenti lo Scudo Tremorti sarebbe stato bocciato. Ma erano al bar, al ristorante, forse ad Arcore per pubblicare un libro con Mondadori o farsi intervistare in prima serata su Canale 5. Forse a puttane con Testa d'Asfalto. Forse in gita con Tarantini. Ovunque, ma non in aula. 59 deputati del PDmenoelle non c'erano, insieme a otto dell'UDC e due dell'IDV. Del PDmenoelle erano assenti i due campioni delle Primarie Franceschinie Bersani, insieme a D'Alema, il miglior amico dello psiconano. Questa è la "durissima opposizione". Con questi figuranti, sodali e complici lo psiconano durerà anche dopo la sua imbalsamazione. E' l'opposizione che fa il governo porco. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

Ma le capite le battute?

del 30 settembre 2009

di Marco Travaglio
(Giornalista)



Ormai se ne vedono e sentono tali e tante che è diventato impossibile distinguere gli scherzi dalla realtà, le battute dalla cronaca, le cose serie dalle scemate. L'altro giorno, presentando in conferenza stampa la nuova edizione di “Striscia la notizia”, Antonio Ricciesibisce alcuni fotomontaggi, uno dei quali ritrae il direttore di Repubblica fra due escort. E' un tentativo, magari sgangherato, di prendere per i fondelli i dossier del Giornale e di Libero contro i direttori “nemici” del Capo (prima Dino Boffo, poi Ezio Mauro). Qualche giorno dopo Libero, con la consueta eleganza, pubblica una gigantografia del fotomontaggio senza spiegarne il movente burlesco, anche perchè la satira era contro Libero e Il Giornale. Un eccesso di zelo porta la Repubblica e addirittura El Pais a prendere la cosa terribilmente sul serio: la tv del premier ha fabbricato un falso per dimostrare che il direttore di Repubblica frequenta le escort. Seguono fior di interrogazioni parlamentari dell'inflessibile Pd. Lo stesso sta accadendo a proposito del velinismo, che qualcuno attribuisce a Ricci in quanto autore di Drive In e poi di Striscia. In realtà, com'è noto, le veline ricciane sono la parodia di un fenomeno di teleprostituzione inventato da altri, vedi lo sconcio di Miss Italia e dei reality, per non parlare delle pornopubblicità sui giornali patinati. “Ora accuseranno Molière di aver inventato l'avarizia”, scherzava l'altra sera Ezio Greggio.

Nelle stesse ore alcuni pensosi commentatori si rigiravano fra le mani il bieco articolo del sottoscritto sul Fatto di domenica, “Resistenza, siamo al completo”, e quello simile di Alessandro Robecchi sul manifesto. Il senso dei due pezzi era chiaramente scherzoso: davanti alla marea montante dei voltagabbana che, fiutata l'aria che tira, stanno scaricando il povero Al Tappone, si avvertivano i naviganti che le iscrizioni alla Resistenza sono chiuse, siamo al completo, astenersi perditempo e convertìti last minute. La via di Damasco è momentaneamente interrotta, causa sovraffollamento. Apriti cielo. Mario Cervi - di cui Montanelli diceva che “quando fa il compitino non prende mai meno di 6, ma mai più del 6” - si produce in un'articolessa sul Giornale per difendere i sacri valori della Resistenza gravemente lesionati dal mio pezzullo (e chissà l'entusiasmo di Feltri, che esibisce sulla scrivania un busto bronzeo del Duce). “C'è qualcosa di intimidatorio - sbrodola il Cervi col ditino alzato - nel tono di Travaglio. I puri e duri si sono sempre opposti alla contaminazione delle loro file. La resistenza de noantri sporge il petto in fuori, gli eletti ritengono di essere eroici e intrepidi...” e conclude con un sapido: “guarda un po' dove va a rifugiarsi il marxismo...”. Il marxismo? Intimidatorio? I puri e duri? Il petto in fuori? ‘A Mario, stavo scherzando, la Resistenza era una battuta, possibile che ti si debbano spiegare pure le barzellette, come ai carabinieri?

Sul Corriere, Pigi Cerchiobattista in Montezemolo si scaglia contro “le sentinelle della purezza bipolare”, che “vigilano come se ogni critica fosse tradimento”, “inscenano processi alle intenzioni”, “chiedono di esibire i passaporti politici per controllare chi si muove e dove vuole andare” e giù duecento righe a base di “guardiani della frontiera”, “ansia di purificazione, concezione militaresca del bipolarismo, profluvio di sospetti, monito preventivo, spirito da caserma, democrazie mature”. ‘A Pigi, stavamo a scherza'!Tranquillo, era una burla, il tuo Luchino non te lo tocca nessuno.

BUFERA IN CAMPIDOGLIO La lettera del consigliere Bianconi "Niente favori se non mi aiuti..."

Dal Quotidiano Repubblica Roma
del 30 settembre 2009

di Giovanna Vitale
(Giornalista)


«Chieda subito scusa». È una lettera di censura pesantissima quella inviata ieri dal sindaco Alemanno a Patrizio Bianconi, il consigliere pidiellino che - rispondendo alla richiesta di informazioni di un cittadino - ha sollecitato in cambio del suo "onorevole" interessamento la stipula di «un patto di sangue» elettorale, ovvero il sostegno per sé e un suo compagno di partito alle prossime comunali, pretendendo per di più di conoscere l´indirizzo di casa, la mail e il numero di telefono in modo da poterlo «schedare» e rintracciare «quando ci servirà il voto suo e della sua famiglia».

Parole definite «inqualificabili» dal primo cittadino, che ha anche sollecitato il presidente dell´Aula Giulio Cesare ad «adottare tutti i provvedimenti del caso, incluse - ove possibile - sanzioni severe» nonché di «mettere sotto osservazione l´attività di Bianconi perché comportamenti del genere non si devono ripetere e non saranno mai più tollerati».

Sa di cosa parla, il sindaco. Il signor Marcello Mancini, titolare di un centro di ortopedia in Prati, quando ha ricevuto la risposta «scioccante» del consigliere capitolino, ha subito inoltrato l´intero carteggio ad Alemanno e a tutti i capigruppo dell´assemblea comunale, presentando pure un esposto alla Procura della Repubblica. «Ho chiesto al magistrato di intervenire perché in un paese democratico è inaccettabile che un libero cittadino subisca pressioni di questo tipo», spiega. È davvero sconfortato, Mancini: «Il mio dubbio è: si tratta dell´errore di un singolo o anche gli altri giovani politici sono educati alla scuola del ricatto e dello scambio di favori?».

Un dilemma che l´inquilino del Campidoglio ha tentato a stretto giro di sciogliere. Prima ha parlato con i suoi per verificare l´autenticità della corrispondenza, quindi ha preso carta e penna e inviato la censura scritta a Bianconi. Che tuttavia l´offesissimo Mancini reputa «il minimo indispensabile: in verità mi sarei aspettato una presa di posizione più dura, bisognerebbe dare una sterzata seria e forte, stigmatizzare con atti concreti certi tipi di comportamenti. Ora mi auguro solo che la questione non si risolva in un niente». Come in realtà avrebbe voluto il Pdl. Che per tutto il giorno ha fatto finta di ignorare il caso di Mangiafuoco, come il "focoso" consigliere è stato soprannominato. Più volte interpellato, il capogruppo Dario Rossin ha risposto in modo evasivo di «saperne poco», di non aver «ancora letto le carte». Fino a sera. Quando, appreso della lettera di Alemanno, s´è finalmente sbilanciato: «Ho convocato Bianconi, lo incontrerò tra oggi e domani per capire qual è la sua versione. Lui sostiene che è stato uno scherzo, certo di cattivo gusto, ma non ho motivo di non credergli». Una linea di cautela adottata anche dal vice-coordinatore romano del Pdl, Luca Malcotti: «Secondo me fra i due ci sono stati dei pregressi. Sarà successo qualcosa che non conosciamo. Altrimenti non ha senso: i consiglieri comunali vivono di consenso, coltivarlo sul territorio, nel contatto con i cittadini, è il nostro modo di fare politica. Avrò modo di parlare con Bianconi perché intanto noi dobbiamo accertare cosa è realmente accaduto».

Ad attaccare a testa bassa è invece il Pd. «È un comportamento inaccettabile che danneggia l´intero consiglio comunale», tuona il capogruppo Marroni, «chiederemo subito al presidente dell´Aula di censurare Bianconi». Parla di «squallore e tristezza infinita» Valeriani, «vorrei incontrare il signor Mancini per dirgli che non siamo tutti così», mentre Masini fa sue le parole di Napolitano e Vittorio Foa: «Chi rappresenta le istituzioni sia esempio di moralità».

Scandalo escort, Annozero insiste Domani sera ospite la D'Addario

Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 settembre 2009


ROMA - Annozero non molla lo scandalo escort. Dopo le polemiche, gli attacchi del centrodestra e l'istruttoria sul programma di Michele Santoro annunciata dal viceministro Paolo Romani, domani sera sarà Patrizia D'Addario a raccontare la sua verità sulle feste di Palazzo Grazioli. Una presenza che secondo lo stesso Romani ribadisce la necessità di verificare se nella trasmissione "si faccia davvero servizio pubblico". E che provoca una prima defezione tra gli ospiti previsti: Flavia Perina, direttrice del Secolo d'Italia, vicina al presidente della Camera Gianfranco Fini, ha deciso di non partecipare più alla puntata. Tutto questo mentre Giampaolo Tarantini, attraverso i suoi legali, invoca l'intervento del governo e dell'Agcom sul programma.

Secondo quanto appreso da Repubblica.it la donna che per due volte fu nella residenza del premier, e che nella seconda occasione si fermò per la notte, interverrà in diretta. Non è stato ancora deciso se in collegamento video o in studio.

Romani: "E' servizio pubblico?". "La D'Addario in trasmissione domani ad Annozero? Non conosco il programma, comunque ci sarà il solito problema se un programma di questo tipo e con queste presenze è compatibile con il servizio pubblico Rai". Così si è espresso il viceministro con delega alle Comunicazioni Romani, al termine dell'audizione in commissione di Vigilanza.

Flavia Perina: "Non vado più". "Avevo dato la mia disponibilità di massima a partecipare alla puntata di domani di Annozero, che mi era stata presentata - dice Flavia Perina, direttore del Secolo d'Italia - come dedicata al "sistema Tarantini" e al rapporto tra il potere e le donne. Ma l'annuncio della presenza in studio della signora D'Addario mi ha costretto a declinare l'invito, con la convinzione che una trasmissione così congegnata rischi di risolversi nella ricerca di facili effetti scandalistici. Ho troppo rispetto per la politica, e per il tema della dignità della donna, per affidarla a un confronto di questo tipo".

Tarantini. Per l'imprenditore al centro della vicenda delle escort, Annozero ha fatto "disinformazione"
con "strumentalità politica", in contrasto con "la finalità del pubblico interesse che è propria della televisione pubblica". Tarantini lo afferma, attraverso i suoi legali, in una missiva inviata al ministero dello Sviluppo Economico, all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, alla Commissione di vigilanza Rai, ai vertici di viale Mazzini e, per conoscenza, al direttore di RaiDue e alla redazione di Annozero. L'imprenditore barese chiede l'immediato intervento "per adottare i provvedimenti che si riterranno opportuni" in ordine alla puntata andata in onda il 24 settembre scorso, e, in particolare, "perché nella nuova trasmissione non vengano tenuti ulteriori comportamenti antigiuridici, in alcuni casi anche penalmente rilevanti".

Vigilanza Rai. In questi giorni di polemiche sulle questioni Rai, uno dei momenti più difficili è stato "quando il ministro Scajola ha usato espressioni che sono suonate 'sinistre' per tanti di noi". Espressioni che poi per fortuna sono state "alleggerite". Lo ha detto il presidente della commissione di Vigilanza Rai, Sergio Zavoli, nel breve intervento tenuto oggi in avvio dell'audizione di Romani.

La replica di Romani. Alle parole di Zavoli hanno fatto seguito quelle di Romani. Il viceministro ha sottolineato che la presenza oggi a Palazzo San Macuto rappresentava "la volontà di rispettare il ruolo di garanzia della Vigilanza" e sgombrava il campo da possibili equivoci. Romani ha sottolineato che il governo, che si appresta a incontrare i vertici della Rai il prossimo 8 ottobre proprio per il caso Annozero, ''non ha alcuna pretesa di verificare la linea editoriale della Rai'' e ha ribadito ''l'assoluta estraneità alla volontà di censurare persone o programmi'' né ha alcun obiettivo ''sanzionatorio'' o quello di ''coinvolgere la commissione in censure''.

D'altro canto, ha precisato ancora Romani ''il ministero ha facoltà di predisporre verifiche e ispezioni e chiedere informazioni alla Rai'' per ''controllare l'applicazione del contratto di servizio anche al fine di esercitare un potere di impulso nei confronti dell'Agcom, che in caso di inadempienza può intervenire con sanzioni''. Il tutto, ha concluso, ''nel pieno rispetto dei poteri della vigilanza''.

E al termine dell'audizione Zavoli è nuovamente intervenuto rilevando che "molte polemiche hanno trovato punti forti di mediazione. E' stato possibile perché argomenti e punti di vista sono stati circoscritti nella sede idonea. Il governo mi pare abbia recepito, e mi sembra che non voglia più insistere troppo. Si ricava una sensazione di relativa possibilità che questa grave polemica abbia trovato il giusto binario".

Berlusconi: "Manifestazione farsa"

Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 settembre 2009


ROMA - Per il premier, la manifestazione del 3 "è una farsa". "In Italia non c'è un problema di libertà di stampa". Su "Annozero" e "Parla con me", i programmi di Santoro e della Dandini al centro delle polemiche di questi giorni, il premier ha preso un atteggiamento "soft" venato di sarcasmo: "Lunga vita a loro, perché portano voti al centrodestra". E sull'istruttoria ventilata da Scajola sulla Rai, ha aggiunto: "Non me ne sono interessato e non me ne interesso perché sarebbe facile cadere in qualche tranello".

Come è noto, la manifestazione è in programma alle 15,30 di sabato, in Piazza del Popolo a Roma.


Un gruppo di Europarlamentari scrive. "Il rischio di una violazione della libertà e del pluralismo dei media in Italia è una questione che riguarda tutta l'Europa e che richiede una risposta Europea.

A seguito di una serie di azioni legali del primo ministro italiano contro numerosi giornali italiani ed europei, il Parlamento Europeo ha deciso di studiare il 7 Ottobre la possibilità di prendere una posizione verso il rischio di una violazione del pluralismo e dell'indipendenza dell'informazione. Il 22 Ottobre una risoluzione verrà presentata in assemblea plenaria, e chiediamo ai nostri colleghi europarlamentari di sostenerla.

La questione della libertà e pluralismo dell'informazione in Italia è necessariamente una questione di interesse europeo. La mancanza di una risposta europea rappresenterebbe una minaccia diretta al diritto di libertà d'espressione in tutta l'Unione europea, metterebbe in pericolo i progressi compiuti nei paesi dell'ex Unione Sovietica accolti nell'Unione, e limiterebbe l'autorità di qualsiasi condanna europea verso il controllo della stampa nel resto del mondo.

Le istituzioni europee hanno l'autorità di condannare le intimidazioni alla stampa in Italia e di aprire una procedura legale secondo l'Articolo 7 dei Trattati. L'interesse che dimostrano verso la situazione in Italia non è sintomo di endemica anti-italianità, ma segnale di una forte preoccupazione per la possibile lesione di una delle libertà fondamentali su cui è costruita l'Unione Europea in uno dei suoi paesi fondatori.


Lorenzo Marsili e Niccolo Milanese (Direttori, European Alternatives)

I seguenti europarlamentari sono fra i sostenitori della Campagna Europea per la Libertà dei Media in Italia (www.stampalibera.eu) lanciata dall'organizzazione indipendente European Alternatives

Rosario Crocetta, Parlamentare Europeo (Italia): Sonia Alfano, Parlamentare Europeo (Italia): Luigi de Magistris, Parlamentare Europeo (Italia): Gianni Vattimo, Parlamentare Europeo (Italia): Sylvie Guillaume, Parlamentare Europeo (Francia); Vincent Peillon, Parlamentare Europeo (Francia); Sarah Ludford, Parlamentare Europeo (Regno Unito); Claude Moraes, Parlamentare Europeo (Regno Unito);
Judith Sargentini, Parlamentare Europeo (Olanda).

martedì 29 settembre 2009

STRAGI, L’OMBRA DEL DEPISTAGGIO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 29 settembre 2009

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(Giornalisti)



Sono tre segugi della lotta a Cosa nostra, tre poliziotti che hanno fatto la storia dell'antimafia, schierati in prima linea nel mitico gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, il reparto creato ad hoc all'inizio del 1993 per svelare il mistero delle stragi siciliane. Sono loro i nuovi indagati dalla Procura di Caltanissetta, che ora devono rispondere dell'accusa di aver imbastito, agli ordini del loro capo Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, il più clamoroso depistaggio della storia delle indagini antimafia: quello sulla strage di via D'Amelio. Dei tre, due risultano già iscritti nel registro degli indagati: sono Vincenzo Ricciardi, 60 anni, originario di Benevento, oggi questore di Novara, e Salvatore La Barbera, 48 anni, milanese, dirigente della Criminalpol a Roma. Il terzo sta per essere identificato.

Il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e i pm Domenico Gozzo, Nicolò Marino, Amedeo Bertone e Stefano Luciani, titolari del fascicolo, ipotizzano per i tre lo stesso reato: concorso in calunnia. Secondo la ricostruzione della Procura, sarebbero stati loro a confezionare il meccanismo perfetto della falsa pista che negli ultimi 17 anni ha ingannato i magistrati inquirenti e anche i giudicanti, fino a reggere persino in Cassazione, dopo tre processi e nove gradi di giudizio: sentenze che i pm nisseni si apprestano a rimettere in discussione, sollecitando la revisione del processo Borsellino-bis, nel quale sarebbero stati condannati all'ergastolo alcuni “presunti innocenti”.

In un clima di costante allarme, nel timore che l'indagine possa essere “monitorata” da pezzi deviati dello Stato, l'inchiesta sull'uccisione del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta sta per entrare, dunque, nella sua fase più “calda”: l'esame delle presunte irregolarità commesse dalla polizia di Stato, un passaggio che rischia di provocare una frattura istituzionale senza precedenti.

Nè Salvatore La Barbera, nè Ricciardi si sentono adesso di rilasciare dichiarazioni sul loro coinvolgimento nell'inchiesta nissena. La Barbera ha tagliato corto: “Non ho nulla da dire. Parlerò, quando sarà il momento, con i magistrati”. Il questore di Novara, cercato tramite il suo capo di gabinetto, non ha ritenuto opportuno intervenire. Anche lo “storico” legale del defunto prefetto Arnaldo La Barbera, l'avvocato Carlo Biondi, il penalista che lo difese nel processo per la sanguinosa irruzione alla scuola “Diaz” durante il G8 di Genova, al quale è stata chiesta una replica tramite la sua segretaria, non si è poi fatto vivo. Un riserbo, d’altra parte, più che comprensibile in un momento così delicato e difficile.

L'ipotesi dei pm di Caltanissetta è che i poliziotti, obbedendo alle direttive del loro capo, avrebbero messo in piedi un articolato “aggiustamento” dell'indagine sulla strage di via D'Amelio, centrandola sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino, l'operaio che si autoaccusò del furto dell'auto-bomba, e che oggi viene sbugiardato dal neo-pentito Gaspare Spatuzza.

Ricciardi e Salvatore La Barbera sono considerati grandi esperti di polizia giudiziaria con una carriera prestigiosa alle spalle. Capo della mobile ad Agrigento, della scientifica a Firenze, della polizia di frontiera a Malpensa, poi questore di Lecco e oggi di Novara, Ricciardi ha trascorso tutta la sua vita professionale nella polizia giudiziaria, così come Salvatore La Barbera, inviato come vice-capo dell'Interpol a Lione, dopo il periodo palermitano delle indagini sulle stragi. Entrambi hanno ricevuto numerosi attestati ed encomi. Ad accusarli, oggi, sono gli stessi testimoni sulla base dei quali la Cassazione ha ritenuto credibile la “pista Scarantino”: Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Quest'ultimo, ex compagno di cella di Scarantino, ha recentemente confessato di avere subito minacce e pressioni da parte dei funzionari di polizia indagati.

Secondo i due balordi, che dopo il pentimento di Spatuzza hanno quindi ammesso di aver partecipato al depistaggio, il “regista” dell'intera manovra sarebbe stato il prefetto Arnaldo La Barbera, considerato un asso della lotta alla mafia. Ora sia Candura, uno dei complici di Scarantino, che Andriotta, accusano i funzionari di polizia di aver loro estorto le dichiarazioni che hanno portato l'inchiesta di via D'Amelio su un falso binario . I pm nisseni di allora, l'ex procuratore Giovanni Tinebra, l'aggiunto Paolo Giordano, e i sostituti Carmelo Petralia e Fausto Cardella, interrogati dai colleghi di oggi, hanno confermato che il “dominus” di quella indagine era appunto Arnaldo La Barbera. Grazie anche, sostengono a Caltanissetta, ad un Csm inspiegabilmente distratto, che ha lasciato le prime investigazioni sulle stragi del 1992, di fatto, in balia della polizia, assegnando quell'anno alla Procura di Caltanissetta magistrati non palermitani, per nulla esperti di mafia, solo perchè “emotivamente non coinvolti” . Lo ha confermato, sia pure a denti stretti, per il rapporto di stima che l’ha sempre legata al questore deceduto, anche Ilda Boccassini, l'unica di quel gruppo che aveva una competenza specifica su fatti di mafia, dal momento che a Milano si era già occupata dell'inchiesta Duomo Connection. Ilda la “rossa”, in realtà, era venuta in Sicilia per seguire le indagini sulla strage di Capaci e sulla morte di Giovanni Falcone. Quando le fu assegnato anche il fascicolo di via D'Amelio, in un primo tempo, avallò la pista Candura-Andriotta, poi si dissociò apertamente con una lettera nella quale prendeva le distanze da Scarantino. Interrogata nei giorni scorsi dai pm di Caltanissetta, Boccassini ha sollevato dubbi sul rigore deontologico dei colleghi di allora, facendo riferimento ad una lettera ritrovata agli atti in cui lei stessa, poco prima di abbandonare la procura nissena, raccomandava al procuratore Tinebra di vigilare affinchè i suoi sostituti verbalizzassero i pentiti “nel rispetto delle norme processuali”.

Contro i poliziotti sotto inchiesta, oggi i magistrati procedono con i piedi di piombo, consapevoli che le accuse provengono dagli stessi soggetti che diciassette anni fa furono protagonisti del depistaggio.

Ma perchè Arnaldo La Barbera, investigatore di grande esperienza, avrebbe dovuto imbastire un così perverso canovaccio? Due sono le ipotesi, formulate sinora sia pure con cautela, dai pm di Caltanissetta. La prima è la cosiddetta “ragion di Stato”: la fretta, in un momento di forte offensiva mafiosa e di concomitante incertezza istituzionale, di trovare un colpevole in tempi brevi per rassicurare l’opinione pubblica e rafforzare la credibilità dello Stato. In questo caso, ipotizzano gli inquirenti, La Barbera e i suoi uomini avrebbero attribuito ad un ignaro Scarantino le informazioni sul furto dell’autobomba raccolte sul territorio attraverso una rete di anonimi confidenti: notizie che i poliziotti sapevano essere fondate, ma senza possibilità di un rapido sviluppo investigativo. E per capire come un superpoliziotto del calibro di La Barbera abbia potuto consapevolmente “consegnare” all'opinione pubblica e alla giustizia un falso stragista come Scarantino, reclutato nel mondo sommerso dei piccoli criminali di borgata , i pm stanno valutando le ultime rivelazioni di Gioacchino Genchi, il super esperto di informatica che fu tra i protagonisti di quella stagione investigativa.

Interrogato recentemente a Caltanissetta, Genchi avrebbe fornito il ritratto inedito di un La Barbera psicologicamente fragile ed esageratamente bisognoso di riconoscimenti professionali. Poco prima di lasciare per sempre le indagini, Genchi si sarebbe dissociato dai metodi del futuro questore durante un drammatico colloquio notturno, nel quale l'informatico avrebbe comunicato tutte le sue riserve al superpoliziotto che, commosso fino alle lacrime, avrebbe confessato al giovane collega il suo bruciante desiderio di carriera, per compensare una vita privata che fin lì non gli aveva offerto molto.

La seconda ipotesi, formulata dai pm nisseni, sulle cause del depistaggio di La Barbera e della sua squadra, è il dolo, e apre scenari inquietanti. E' un'ipotesi che teorizza la volontà di orientare consapevolmente magistrati e investigatori verso un obiettivo “minimalista”, tutto puntato in direzione della manovalanza criminale, per distrarli dalle indagini sui mandanti occulti, che in quei mesi avevano già preso corpo. Si tratta della stessa convinzione più volte manifestata da Genchi che, ai pm nisseni , però, adesso avrebbe fornito nuovi elementi, tuttora top secret.

Quella del dolo, cioè del depistaggio teso a “salvare” i mandanti a volto coperto della strage di via D'Amelio, è un'ipotesi che conduce dritto ai misteri dei servizi segreti: un filone d’inchiesta recentemente arricchito dalle dichiarazioni di una decina di collaboratori che hanno parlato dell'esistenza di una struttura supersegreta, collegata alle istituzioni, in grado di fornire input a Cosa Nostra, per spingerla ad eseguire una serie di “operazioni eversive” a Palermo: le stragi di Capaci e Via D'Amelio, il fallito attentato dell’Addaura, l’omicidio del piccolo Claudio Domino e quello dell’agente di polizia Nino Agostino, della moglie Ida Castelluccio e del giovane collaboratore del Sisde Emanuele Piazza. Un personaggio misterioso dei servizi compare anche nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sulla cosiddetta trattativa tra mafia e Stato, parallela all’eccidio di via D’Amelio, supervisionata da un misterioso 007 (un certo “Carlo” o “Franco”), e decisiva per imprimere un’accelerazione al ribaltone istituzionale che avrebbe condotto alla Seconda Repubblica.