giovedì 31 dicembre 2009
Felice Anno Nuovo
L’AFFARE DI VILLA POLLARI
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 31 dicembre 2009
di Marco Lillo
(Giornalista)
Su Internet una villa simile si trova in vendita a 2 milioni di euro. Eppure l’uomo più fidato del premier Silvio Berlusconi quando si parla di intelligence, Nicolò Pollari, l’ha pagata 500mila euro nel luglio del 2005. Un generale di lungo corso passato da 8 anni ai servizi segreti dove si si incassano stipendi ben più sontuosi di quelli delle Fiamme gialle probabilmente può disporre di 500mila euro più altri 3-400mila per la ristrutturazione di questa villa da 400 metri quadrati coperti più 1400 scoperti con piscina e trampolino. Quello che rende questa storia, scoperta da Il Fatto quotidiano, davvero oscura non è l’origine dei soldi ma l’origine dei rapporti tra i due contraenti e l’incrocio di interessi privati e pubblici che l’affare nasconde. A vendere quella villa a Pollari è stato il San Raffale di don Verzé. E di Pio Pompa. Per capire cosa si nasconde dietro la siepe di alloro che circonda la villa bisogna partire dall’inizio. Pollari, l’uomo che ha guidato il servizio segreto militare dal 2001 al novembre 2006, è indagato a Perugia insieme con il suo braccio destro, Pio Pompa, che era stato prima consulente di Pollari e poi funzionario assunto in pianta stabile nel Sismi dal 2004. Nel suo ufficio segreto di via Nazionale Pompa raccoglieva dossier sui magistrati e i giornalisti considerati ostili a Berlusconi. Il pm di Perugia Sergio Sottani ha inviato un mese fa l’avviso che chiude le indagini e prelude solitamente a una richiesta di rinvio a giudizio. Pollari e Pompa sono accusati di aver distratto "somme di denaro, risorse umane e materiali" per fini diversi da quelli istituzionali, come la redazione di “analisi sulle presunte opinioni politiche, sui contatti e sulle iniziative di magistrati, funzionari dello Stato, associazioni di magistrati anche europei, giornalisti e parlamentari”. Ai due ex funzionari è stata contestata anche l’indebita intrusione nella vita privata delle persone schedate. Come Il Fatto ha rivelato, sulla vicenda, per proteggere i segreti di Pompa e Pollari, Silvio Berlusconi ha opposto il segreto di Stato. Il premier non ha voluto rivelare alla Procura di Perugia (che indaga perché tra le vittime dei dossier ci sono i pm di Roma) se il Sismi avesse pagato per quelle attività e chi le avesse ordinate.
Nessun quotidiano, a parte il nostro, si è degnato di approfondire una vicenda scandalosa nella quale un premier appone il segreto per proteggere le attività di intelligence abusiva fatte dai suoi servizi proprio per tutelarlo dalle attività di inchiesta sulle sue malefatte a parte dei due contropoteri di ogni democrazia che funzioni: magistratura e stampa. In splendida solitudine Il Fatto ha cominciato a raccontare cosa c’è nelle carte dell’archivio di via Nazionale allestito con i soldi pubblici e sotto il coordinamento del capo del Sismi.
Tra i documenti inediti spicca la cartellina contenente il carteggio, risalente al 2001, tra Pio Pompa e don Luigi Maria Verzé, il sacerdote imprenditore amico di Silvio Berlusconi. Quando Pompa non era ancora entrato al Sismi ed era solo un consulente di Pollari, allora numero due del Cesis, l’aspirante agente segreto lavorava per il sacerdote che ha creato il San Raffaele di Milano e che voleva espandersi a Roma e in tutto il mondo.
Pompa, mentre vergava analisi contro i pm per convincere Pollari ad assumerlo nei servizi, scriveva a don Verzé per convincerlo a raccomandare Pollari come capo del Sismi a Berlusconi.
Nella lettera a don Verzé, sequestrata in via Nazionale, Pompa dichiara di appartenere a una lobby, che somiglia a una setta: “i raffaeliani”. Tutti amici di don Verzé, tutti pronti a muoversi all’unisono per ottenere fondi pubblici, cambi di destinazione per i terreni, e nomine. Nella lettera si legge “Caro presidente ... la direzione dell’importante Organismo (il Sismi Ndr) per noi Raffaeliani consiste nella possibilità di sostenere adeguatamente i progetti di consolidamento economico e sviluppo futuro attraverso interventi che potranno assumere la seguente articolazione...”. Tra i sette progetti prioritari, Pompa indicava al punto 3 (come si può leggere sotto) quello di Mostacciano: “costituzione di un ‘centro studi’ utilizzando in affitto la villa limitrofa al Parco biomedico. Da tale struttura sarà anche possibile dare un forte impulso allo sviluppo delle attività di ricerca e del business complessivo del Parco... in considerazione soprattutto delle prospettive e della mission sottese a Castel Romano. In tal senso abbiamo la possibilità di avvalerci degli ottimi rapporti di amicizia resi disponibili dall’amico N. (Pollari Ndr) con i vertici del Polo tecnologico, il Presidente Geronzi e i responsabili degli organismi deputati al finanziamento dei progetti di ricerca”.
Pompa, in sostanza, sta dicendo: “caro don Verzé, tu fai nominare Pollari al Sismi e, grazie a lui, riusciremo a fare tanti affari. Per esempio, potremo metterci insieme al Sismi per fare ricerca con fondi pubblici da usare anche per sviluppare il campus che stiamo costruendo a Castel romano, vicino a Roma. Non solo: potremo prendere due piccioni con una fava, usando come ufficio per la ricerca comune (affittandola) la villetta che sorge accanto alla sede del Parco biomedico del San Raffaele a Mostacciano”.
Pompa nei suoi documenti
nomina altre tre operazioni immobiliari da effettuarsi a Roma e Olbia. Questi affari, avevano insospettito anche la Procura di Milano, che scrive nel dicembre 2006: “ deve essere devoluta alla valutazione della Procura di Roma la valutazione di documenti riguardanti operazioni immobiliari, pure sequestrati in via Nazionale a Roma, apparendone opportuno l’approfondimento”. A Roma però nessuno avvista la storia di villa Pollari. Ma cosa accade dopo quella lettera di Pompa dell’estate 2001? Berlusconi sceglie Pollari come capo del Sismi a settembre. Nel 2002 parte il campus del San Raffaele a Castel Romano. Nel 2004 Pollari assume Poma e, da capo del Sismi gradito ai “Raffaeliani”,
compra una villa dal San Raffaele proprio accanto alla sede del parco biomedico che sembra proprio quella descritta da Pompa nella lettera del 2001. Nel 2006 Francesco Bonazzi su “L’espresso” scrive che in quella villa è attiva una sede del Sismi, in affitto da don Verzé. Sarà quella di Pollari?
Il Fatto Quotidiano ha contattato l’avvocato Titta Madia, legale di Pollari, che - dopo essersi consultato con il cliente - replica: “È un errore. La villa acquistata dal generale non è quella”. Sarà. Resta il fatto che i “raffaeliani”, dopo aver perorato la nomina di Pollari, hanno fatto un affare con lui. E resta un dubbio: la villetta di Pollari è stata venduta a un prezzo basso al generale per essere poi ristrutturata e usata dal Sismi?
Ieri nel cortile della villa si vedeva una casetta e un canestro giocattolo. Ma non c’erano bimbi. Solo una station wagon, una Bmw Roadster Z4 cabrio e un furgone blu.
Chissà chi ci vive. Una cosa è certa Pollari ha fatto un affarone. La magione di Mostacciano è disposta su quattro livelli: due ingressi, due saloni, sei camere, due soggiorni, cinque bagni, due vani guardaroba, lavanderia e garage, tre terrazze, giardino di 1.400 metri e una bella piscina con trampolino. La villa era stata comprata nel 1994 dal San Raffaele a un prezzo di 2 miliardi e 400 milioni, più del doppio di quanto ha pagato Pollari. Quando il 28 luglio del 2005, davanti al notaio Giancarlo Mazza, acquista la casa, il generale rappresenta con apposita procura anche la moglie. Nell’abitazione sono stati eseguiti alcuni abusi edilizi e il San Raffaele garantisce che, se il condono presentato negli anni ottanta non andrà a buon fine, Pollari non tirerà fuori un euro per integrare la sanatoria. Probabilmente per giustificare il prezzo basso, i contraenti allegano una perizia dell’ingegnere Santino Tosini nella quale si fa notare lo stato pietoso dell’immobile: gli infissi divelti dagli occupanti abusivi della casa, abbandonata per anni dal San Raffaele, gli impianti non funzionanti, le erbacce e il cancello divelto. La perizia si conclude con una frase: “lo stato del fabbricato sito in Roma, ..., è totalmente fatiscente e sicuramente non agibile a meno dell’effettuazione di radicali lavori di ripristino strutturale e di rifacimento di pavimentazioni, impianti, infissi, ecc..”. Che sono stati fatti senza badare a spese. Chissà chi li ha pagati.
I ragazzi dello zoo di Bettino
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 31 dicembre 2009
di Marco Travaglio
(Giornalista)
Fra le varie balle che circolano su Craxi, la più indecente è quella secondo cui nel 1992-’93 i socialisti erano trincerati nel bunker di Craxi, assediati da toghe rosse e giustizialisti assortiti. La verità è che i primi a scaricare Craxi furono proprio i ragazzi dello zoo di Bettino: quel variopinto caravanserraglio di nani e ballerine, prosseneti e miliardari che si faceva chiamare Partito Socialista. Al primo scossone i topi fuggirono dalla nave, in linea con la tradizione italiota della fuga da Caporetto descritta da Malaparte ne La rivolta dei santi maledetti: “Fuggivano gli imboscati, i comandi, le clientele, fuggivano gli adoratori dell’eroismo altrui, i fabbricanti di belle parole, i decorati della zona temperata, i giornalisti, fuggivano i Napoleoni degli Stati maggiori... fuggivano tutti in una miserabile confusione, in un intrico di paura, di carri, di meschinerie, di fagotti, di egoismo e di suppellettili, tutti fuggivano imprecando ai vigliacchi e ai traditori che non volevano più combattere e farsi ammazzare per loro”. Claudio Martelli, il delfino, prometteva “rinnovamento” per “restituire l’onore ai socialisti”, esaltava “la salutare azione dei giudici di Mani pulite”, strapazzava Craxi per aver rifiutato di “usare la scopa o la spada contro i corrotti”; “Bettino non lo riconosco più, mi ricorda Salò” (30-9-92); “Ha lasciato che il malcostume si diffondesse e ha risposto in modo improvvido alle inchieste sulla corruzione” (28-11-92). Gianni De Michelis, che Biagi chiamava l’Avanzo di Balera, denunciò “la gestione lacunosa del Psi” e la “scarsa attenzione alla degenerazione dei partiti” (19-6-92). Rino Formica, che ora delira di complotti internazionali, non aveva dubbi: “Il Psi era pieno di craxini che, non riuscendo a realizzare il socialismo, cercavano almeno un po’ di benessere” (1-11-92), “Craxi si comporta da stalinista, usa metodi autoritari e dispotici” (11-11-92). Ferocissimo Ottaviano Del Turco: “Non mi stupisco affatto del partito degli affari all’interno del Psi. Ho sempre denunciato quelli che brillano per la luce dei soldi, come Paperon de’ Paperoni” (15-5-92); “Craxi non ha messo a disposizione del partito alcunché. Dei conti esteri non mi disse nulla” (8-11-94). Perfino Paris Dell’Unto, detto Er Roscio, sparava a zero: “Craxi non ne azzecca più una. Più che un caso politico, è un problema sanitario” (13-11-93); “Bettino non si rende conto che rischia di eliminare non il Psi, ma cent’anni di storia. La gente non ne può più di ville al mare, yacht, feste, notti al night e mignotte” (3-5-93). E perfino il cognatissimo Paolo Pillitteri cannoneggiava: “Io la chiamerei Cupola per rendere l’idea di quel che è successo fra politici e imprenditori a Milano” (3-5-92). Anatemi anche dal cappellano Gianni Baget Bozzo: “Craxi doveva andare a Milano e chiedere perdono. C'è una questione morale, prima che politica. Nel centenario del Psi bisognava chiedere scusa per le tangenti incassate. Persino il Pci ha dovuto dire: ho sbagliato” (11-9-92). Francesco Forte, reduce dai pellegrinaggi in Somalia, tuonava: “Sono stufo di andare a comprare i giornali e sentirmi dire: ‘Ma questo non è ancora in galera?’. Mi vergogno di essere un politico, per giunta socialista” (9-7-92). E Giuliano Amato: “Molti nel partito si sono arricchiti: bisognava buttarne via qualcuno” (26-11-92). Intanto Craxi fuggiva ad Hammamet e Berlusconi fingeva di non conoscerlo: “Io a Craxi non devo nulla” (21-2-94); “Ho sempre riconosciuto il ruolo dei magistrati nella lotta al sistema perverso della Prima Repubblica. Tv e giornali della Fininvest sono stati sempre in prima linea nel difendere i magistrati e in particolare Di Pietro” (6-12-94). La migliore resta quella di Bobo Craxi, che a 25 anni era già segretario del Psi milanese per discendenza diretta: “Non mi sono mai considerato craxiano” (10-9-92). Ecco, per i craxiani vale quello che diceva Montanelli dei Savoia: “Sono come le patate: la parte migliore è sottoterra”.
mercoledì 30 dicembre 2009
MISTERO RIFORMISTA
Dal Blog Luigidemagistris.it
del 30 dicembre 2009
di Luigi De Magistris
(Europarlamentare IDV)
Nella politica nazionale riecheggia un unico coro: facciamo le riforme, modernizziamo il Paese. In molti, ufficialmente, sostengono che senza questa benemerita stagione riformista l'Italia resterebbe impantanata in quella condizione di immobilità in cui dorme sorniona da tempo. Ma cosa vuol dire "riforme"? In che cosa dovrebbero consistere e con che metodo andrebbero varate, nessuno lo sa bene fino in fondo e circolano idee diverse, spesso in conflitto fra loro. In casa Pd si parla di superamento del bicameralismo perfetto con l'introduzione di un Senato federale, con la riduzione del numero dei parlamentari, con una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini cioè che è stato tolto loro: la possibilità di indicare i propri rappresentanti in Parlamento, superando la legge elettorale in vigore che lascia la decisione alle nomenclature dei partiti, secondo logiche familistico-clientelari con le quali la fedeltà servile il più delle volte soffoca il merito, la volontà delle segreteria schiaccia quella dell'elettore. Per farlo, aprono ad un confronto parlamentare col centrodestra affermando una fedeltà imprescindibile alla Costituzione che speriamo essere sincera. Queste riforme potrebbero anche essere sottoscritte, il problema è chi siede dall'altra parte del tavolo del confronto e con quali obiettivi. Nell'epoca del peronismo di Arcore il dialogo e il confronto sono impossibili. Il tentativo perpetrato dal premier è infatti quello di introdurre, ad ogni occasione propizia, una dose di veleno politico-sociale, ma soprattutto dietro la promessa riformista, si nascondono (male) ben altre finalità. Ci si può confrontare, per il presunto bene del Paese, con chi del Paese se ne frega pensando esclusivamente a cautelarsi dai processi e a distruggere la magistratura? Quale interlocutore può essere chi offende costantemente una parte della società attaccando i suoi equilibri costituzionali e democratici, nonché la sua bibbia laica, la Costituzione? Su cosa ci si confronta poi se per il PdL le riforme invocate si riducono, sic stantibus rebus, soltanto alla manomissione della giustizia e all'approvazione di leggi ad personam, che aspettano il Paese alla ripresa dei lavori parlamentari e dell'attività politica dopo la pausa natalizia? Riforme per il vantaggio di tutti si chiamano in verità lodo Alfano in salsa costituzionale, ddl processo breve, legittimo impedimento (tutte oggetto della prossima attività parlamentare), mentre prosegue il lavorio per assestare il colpo definitivo alla magistratura con l'idea di sottomettere il pm all'esecutivo e di introdurre il famigerato ddl intercettazioni. Parallelamente, dietro il paravento della retorica riformista, il centrodestra spinge in direzione di un presidenzialismo sempre più forte per arrivare ad un sistema in cui "il capo" sia progressivamente svincolato da ogni freno nella sua azione. Insomma, questa pagina che si è aperta incute timore a chi crede nella democrazia. Così nel presunto dialogo riformista, che purtroppo evoca stagioni di inciuci e bicamerali di seconda generazione, salgono alla ribalta vecchi protagonisti di una periodo che ha significato la caduta di ogni argine al berlusconismo e che c'è da sperare non ritorni. Prima la carica al ministero degli esteri europeo, ora la presidenza del Copasir, baffetti conosciuti risalgono la corrente della cronaca. Dall'altra parte, come in passato, sempre lui: il sovrano d'Arcore. Come non preoccuparsi? Come non dire no al confronto, quando appare così pieno di insidie? Riformismo e riforme si fanno per il bene del Paese (ammortizzatori sociali, sistema di welfare, diritti) non a suo danno, ma soprattutto non per introdurre, sotto mentite spoglie, leggi di immunità per uno solo: il Capo dei capi.
Consulta, strumento di libertà
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 dicembre 2009
di Lorenza Carlassarre
(Professoressa emerita di diritto costituzionale all'Università di Padova)
La Corte costituzionale non è soltanto giudice delle leggi , ma anche dei conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra Stato e Regioni e fra Regioni; delle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica (art.134); dell’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo (art.2 legge cost. 1953, n.1). Inutile sottolineare l’importanza del suo ruolo, al centro del sistema, garante del rispetto dei limiti reciproci degli organi di vertice e degli enti territoriali. I ‘poteri’ dello Stato che possono sollevare conflitto a difesa della propria sfera di competenza sono il Presidente della Repubblica, i due rami del Parlamento, il Governo, il Consiglio superiore della magistratura, il Ministro della giustizia e i magistratitutti .Mentreiconflitti Stato/Regione sono stati subito numerosi, pochissimi, invece, i conflitti fra poteri dello Stato: gli organo politici trovavano volentieriunavianongiuridica per risolverli. I primi casi riguardavano soltanto conflitti con organi estranei alla politica, neutrali come i giudici con i quali non potevano trovarsi accordi o mediazioni politiche. Più tardi, alterato l’equilibrio fra partiti, i ricorsi alla Corte costituzionale sono stati più frequenti. Alcuni incredibili, che la Corte non ha potuto neppure ammettere al giudizio: famoso il ricorso del Ministro della giustizia Mancuso,indisaccordocolgovernodicuifacevaparteeconla maggioranzaparlamentarechelososteneva,laqualeglivotòla sfiducia: ma lui, non volendo dimettersi, si rivolse alla Corte contro il Parlamento, il Governo e lo stesso Capo dello Stato! Numerosi i conflitti fra una delle Camere e i giudici che avevano iniziato procedimenti nei confronti di deputati o senatoriperreaticomunichegliinquisitipretendevanocopertida immunità perché ‘commessi nell’esercizio delle funzioni’ nonvolendonemmenorisarcireidanniallepersoneoffeseda ingiurie e/o diffamazioni... Spesso fu coinvolto l’on. Sgarbi che, da una televisione privata, in una trasmissione di cui era unico protagonista, diffamava chiunque lo avesse ‘disturbato’,pretendendochesitrattassediopinioniespressenellasua funzione di parlamentare (art. 68 Cost.). Casi poco edificanti, dicuideveoccuparsilaCorteperchéilParlamentointerviene adifesadellesueprerogativecheritiene(spessoasproposito) violatedaimagistrati.Eppure,nonostantequestadeprecabile prassi, si parla d’introdurre immunità nuove! Apprendiamo ora che intenderebbe valersi dell’immunità parlamentare il Presidente Berlusconi per difendersi dall’azione del gruppo “Espresso” per l’invito rivolto agli imprenditori di non dare più la pubblicità ai giornali ‘nemici’: sempre ‘opinioni’ espresse nell’esercizio della sua funzione di parlamentare? Un caso grave di conflitto fra poteri in una situazione più tragica si è aperto nella penosa vicenda di Eluana Englaro: dopo una sentenza della Cassazione che aveva consentito l’interruzione del trattamento, fra le tante reazione scomposte vi fu anche il ricorso del Parlamento contro la Cassazione stessa per aver usurpato le sue funzioni legislative, ‘creando’ una norma nuova. Quasi non bastasse l’art. 32 Cost. che vieta i trattamenti sanitari senza consenso! La Corte costituzionale respinse il ricorso dichiarando una cosa ovvia – ma non ovvia, forse,perlamaggioranzachecigoverna-cheinquelcasonon c’erano vuoti normativi da colmare, ma soltanto norme da interpretare, e che l’interpretazione è funzione dei giudici. Un’altraimportanteattribuzionedellaCorteègiudicareilPresidente della Repubblica messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune per attentato alla Costituzione e alto tradimento (art. 90). Ipotesi estreme che non hanno mai portato ad un giudizio. Durante un tempestoso settennato del Presidente Cossiga, contro di lui furono presentate varie denunce per attentato alla Costituzione, una proveniente dai Gruppi parlamentari del Pds (5 dicembre 1991) “per fermare il processo degenerativo delle istituzioni” sul quale da tempo i costituzionalisti con vari appelli richiamavano l’attenzione. Non un singolo atto veniva indicato, ma una serie “di atti e comportamenti che, nella loro concatenazione logica e temporale, risultano intenzionalmente destinati a mutare la forma di governo con mezzi non consentiti dall’ordinamento costituzionale”.
L’intento di tutti era fermare, appunto, quel processo degenerativo;qualcheriflessionesull’oggimipares’imponga (anche se non sui comportamenti del Capo dello Stato).
L’ultima importante attribuzione della Corte (aggiunta dalla legge cost. 1953, n.1) è giudicare l’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo.
Come sottolineavo nel numero precedente, i Costituenti presero ogni precauzione per evitare la politicizzazione della giustizia costituzionale.
Oltre all’attenzione per la sua composizione, importante è che la Corte non possa scegliere la materia su cui intervenire: nei conflitti l’iniziativa è dell’organo leso; nei giudizi sulle leggi è del giudice - tramite necessario per i cittadini cui non è consentito il ricorso diretto - ;
lo Stato ricorre contro una legge regionale, la Regione contro una legge statale che violi la sua competenza legislativa; le accuse contro il Presidente della Repubblica le formula il Parlamento.
La retorica degli pseudoriformisti
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 dicembre 2009
di Gianfranco Pasquino
(Professore Universitario)
In questi tempi cupi abbiamo una quasi certezza: i politici italiani sono diventati tutti riformisti, pardon, riformatori. In verità, chi ha un po’ di memoria storica sa che la retorica delle riforme istituzionali cominciò trent’anni fa con il lancio della Grande Riforma ad opera di Bettino Craxi che, poi, si adoperò attivamente, e con successo, per fare fallire la prima Commissione per le Riforme istituzionali. Qualcuno sa anche che se, nella famosa frase di Che Guevara, “Il dovere di ciascun rivoluzionario è di fare la rivoluzione”, logicamente, il dovere di ciascun riformista è fare le riforme. Ma, per definizione, le riforme sono cambiamenti, trasformazioni, interventi di carattere generale che promettono di migliorare la qualità della vita, economica, sociale, religiosa (il Concilio Vaticano II e, prima, la Riforma Protestante), istituzionale. Non sono, nella maniera più categorica, leggine ad hoc per salvare qualcuno. Il carattere generale e molto concreto delle riforme serve a segnalare con sufficiente chiarezza le differenze dai provvedimenti di salvataggio (non soltanto di persone, ma di aziende e di specifiche categorie sociali). Senza bisogno di interrogarsi su quanto il discorso, ipocrita, ripetitivo, privo di contenuti precisamente valutabili, serva essenzialmente a oscurare l’ignoranza e l’incapacità dei politici, si noti, sia quelli al governo sia quelli all’opposizione, appare opportuno chiedersi perché nessuno, a cominciare dai mass media, chiami il bluff.
Naturalmente, neppure nei mass media si trovano commentatori sufficientemente esperti, in chiave comparata, per capire di che cosa parlano in maniera cifrata i politici e a quali modelli bisognerebbe guardare. D’altronde, i politici comunicano fra di loro deliberatamente in maniera cifrata, ma vogliono anche mandare messaggi ai loro elettorati di riferimento. Il federalismo fiscale è certamente una riforma; probabilmente è anche una riforma fatta male, ma l’elettorato leghista lo percepisce come un grande successo del Bossi, del Calderoli e del Maroni. La manipolazione del linguaggio è andata talmente avanti che neppure il Partito Democratico riesce a chiamarsi fuori. D’altronde quello di cui sembra discutersi è la magica “bozza” di un loro esponente: Violante. Non è chiaro in quale sede di partito quella bozza sia stata discussa. Non è neppure chiaro se esista una sede nella quale discuterla. Il problema, però, è che a questo punto sembra difficilissimo per Bersani chiamarsi fuori. Utile, anzi, imperativo, dire no alle leggi ad personam, ma indispensabile ricordarsi che esistono anche limiti costituzionali a qualsiasi riforma, ad esempio, della forma di governo e, ancor più, dei diritti dei cittadini. Il fatto è che, già caduto nella trappola di un federalismo che non è comunque tale, il Partito Democratico teme che chi non si dichiara riformista verrà delegittimato anche come oppositore.
Le cosiddette riforme, a cominciare da quelle “salva premier”, che non sono riforme, ma “sbreghi” (ricorro alla mitica terminologia di Gianfranco Miglio), se le faranno comunque gli esponenti del Popolo della Libertà, a colpi di maggioranza. No problem, replicherebbero i Costituenti che, nella loro saggezza, hanno previsto un referendum popolare, confermativo o op-positivo, facile da attivare. Saranno i cittadini a decidere se quanto viene approvato da una maggioranza che corre da sola alla riforma della Costituzione, merita di essere mantenuto o deve essere cancellato. Certo, il gioco verbale potrà continuare anche dopo con l’accusa da parte dei sovvertitori della Costituzione all’opposizione, pavida e tremolante, priva di unità di intenti, di essere conservatrice, forse, addirittura, reazionaria. Epperò, è probabile che anche la maggioranza dei cittadini ascolti la parola riforme con qualche fastidio, se non con disgusto. Ma davvero il federalismo si fa moltiplicando le province e i prefetti? Ma davvero non si possono fare alcune riformette anche a spizzichi: riduzione del numero dei parlamentari, riforma della legge elettorale, voto di sfiducia costruttivo? Ma davvero bisogna scrivere una lunga e impraticabile lista della spesa per accontentare un po’ tutti e non ottenere niente di niente? E se poi dalla bozza Violante uscissero soltanto un Lodo Alfano-bis e un salvacondotto Ghedini per il Presidente del Consiglio, sarebbero questi provvedimenti gabellabili come riforme? No, la parola riforme viene usata, spesso anche dall’opposizione, come cortina fumogena per nascondere qualche malefatta o qualche inclinazione al mal(af)fare. Prima chiariamo i termini del discorso, controlliamo se il mazzo di carte (non) è truccato, poi, sapendo a che gioco si giocherà, ci si potrà anche sedere al tavolo delle molto eventuali riforme.
Un paio di osservazioni sulla ''antimafia dei fatti'' di questo governo
Dal Sito Antimafia 2000
del 30 dicembre 2009
di Giulio Cavalli
(Attore teatrale)
Di fronte all’ennesima fanfara di numeri sventolata dal Governo nella recente campagna pubblicitaria intitolata “antimafia dei fatti” credo che vadano precisati alcuni punti. Non tanto per entrare nella desolante arena dialettica di un esibizionismo politico impacchettato con proclami in confezione regalo quanto almeno per un’onestà dei Fatti che sarebbe un vero peccato non prendersi la briga di raccontare.
Il 90% degli “arresti eccellenti” snocciolati dai recenti proclami (così come i loro patrimoni sequestrati) in questo ultimo anno sono il risultato o di rivelazioni di pentiti che hanno esercitato la parola nelle sedi competenti ( piuttosto che l’eroismo dell’omertà di manganiana memoria) o di quelle stesse intercettazioni che questo stesso governo sta trasformando in un desueto e antico fenomeno di costume. Ma la dicotomia più comica è che i magistrati che arrestano i mafiosi e sequestrano patrimoni sono gli stessi che a Palermo processano Dell’Utri per concorso esterno e indagano sulle trattative Stato-mafia. Gli stessi che a Caltanissetta e Firenze hanno riaperto le indagini sui mandanti occulti delle stragi del 1992-93. Gli stessi che a Napoli hanno chiesto e ottenuto un ordine di custodia per il sottosegretario Cosentino, ovviamente subito “stoppato” dalla Camera. Ed è proprio un peccato che in questa “trionfale marcia di numeri” il Governo abbia perso con Cosentino la possibilità di aggiungere un trofeo nella teca dell’antimafia.
Senza dimenticare il segnale culturalmente criminale dell’emendamento della finanziaria passato anche in Senato che consente la vendita degli immobili confiscati alle mafie; che potrà finalmente dare il via ad una numerologia di confische e restituzioni alle mafie come in una meravigliosa partita a Monopoli sulla tavola della legalità. Del resto è quasi stucchevole ricordare come siano proprio le mafie ad avere in questo momento la liquidità più facile per aspettare i 90 giorni passati dalla confisca senza assegnazione ed inviare qualche “testa di legno” amica all’asta di vendita. E, attenzione, non si tratta di pessimistiche ipotesi: i comuni di Canicattì in provincia di Agrigento e Nicotera in provincia di Vibo Valentia sono stati sciolti per mafia per avere assegnato beni confiscati a prestanome dei mafiosi colpiti dalla confisca. Un emendamento che riesce nella mirabolante impresa di tradire in poche righe sia il buon senso legislativo (affidando il meccanismo di vendita degli immobili ai funzionari locali del Demanio che per esposizione ambientale non sono nella posizione migliore di gestire “condizionamenti” nella vendita) sia alle centinaia di ragazzi che sotto la bandiera di Libera decidono di dedicare il proprio tempo e le proprie vacanze al volontariato sui beni confiscati a Corleone, Castelvolturno, San Giuseppe Jato e altri. E per finire in bellezza calpestando in un colpo solo quel milione di cittadini che nel ’96 firmarono l’appello di Don Ciotti per l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia e la loro restituzione alla collettività: mandare sul marciapiede la dignità di un paese per fare cassa è azione da piazzisti piuttosto che Statisti.
In questo luccicante contesto di “antimafia dei fatti”, il recente scudo fiscale oltre a permettere il rientro di capitali dall’estero con penali da Repubblica delle Banane ha anche in parte cancellato e in parte indebolito l’obbligo di segnalare operazioni sospette rendendo pressoché sterile il sistema di rilevamento di possibili casi di riciclaggio. Infatti (come avverte Roberto Scarpinato) l’art. 13 bis, comma 3, del Dl n. 78 del 2009 ha disposto che non si applica l’obbligo della segnalazione delle operazioni sospette per tutti i casi i cui i capitali rimpatriati o regolarizzati derivino da una serie di reati sottostanti che vengono estinti dallo scudo fiscale: i reati tributari di omessa dichiarazione dei redditi o di dichiarazione fraudolenta e infedele. Vengono inoltre estinti una lunga serie di reati quando siano stati commessi per eseguire od occultare i reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto: alcuni reati di falso previsti dal codice penale (articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491 bis e 492), di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri, nonchè dei reati di false comunicazioni sociali previste dal codice civile (articoli 2621 e 2622): capitali di origine illegale immessi nel mercato a seguito di tale normazione e del regime di invisibilità assicurato ai capitali ‘scudati’. Si è venuta a determinare per il vastissimo popolo degli imprenditori collusi l’opportunità di fare rientrare dall’estero capitali sporchi dei loro soci mafiosi occulti, spacciandoli falsamente come frutto di evasione fiscale per poi immetterli nel circuito produttivo.
Non mi risulta che Presidente e Ministri abbiano deleghe da Catturandi per acciuffare latitanti (ed è un peccato, perché almeno le auto delle Forze dell’Ordine non avrebbero il problema di cadere a pezzi e avere il serbatoio vuoto), e non mi risulta nemmeno che abbiano deleghe di magistratura (senza volere suggerire un’idea…) per le indagini; sicuramente hanno la responsabilità politica di quanto scritto sopra. E questi sono Fatti. Quale forma abbiano non lo so. Ma, sicuro, l’antimafia è un’altra cosa.
Maggiani Chelli: ''Su Craxi memoria corta''
Dal Sito Antimafia 2000
del 30 dicembre 2009
di Giovanna Maggiani Chelli
(Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili)
Così come la città di Milano anche nella città della Spezia si è chiesta, in prossimità del decennale dalla morte, una intitolazione importante in memoria di Bettino Craxi.
Il Paese ha la memoria corta è più che evidente. Bettino Craxi, per quello che ci riguarda, fu profeta in Patria. Infatti nel 1993 ebbe a dire in Parlamento “ci saranno delle bombe”, e per Dio ci furono, i nostri figli hanno perso la vita in via dei Georgofili il 27 Maggio 1993. E di li a poco altre bombe esplosero in Via Palestro a Milano.
Il leader è morto, con la morte tutti i debiti e tutti crediti si estinguono. Infatti noi, i parenti dei morti del 27 Maggio 1993, mai più potremmo chiedere a Bettino Caxi conto del perché di tanta sicurezza su quel tritolo infame. Si eviti per favore di rinnovare ogni giorno dolori che non fanno bene a nessuno.
Giovanna Maggiani Chelli
Il ministero non paga l'affitto sfrattata la polizia a Cefalu'
Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 dicembre 2009
Cefalù (PA). L'ufficio di polizia di Cefalù dovrà al più presto lasciare la sede che attualmente occupa.
L'ufficiale giudiziario ha notificato un provvedimento di reimmissione in possesso per il proprietario che equivale a una sorta di sfratto. La causa? Il ministero dell'Interno ha ritardato oppure omesso di pagare canone e interessi. Altro fatto paradossale: tra il ministero e il proprietario Vezio Vazzana non è stato mai stipulato un contratto. E il commissariato, che attualmente è diretto dal vice questore Manfredi Borsellino (figlio di Paolo, il magistrato assassinato nella strage di via D'Amelio del '92), ha potuto utilizzare l'edificio di via Roma sulla base di un accordo informale.
Da tempo il proprietario ha chiesto il rilascio dell'immobile e di recente ha ottenuto una decisione favorevole del giudice. L'ordine di sgombero è esecutivo ma i tempi dello "sfratto" potrebbero allungarsi in considerazione del fatto che l'ufficio di polizia svolge un pubblico servizio. Sulla vicenda il capogruppo del Pd al consiglio comunale, Rosario Lapunzina, ha presentato un'interrogazione al sindaco perché si adoperi a trovare una soluzione per dare al più presto una "casa" alla polizia a Cefalù.
I MISTERI DELLO SCUDO FISCALE
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 dicembre 2009
di Stefano Feltri
(Giornalista)
Per la prima volta il ministro dell’Economia Giulio Tremonti annuncia in via ufficiale i risultati dello scudo fiscale. In una nota del ministero si legge che sono rientrati in Italia 95 miliardi di euro, il 98 per cento dei quali (circa 93 miliardi) come rimpatri effettivi. Per il resto si tratta di rimpatri giuridici, in cui il bene scudato (soldi o immobili) resta oltre frontiera. Visto che l’aliquota da pagare per mettersi in regola è il 5 per cento, questo significa che nelle casse dello stato sono entrati circa 4,7 miliardi di euro.
Per ora non si sa altro. Dal ministero spiegano che questi dati li ha forniti Tremonti in persona, ma soltanto una settimana fa il ministro non si voleva pronunciare. E quindi non è chiaro se si tratti di stime preliminari o di dati più definitivi. “Stupisce che i rimpatri giuridici siano così pochi, purtroppo non si può saperne molto di più visto che si tratta di informazioni protette dall’anonimato e quindi bisogna limitarsi ai dati forniti da Tremonti”, commenta Maria Cecilia Guerra, docente di Scienza delle finanze all’Università di Modena e Reggio. Le banche non hanno la visione d’insieme, ma soltanto quella delle operazioni che hanno condotto direttamente. Intesa San Paolo, per esempio, ha fatto sapere nei giorni scorsi che tramite le sue filiali sono rientrati 10 miliardi di euro.
GLI IMPIEGHI. Tra le incognite che questi numeri sollevano la prima riguarda il destino dei capitali tornati in Italia. Che fine faranno? Nei precedenti due scudi fiscali pare siano stati usati in gran parte per sostenere il settore immobiliare, una tesi non dimostrabile (sempre per il problema dell’anonimato) ma sostenuta dall’analisi dell’andamento dei prezzi delle case. Claudio Siciliotti, presidente dell’Ordine nazionale dei commercialisti, dice al Fatto che “lo scudo richiede un sacrificio di legalità che è accettabile soltanto a due condizioni: che segni l’inizio di una guerra vera ai paradisi fiscali e che questi soldi vengano reinvestiti nell’economia”. Questa era stata la promessa di Tremonti: gli imprenditori evasori riportano in Italia i soldi e li usano per ricapitalizzare le loro imprese in asfissia da credito. “Purtroppo – aggiunge Siciliotti – la mia sensazione non è che i capitali stiano andando all’economia reale”. Le ragioni sembrano essere due: la prima è che in molti casi le somme scudate sono basse, da poche migliaia di euro a qualche centinaio di migliaia. Somme tenute da tempo all’estero, mai inserite nella dichiarazione dei redditi e ora, grazie al clima creato da Tre-monti, hanno finalmente deciso di dichiararle. Soldi che, quindi, non finiranno a sostenere le imprese ma soltanto qualche conto corrente. La seconda motivazione di scetticismo sugli effetti benefici dello scudo per la collettività è la voce che circola tra gli evasori che scudano: tra un paio d’anni, quando il clima si sarà rasserenato, potranno riportare i soldi all’estero. O per affidarli alle cure dei banchieri svizzeri o perché, in molti casi, può far comodo avere capitali oltre frontiera da usare in operazioni poco trasparenti estero su estero.
LA SEGRETEZZA. “Il governo celebra lo scudo ma ometti di dire che siamo stati l'unico Paese al mondo a sospendere l'obbligo di segnalazione anti-riciclaggio per gli intermediari finanziari e a estendere il perimetro dei reati cancellati fino al falso in bilancio”, ha detto ieri Stefano Fassina, responsabile economia del Pd. In realtà, come ha spiegato il tributarista Angelo Contrino sulla voce.info, il segreto dura poco: nel momento in cui l’Agenzia delle entrate mette nel mirino un contribuente evasore, se questi ha aderito allo scudo deve dichiararlo per evitare le sanzioni. E quindi diventa pubblica la sua condizione di “scudato”. Secondo la manovra anticrisi approvata proprio da questo governo , poi, sia l’Agenzia delle entrate che la Guardia di Finanza possono chiedere a Banca d’Italia, Consob (autorità che vigila sulla Borsa) e Isvap (quella che vigila sulle assicurazioni) informazioni sui contribuenti sotto indagine. E le banche dovrebbero dire a Bankitalia tutto quello che sanno, incluso se i soldi dei clienti vengono dallo scudo. Uno dei dubbi che circolano in queste ore, quindi, è quanto ci vorrà a capire se e in quale misura la riservatezza degli evasori verrà davvero protetta.
L’altro nodo da scegliere resta quello della normativa antiriciclaggio. Alla fine di ottobre il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi chiede pubblicamente a Tremonti “un intervento interpretativo che, nell’ambito del cosiddetto scudo fiscale, dissipi ogni incertezza sugli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette da parte degli intermediari; che ribadisca la regolare appplicazione della normativa antiriciclaggio”. Traduzione: Draghi chiedeva un intervento politico del ministro per chiarire che lo scudo non è un tana libera tutti, che dietro lo scudo non si può riparare qualunque operazione che ha prodotto capitali illeciti. Visto che alcuni reati presupposto del riciclaggio, cioè quelli che servono ad accumulare capitali da riciclare, sono sanati dallo scudo, servirebbe un segnale dal ministero per dire che comunque si mantiene alta la guardia e che non basta dire che una valigetta di contanti è frutto di evasione fiscale per evitare ogni sospetto di riciclaggio di denaro sporco. Bankitalia ha comunque intensificato i controlli e si appoggia alla normativa europea, ma visto che è stato il Tesoro a varare lo scudo, dovrebbe essere il Tesoro a fissarne i limiti. Invece niente . C’è stato anche un incontro tecnico, Tremonti ha promesso la circolare indirizzata agli intermediari, ma non l’ha mai diramata, nonostante lo avesse promesso a Draghi. Forse per non allarmare i contribuenti che volevano scudare le somme. Il segnale politico per dire che al Tesoro sono consapevoli dei pericoli del riciclaggio non è mai arrivato. Una circolare diramata dal ministero 12 ottobre, infatti, non era stata giudicata sufficiente da Draghi.
I CONTI PUBBLICI. Secondo il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli “lo scudo rappresenta la più grande manovra economica di tutti i tempi”. L’ultimo scudo, anche quello prorogato di alcuni mesi nel 2003, aveva riportato in Italia una quindicina di miliardi (con un gettito minimo per lo Stato, visto che l’aliquota era il 2,5 per cento). In questo caso i numeri sono maggiori e, visto che la nuova scadenza è stata fissata a fine aprile, ci si attendono almeno altri 30 miliardi, quindi 1,5 di gettito per lo Stato. “La riapertura della finestra era scontata, la prima scadenza del 31 dicembre è stata fissata soltanto per mettere le entrate a bilancio nel 2009, ma fin dall’inizio c’era l’idea di una durata maggiore”, spiega la professoressa Guerra. Il fatto che l’aliquota cambi (aumentata al 6 o 7 per cento) rende legittimo considerare la proroga come un nuovo scudo, il quarto firmato da Tremonti che, un anno e mezzo fa, in campagna elettorale, diceva “mai più condoni fiscali”.
IL FUTURO DEL POPOLO VIOLA
Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 dicembre 2009
Pubblichiamo qui poco meno di un quarto del testo di un’amplissima tavola rotonda con cinque dei promotori del “No B. Day”, Emanuele Toscano, Anna Mazza, Sara De Santis, Gianfranco Mascia e Alessandro Tuffu. Il testo integrale compare nel numero eccezionale di MicroMega (“Finché c’è lotta c’è speranza”) che esce domani, interamente dedicato alla grande manifestazione “viola” del 5 dicembre, che ha portato a Roma un milione e mezzo di persone per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Il numero è completato da dieci interventi di analisi e commento (Marco Travaglio, Pancho Pardi, Furio Colombo, Valentino Parlato , Norma Rangeri, Antonio Padellaro, Alessandro Gilioli, Giorgio Cremaschi, Luigi De Magistris, Andrea Scanzi, Pierfranco Pellizzetti), da 64 racconti/testimonianze di cittadini venuti dalle più diverse città d’Italia, e da oltre 150 foto a colori.
MICROMEGA: Quella del 5 dicembre è stata una manifestazione entusiasmante, una delle più grandi e appassionate della storia repubblicana. Ma sono almeno dieci anni che l’Italia democratica scende in piazza, con tassi di partecipazione straordinari. (…) La prima questione che stadifrontealmovimentoèallora:comeevitareche anche questa volta tanta straordinaria energia non abbia riflessi nei rapporti di forza politico-istituzionali? E quali sono le analogie e le differenze tra il movimento «viola» e i Girotondi? Una prima analogia è il carattere auto-organizzato, una risposta corale e diffusa con un piccolo gruppo iniziale che fa da catalizzatore. Una seconda è la piattaforma assolutamente «moderata» e ovvia (almeno dovrebbe) per una democrazia, la difesa della Costituzione repubblicana, ma coniugata con la radicalità della coerenza tra dire e fare, che la distingue dalle inadempienze e i traccheggiamenti dei partiti. Una terza è, di conseguenza, il rifiuto di rendere i partiti co-protagonisti del palco, senza che questo comporti scivolate qualunquiste, visto che la partecipazione e la solidarietà (anche materiale) dei partiti è accettata è apprezzata. (…)
Emanuele Toscano: Nel corso del tempo è emerso un nuovo concetto di movimento, in cui la centralità si è spostata dalla figura di attore storico in azione a quella di soggetto in azione (…). In termini pratici significa che questo soggetto, inteso come colui che resiste a un dominio percepito come tale, elabora una alternativa a livello individuale. E si dice: “Cos’è che mi dà fastidio, che ritengo insopportabile?”. E cosa faccio contro questa cosa? Elabora un’alternativa e la persegue attraverso un’azione, che non è più «collettiva» come nel passato, ma è un’azione che possiamo definire «comune», in cui l’individuo non si diluisce all’interno di una massa, ma anzi nel collettivo riesce ad affermare la propria autonomia. È questo, secondo me, il tratto che accomuna il movimento Alterglobal, i Girotondi e le mobilitazioni sindacali del 2002 (…). Riguardo alle differenze, la cosa è più complessa. (…) Nel nostro caso c’è stata una totale assenza di strutture organizzate, siano esse di partito o associative, a tutti i livelli. (…) Rispetto ai Girotondi invece la mancanza di una piattaforma è una similarità. La focalizzazione dei Girotondi su alcune persone, soprattutto una in particolare, Nanni Moretti, ha sicuramente giocato in una prima fase un ruolo positivo, vincente. Poi è diventato un punto di debolezza, perché nel momento in cui quella che era stata identificata a livello mediatico come leadership veniva meno, il movimento perdeva la sua spinta propulsiva a livello mediatico. (…)
Anna Mazza: (…) il nostro movimento si collega a un disagio molto più ampio e generalizzato. Quindi la definizione di trasversale, che ci siamo dati sin dall’inizio, va intesa anche in questo senso. Per quanto riguarda i Girotondi, avevano una connotazione in qualche modo personalistica, che nel nostro caso non è presente, noi siamo un movimento, come abbiamo ribadito più volte, orizzontale, che anzi in questo momento è teso ad un ulteriore allargamento in questo senso. La definizione di movimento carsico direi decisamente che non è corretta, se carsico vuol dire passare da una fase di presenza ad un’altra di assenza, perdendo di intensità, per poi riapparire.
Si tratta, e ancora una volta sottoscrivo quello che diceva Emanuele, di un esercizio continuo dell’affermazione di sé, non solo nella sfera individuale, ma contemporaneamente di un rafforzamento e un consolidamento di quello che è il movimento stesso, quindi un duplice piano di azione, a livello individuale e di movimento. Non so se carsico sia proprio il termine più appropriato, forse, sempre per rimanere in ambito geologico, vulcanico può essere una definizione giusta, nel senso che quando non si vede in eruzione non vuol dire che non sia intensamente attivo così come nel momento della sua esplosione.
Sara De Santis: Una delle differenze fondamentali rispetto a quello che è accaduto sette anni fa, è stato solo accennato prima, è il «luogo» dove è nata questa manifestazione, la rete. Bisogna anche dire cosa la rete rappresenta oggi e cosa rappresentava prima, quando il «luogo» di nascita di altri movimenti poteva essere, come diceva Emanuele, il mondo sindacale, oppure, tra virgolette, alcune élite culturali. Sulla rete c’è orizzontalità sul serio, una visione effettivamente plurale, nel senso che tutti, indipendentemente dalle categorie professionali e anche dalla qualità del proprio pensiero e dalla profondità del ragionamento politico e sociale, hanno la possibilità di esprimersi. Ci sono blog di ogni genere e proprio da alcuni blog è partita l’idea della manifestazione. Così tante persone si sono unite, e perché proprio in rete? Perché sulla rete c’è una pluralità d’informazione maggiore rispetto alla carta stampata e alla televisione. E quindi quelli che utilizzano la rete come strumento hanno avuto il primo accesso all’idea, che poi si è aperta alla società civile «reale». Questa condivisione è stata importante, e prima non c’era o non era sviluppata come ora.
(…)
MicroMega: La presenza massiccia di giovani secondo voi è legata soprattutto allo strumento che è stato utilizzato, cioè la rete? O al maturare crescente e accumulato di disagio che alla fine diventa indignazione e rivolta?
Gianfranco Mascia: Le similitudini si riscontrano nelle caratteristiche del movimento auto-organizzato, mentre la differenza è, come avete già sottolineato, che oltre ad essere un movimento auto-organizzato è anche auto-promosso. Cerco di spiegarmi: una delle persone che all’epoca organizzò i Girotondi è Nanni Moretti, una persona molto conosciuta, mentre l’iniziativa del 5 dicembre è partita – in rete – da gente comune: blogger e mediattivisti. Questa è una differenza sostanziale. E credo che la differenza non sia soltanto di modalità di convocazione, di organizzazione, oltre che di comunicazione del Popolo Viola, ma anche e soprattutto di sostanza. I Girotondi, infatti, non sono riusciti ad aggregare, oltre al ceto medio riflessivo – come si definiva – moltissimi giovani, mentre nel Popolo Viola ce ne sono tanti. Non parliamo di giovanilismo, perché secondo me questo non aiuta a capire cosa sia davvero il Popolo Viola, ma di movimento trasversale nel quale molte persone si sono riconosciute e identificate. (…)
Questa manifestazione, si diceva prima, poteva essere organizzata da qualsiasi altro soggetto, anche da un partito, però certamente non avrebbe avuto le stesse modalità. (...) Mi preme sottolineare che una delle caratteristiche fondamentali del Popolo Viola è proprio quella di non avere «bandiere», non avere nessun tipo di legame ideologico. E il fatto che all’interno dell’organizzazione del movimento ci siano anche persone che hanno votato per Berlusconi, ne è una dimostrazione chiara. Certo che ci sono dei vecchi antiberlusconiani, compreso il sottoscritto, che portano avanti questa battaglia da tanto tempo, però il nostro intento è quello di non focalizzare l’attenzione esclusivamente su Berlusconi come persona – nonostante lo slogan e la parola d’ordine fosse «Berlusconi dimettiti» – ma su tutti gli aspetti del berlusconismo. Infatti il 5 dicembre sul palco, seppure in poco tempo, abbiamo fatto in modo che non ci fossero interventi politici. È stato uno sforzo collettivo. Abbiamo contattato ciascun relatore e gli abbiamo detto: «La caratteristica di questa iniziativa secondo noi è questa, ci stai a fare un intervento di un certo tipo?». E ci siamo riusciti. (…) Alessandro Tuffu: Faccio un piccolo appunto per quanto riguarda i movimenti. In generale il movimento crea consapevolezza collettiva, questa consapevolezza si trascina nel tempo, nelle persone, nei loro modi di fare, e pertanto non vedo tantissime differenze da questo punto di vista tra chi ha partecipato ai Girotondi e il movimento di oggi. Se non proprio nell’abbassamento dell’età media, nel senso che esiste un gran numero di individui che non hanno o trovano difficoltà a sentirsi rappresentati in una collettività. Questo ha creato disagio nei giovani, come anche in altre fasce d’età naturalmente , ma soprattutto nei giovani che non trovano un interlocutore. Per quanto riguarda i partiti che hanno partecipato che, come abbiamo specificato, erano principalmente due, e se vogliamo minoritari, è stato per loro credo anche naturale affiancarsi a un movimento di questo tipo, l’uno perché molto presente culturalmente nelle lotte sociali, l’altro coerentemente presente per i riferimenti alla legalità. (…) Per quanto riguarda invece il disagio, esso non è solamente relativo alla Costituzione. Non si è portato la sola Costituzione a un tavolo di contenuti o su un palco, ma un disagio collettivo, anzi una molteplicità di disagi. Abbiamo disagi soprattutto per il lavoro, per la mancanza di strutture, per la mancanza di presenza delle istituzioni in alcuni casi, il tutto in un ambito di difesa della Costituzione, che parla di tante cose, parla di legalità, parla di uguaglianza, parla di lavoro.
MicroMega: Anzi, di lavoro ne parla nell’articolo 1.
Tuffu: Ecco cosa ha portato ognuno singolarmente ad aderire in base anche ai propri disagi personali. Adesso si tratta di cercare in qualche modo una continuità rispetto a quello che è stato il 5 dicembre, di creare un pensiero e un movimento comuni.
(…)
MicroMega: Affrontiamo la questione del rapporto fra movimento e partiti/elezioni. Chi deve decidere sulle opzioni del movimento, e tali opzioni devono essere vincolanti? Quanto alle opzioni (…): estraneità totale, «per noi alla fin fine i partiti sono tutti uguali». Oppure: i partiti non sono tutti uguali ma noi non crediamo che si possa cambiare le cosedando importanza al momento elettorale. Oppure, totale estraneità ai partiti nel senso della partecipazione alle liste, ma un appoggio mirato e selettivo ai partiti che hanno preso posizione coerente in parlamento sulle questioni per le quali il movimento si batte. Oppure, chi non vuole partecipare al momento elettorale non partecipa, ma chi vuole partecipare partecipa, anche come candidato. Oppure, ulteriore passo, pensiamo che i partiti, anche i meno lontani, non siano credibili per mancanza di coerenza fra il dire e il fare, per cui preferiamo appoggiare delle liste civiche che nasceranno, purché condividano alcuni valori, e ci sarà qualcuno di noi che entrerà come candidato. Oppure, passo ulteriore di massimo coinvolgimento, delle liste viola, direttamente di movimento. (…)
Mascia: L’atteggiamento che abbiamo tenuto fino ad ora – e che ha caratterizzato la stessa manifestazione del 5 dicembre – è stato quello di dire: «I partiti esistono, noi non siamo contrari ai partiti, ma siamo estranei ai partiti». (...) Secondo me dovremmo agire come una specie di lobby. Il 5 dicembre sono venuti tanti parlamentari; noi dovremmo dire: «Non pensate di essere passati di qua per fare una passerella davanti alle televisioni, vogliamo impegni precisi! Impegni precisi sulle nostre parole d’ordine, cioè sul “Berlusconi dimettiti” o comunque sul riconoscimento dell’anomalia italiana». Ciò significa che se per esempio domani ci fossero le elezioni noi dovremmo fissare tre temi, tre punti – uno dei quali dovrebbe essere senza dubbio la legge sul conflitto di interessi – e chiedere alle forze politiche di inserirli nel loro programma. Dobbiamo mettere in campo tutta la forza della nostra comunicazione, tutto il peso del Popolo Viola nella rete. Credo che i tempi siano ancora troppo immaturi per modalità diverse da queste nell’interlocuzione con le forze politiche. L’unica spinta che potrebbe davvero accelerare una maturazione verso altre forme di utilizzo della rappresentanza – un utilizzo meno mediato e più diretto da parte del movimento – sarebbe data proprio dalle dimissioni di Berlusconi. (…)
Mazza: Sin dall’inizio questo movimento ha rappresentato il superamento delle classiche dinamiche di partito. Noi non abbiamo cercato interlocutori tra i partiti: sono i partiti che hanno deciso di aderire alla nostra manifestazione. Qualsiasi altro discorso sui rapporti tra noi e i partiti credo debba essere spostato più in là. Non è il momento di affrontare certi discorsi.
De Santis: Credo che non rientri nello spirito di questo movimento l’idea di creare liste o addirittura un «partito viola». Quando penso al Popolo Viola io lo immagino un po’ come un’università prestigiosa, per esempio Harvard. Se uno si laurea ad Harvard, è molto probabile che sarà un bravo professionista. Allo stesso modo, una persona che si forma con una cultura e una sensibilità del Popolo Viola, in qualunque partito vada spero possa essere un politico prestigioso. Non mi sentirei di qualificarci con un’ideologia politica precisa. (...) Quando io come cittadino-elettore voto un politico che sposa l’idea del viola, mi aspetto che tenga fede a quell’idea e la porti avanti all’interno della propria collocazione ideologica, qualunque essa sia. Io non sono contraria alle connotazioni ideologiche. Anzi, credo che al giorno d’oggi sarebbe positivo se tornasse un po’ di sana demarcazione fra le opzioni politiche. Con il bipolarismo abbiamo assistito alla progressiva omologazione dei programmi politici e questo non è certo un bene per la democrazia. (…)
Tuffu: Rispetto alle varie alternative che ci sono state prospettate poco fa, io credo che tutti qui possiamo essere d’accordo su un punto. E cioè che non vogliamo diventare un partito o una lista. Il nostro problema, oggi, è prima di tutto quello di tutelarci dal rischio che qualcuno si appropri del movimento per portare avanti le proprie campagne. Questa è la nostra priorità. In secondo luogo credo sia fondamentale tenerci alla larga dai meccanismi partitici. (...) Le elezioni non ci sono ogni giorno. Cristallizzarsi in una lista o in un simbolo significa marcare il movimento con quel simbolo per tutto il periodo precedente e successivo ad una determinata tornata elettorale. E questo ci impedirebbe di svolgere quel lavoro quotidiano che dobbiamo portare avanti, pronti ad avere diversi interlocutori a seconda delle battaglie sulle quali di volta in volta vogliamo spenderci.
Toscano: La riflessione sulle forme politiche che il movimento può assumere, rimanda all’interrogativo di fondo: cosa intendiamo quando parliamo di movimento? (…) Perché la signora X e il ragazzo Y sono scesi in piazza? Perché si sono detti: non ce la facciamo più a vedere un presidente del Consiglio che continua ad attaccare i poteri istituzionali, che controlla l’informazione, che attraverso le sue televisioni porta avanti una «politica distrattiva» nei confronti del paese e pratica il killeraggio giornalistico attraverso i giornali di sua proprietà. Detto questo, non so se ricordate la campagna ‘Vuoi vedere che il paese cambia davvero?’ (di Rifondazione, ndr). Secondo me lì c’era questo tentativo di dire: ok, io entro all’interno della coalizione e porto con me tutta la forza e le istanze che ho recepito dal movimento. Quella era una modalità corretta di intervenire sugli orientamenti culturali di questo paese . Poi, certo, il tentativo è fallito anche perché hanno pesato altre dinamiche interne, fra le quali certi strascichi ideologici…
MicroMega: Perché Bertinotti amava troppo Bruno Vespa e il salotto della signora…
Toscano: Esatto, e la sua carica di presidente della Camera… Però io qui voglio riferirmi a quello spirito che ha portato Rifondazione ad unirsi all’Ulivo. Un altro esempio recente ci può essere fornito dal movimento che si è sviluppato in Svezia in difesa dell’informazione sul web: i piraten. (…) Come possiamo farlo? Dobbiamo eleggere qualcuno di noi al parlamento europeo. E questo hanno fatto. (…) E in un’ottica di lungo periodo secondo me questa potrebbe essere una soluzione. Tuttavia nell’immediato ritengo che occorra lavorare sugli orientamenti culturali del paese, far sì che tutti condividano l’idea del rinnovamento. Allo stato attuale, lo dico amaramente, da ex elettore di Rifondazione, il Pd è l’unica forza che può sobbarcarsi questo compito. Non può farlo la sinistra radicale, non può farlo l’Italia dei valori, che è una formazione dalle connotazioni populiste. (…)
MicroMega: Non per contraddirti, ma non capisco, tu fai due ipotesi in alternativa, o che si assommano? Cioè, uno, i piraten…
Toscano: Sì.
MicroMega: Che è una lista autonoma. E uno invece il Pd.
Toscano: Si potrebbe trovare un punto d’incontro in questo percorso.
(…)
Tuffu: È giusto pensare ad un momento di confronto nazionale nelle prossime settimane dove stabilire le linee guida per il futuro; ma intanto tutti i giorni dobbiamo fare qualcosa, perché i tempi non possono essere così dilatati. Qui ogni giorno succede qualcosa, spesso di molto grave, che ci impone continuamente delle scelte, come singoli e come gruppo. Quindi ben venga la riflessione collettiva, ben venga l’assemblea, ma nel frattempo muoviamoci. Il movimento ha bisogno innanzitutto di…
De Santis: Di movimento…
Tuffu: Di movimento, appunto. Di iniziative continue. E poi abbiamo la «fortuna» che certamente, in questo paese, le sollecitazioni esterne in grado di innescare una reazione non mancano. Ogni giorno c’è qualcosa che ci spinge ad intervenire e a fare di più.
MicroMega: Con questo appello, che il movimento deve innanzitutto fare movimento, possiamo concludere, perché ci ricorda la cosa essenziale, che solo finché c’è lotta c’è speranza.