venerdì 3 luglio 2009

"Se uno di noi va a una cena così ci va di mezzo l'intera Corte"

Dal Quotidiano La Repubblica
del 3 luglio 2009

di Liana Milella
(Giornalista)



ROMA - Il timore di un'escalation che rischiava di portare la Consulta verso il baratro si è materializzato alle 15 e qualche minuto quando l'Ansa ha diffuso la reazione irata del giudice Napolitano. Per l'ironia della sorte il presidente Amirante, cassazionista di cui non si ricordano clamorose uscite, s'è ritrovato stretto tra due Napolitano. Il primo, il presidente Giorgio, che abita giusto nel palazzo di fronte alla Consulta, pronto a chiedere "equilibrio, silenzio, rispetto delle regole". Il secondo, il giudice costituzionale Paolo Maria, che scende in campo sulle orme del collega e amico Mazzella. Le due alte toghe rompono regole non scritte e consuetudini consolidate da decenni, visto che mai un presidente della Corte ha parlato se non nelle conferenze stampa ufficiali, e i 14 giudici hanno fatto del silenzio obbligo e vanto. E invece eccoli Napolitano e Mazzella, loquaci, queruli, troppo politici e troppo poco giudici.

Per una settimana Amirante è rimasto rigorosamente in silenzio. Fiducioso che la tempesta si placasse. Poi, dopo la lettera di Mazzella a Berlusconi e l'uscita di Napolitano, ha capito che se avesse continuato a tacere ne sarebbe andata di mezzo l'intera Corte. E il cammino verso la decisione sul lodo Alfano si sarebbe fatto sempre più difficile e inquinato. Ha prevalso il consiglio che gli veniva da buona parte degli attuali giudici, e da molti ex presidenti ed ex componenti. Ribadire che la garanzia dell'imparzialità della Consulta sta nella sua collegialità, in un meccanismo che "spegne" le singole individualità e fa emergere un parere unico, un'unica decisione, in cui non è ammessa neppure la famosa dissenting opinion.

Il Quirinale tace, respinge le insistenze di Di Pietro, ma rinvia pubblicamente la palla alla Corte quando ricorda che "ogni organo costituzionale decide nella sua autonomia". E nelle regole della Corte, dove non c'è l'obbligo dell'astensione, solo la voce del presidente ha valore. Amirante avrebbe voluto chiudere la partita "in famiglia", evitare pubblici richiami, ma Napolitano e Mazzella gli hanno forzato la mano quando hanno minimizzato la cena fingendo di non vedere quella che alcuni colleghi hanno battezzato in questi giorni come "una gravissima gaffe istituzionale".

Fingono di non vedere, i due, il grave conflitto d'interessi. Spiega un giudice della Corte dove l'anonimato è di rigore: "Non c'è bisogno di regole scritte per obbligare uno di noi a non andare a cena con il premier alla vigilia di una decisione che lo riguarda in pieno". Mazzella finge indifferenza, Napolitano lo teorizza e sfida le norme quando dice che "il giudice costituzionale non è un giudice ordinario". Per il qualche c'è l'obbligo di astensione e il rischio del processo disciplinare. Certo, c'è molto di più. Se per il primo, e per tutti i giudici amministrativi grazie all'estensione del Consiglio di Stato, vale l'articolo 51 del codice di procedura civile per cui "se un giudice è un commensale abituale di una delle parti egli deve astenersi dal giudizio", ciò vale al doppio, forse al triplo per il più alto dei giudici, quello delle leggi.

Alla Consulta lo spiegano con parole semplici. Queste: "La decisione sul lodo Alfano, com'è stata quella sul lodo Schifani, rappresenta un unicum. Abbiamo di fronte leggi del tutto particolari, che non sono astratte, che non riguardano migliaia di cittadini, ma uno solo. E a uno solo sono state applicate. Quell'uomo politico, quel presidente è Berlusconi. La decisione della corte perde la sua astrattezza, si cala inevitabilmente nel personaggio, ne decide la sorte politica, Può uno di noi, alla vigilia di questa decisione, andare a cena con quest'uomo? No, non può. E non è necessario che ciò sia scritto o vietato. Lo dice il buon senso comune. Se la nostra opzione dev'essere sopra le parti, come sarà, i comportamenti devono essere sterili, come se fossimo in sala operatoria".

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