del 7 agosto 2009
di Pino Maniaci e Pietro Orsatti
(Giornalisti)
Il direttore di TeleJato riflette sul mestiere di giornalista di frontiera e sul sistema informativo nazionale, rivelando difficoltà e paradossi.
Parlare esclusivamente di informazione in terra di mafie è limitativo. Prima di tutto perché ormai è evidente, basta dare un’occhiata attenta alle relazioni semestrali della Dia o più semplicemente alla cronaca (locale) dei quotidiani, per rendersi conto che il sistema mafioso è diffuso, articolato e attivo su gran parte del territorio nazionale. Anche il rapporto “Ossigeno” della Fnsi in parte riesce a fotografare, attraverso la mappatura dei giornalisti minacciati e a rischio, la diffusione del fenomeno. Duecento (di cui solo una decina sotto scorta) in un Paese “libero” sono davvero troppi. E il nostro timore è che sia, comunque, una fotografia solo parziale di questa realtà che, “a pelle”, ci sembra molto più diffusa. Le mafie nel loro insieme sono in una fase di grande sviluppo e crescita, il giornalismo in parte sembra in ritirata. E i cronisti che continuano lavorare sui territori o chi si espone in inchieste “difficili” si ritrova sempre più spesso isolati, senza tutele e filtri, spesso obiettivo di detrattori e calunniatori anonimi..
Il nostro Paese sembra voler rimuovere il problema delle mafie con un’autoindotta amnesia collettiva. La politica, dal canto suo, vede la stampa libera e i cronisti che fanno inchieste come il nemico. Un nemico da bloccare con leggi specifiche (vedi per esempio i provvedimenti ancora in discussione sulle intercettazioni) e censure. L’uso della querela, a volte perfino intimidatoria e addirittura “preventiva”, è diventato prassi comune. Ma questo è se possibile il problema minore. Il problema più grave è la sovraesposizione. È sempre valido il vecchio motto che dice che l’unica difesa per un giornalista è pubblicare. Ma quando editori, direttori di giornali, emittenti radiofoniche e televisive hanno paura a far pubblicare certe notizie? Qui scatta un corto circuito di dimensioni colossali. Il cronista, che ormai è esposto sul territorio, che ormai ha fatto il lavoro “pericoloso” di inchiesta e testimonianza, si trova da solo a fare “eco di se stesso”, a esporsi direttamente, a dare di sé anche un’immagine distorta di “coraggioso eroe moderno”, mentre a a muoverlo è soprattutto la paura. Perché diventando visibili diventa meno conveniente per la criminalità organizzata intimidire, danneggiare e addirittura uccidere.
E la sovraesposizione può avere, paradossalmente, un effetto collaterale non da poco. Sovraesporsi sempre più spesso ti pone in una situazione di eccessiva visibilità che ti impedisce di lavorare. Per non parlare di quando, quando si è minacciati di morte, scattano meccanismi di tutela e protezione da parte delle forze di polizia. Anche se forme di tutela e di protezione (se non di vera e propria scorta) alla fine ti salvano la vita. Ma non può essere questa la risposta. E quindi torniamo al rapporto della Fnsi. Quando in un Paese libero ci sono 200 persone (almeno, ripetiamo) a rischio solo perché fanno correttamente il proprio lavoro di cronisti significa che l’intero sistema dell’informazione in questa Nazione è andato in tilt. A partire dalle associazioni di categoria fino ad arrivare alle aziende editrici, dal sistema radio televisivo privato a quello di Stato. Le mafie per operare esigono silenzio e invisibilità, quando i giornalisti fanno il loro lavoro (sempre più raramente, purtroppo) spezzano questa coltre di silenzio. È quindi necessaria un’informazione libera, trasparente, non condizionata da interessi e pressioni politiche e imprenditoriali. Se si vuole sconfiggere la mafia davvero bisogna fare quello che chiese poco tempo prima di essere ucciso a via D’Amelio il giudice Paolo Borsellino: «Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene».
Tratto da: Left-Avvenimenti
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