Dal Blog Uguale per Tutti
del 1 settembre 2009
A parlare del caso Boffo si corre il rischio di fare il gioco di qualcuno che almeno l’obiettivo di spostare l’attenzione da magagne ben più significative l’ha sicuramente ottenuto.
Lo facciamo perché ci preme evidenziare ai lettori del blog che, anche questa volta, sono state dette, oltre che diverse e gravissime falsità (come l’avere spacciato una lettera anonima per una “informativa giudiziaria”), tante inesattezze; lo facciamo anche per segnalare alcuni aspetti della vicenda, finora non evidenziati, che destano ulteriori perplessità ed interrogativi.
Si è parlato di “rinvio a giudizio”, si è parlato di “patteggiamento”, si è parlato di “sentenza” (per tutti, si leggano il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale del 28 agosto e l’articolo a firma Gabriele Villa dello stesso giorno sulla stessa testata).
Da quel che emerge dal sedicente – diremo fra breve perché – “certificato generale del casellario giudiziale” di Boffo Dino pubblicato sul giornale di Berlusconi (Paolo?) e spacciato per “sentenza” risulta che non c’è stato alcun “rinvio a giudizio”, non c’è stato alcun “patteggiamento”, non c’è stata alcuna “sentenza”.
Prima di dire che cosa risulti dal sedicente “certificato generale”, si impone di conoscere la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone e di sapere cos’è il decreto penale di condanna.
Per quanto riguarda la prima, riportiamo il testo dell’art. 660 c.p.: Molestia o disturbo alle persone – “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.
Quanto al decreto penale di condanna, bisogna sapere che nel nostro sistema processuale penale esiste un procedimento speciale, adottabile per i reati meno gravi che possono in concreto essere puniti con la sola pena pecuniaria (multa per i delitti e arresto per le contravvenzioni), definito dal legislatore procedimento per decreto (disciplinato dagli artt. da 459 a 464 c.p.p.).
In sintesi, il procedimento funziona così:
- il Pubblico Ministero, trasmettendo al Giudice (per le indagini preliminari) il fascicolo delle indagini, gli chiede di condannare per un certo fatto ad una certa pena una certa persona, la quale non sa nulla di questa richiesta;
- il G.i.p., se ritiene che il fatto risulta dimostrato dagli atti trasmessigli dal P.M. e se ritiene corretta la qualificazione giuridica data al fatto dallo stesso P.M. e congrua la pena da questi richiesta, emette un provvedimento di condanna alla pena richiesta dal P.M. che assume la forma del decreto e che si chiama, appunto, decreto penale di condanna;
- una volta emesso dal G.i.p., il decreto viene notificato al condannato, che così ne viene a conoscenza;
- il condannato può proporre opposizione al decreto entro un certo termine dal giorno in cui il medesimo gli è stato notificato;
- se l’opposizione non è proposta, il decreto diviene irrevocabile ed esecutivo;
- se invece il condannato propone opposizione si svolge il giudizio ordinario (si procede, cioè, alla raccolta ex novo delle prove davanti al giudice del dibattimento che, all’esito, decide con sentenza) a meno che, con la stessa opposizione, il condannato non chieda il giudizio abbreviato (in tal caso si procede, nel contraddittorio tra le parti, ad un giudizio basato sugli atti delle indagini; con la sentenza, in caso di condanna, a fronte del risparmio legato al mancato svolgimento del dibattimento, la pena da infliggere è diminuita di un terzo) o il c.d. “patteggiamento” (l’interessato trova un accordo con il P.M. su una certa pena, che, evitandosi il giudizio, il legislatore consente possa essere ridotta fino ad un terzo rispetto a quella che sarebbe applicabile in via ordinaria; si chiede l’applicazione della pena concordata al giudice, il quale, se ritiene il tutto rispettoso della legge e congrua la pena richiesta, la applica con una sentenza).
Tanto premesso, dal sedicente “certificato” pubblicato su il Giornale risulta:
- che Boffo è stato condannato alla pena di € 516 di ammenda per avere commesso, nel gennaio 2002 a Terni, un fatto integrante la contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone);
- che la condanna è stata inflitta con un decreto penale emesso dal G.i.p. del Tribunale di Terni il 9 agosto 2004;
- che al decreto penale non è stata fatta opposizione e che esso, pertanto, è divenuto esecutivo in data 1 ottobre 2004;
- che prima ancora che il decreto divenisse esecutivo, precisamente in data 7 settembre 2004, l’ammenda di € 516 era già stata pagata.
Dal sedicente “certificato”, invece, non risulta in che cosa concretamente è consistito il comportamento del Boffo. Per saperlo occorrerebbe leggere il decreto, atto normalmente assai sintetico, dal quale comunque risulta il fatto concreto costituente l’oggetto dell’addebito. I decreti penali, peraltro, sono atti dei quali chiunque può chiedere il rilascio di copia.
Nessun rinvio a giudizio e nessun giudizio. Il rinvio a giudizio è un atto – che assume la forma del decreto – del procedimento penale ordinario. Lo emette, quando ci sono i presupposti, il Giudice dell’udienza preliminare (G.u.p.) a seguito di una richiesta del PM ed all’esito dell’udienza preliminare che si svolge nel contraddittorio tra le parti. L’udienza preliminare, peraltro, è prevista solo per i procedimenti che riguardano i reati più gravi. Per la contravvenzione punita dall’art. 660 NON è prevista l’udienza preliminare. Il giudizio ordinario, quindi, si svolge senza passare per l’udienza preliminare e, quindi, senza un atto di rinvio a giudizio del giudice ma con citazione diretta a giudizio da parte del P.M.. Ad ogni modo, nel caso Boffo, come visto, non si è seguito il procedimento ordinario ma, come di fatto accade in tutti i casi di questo tipo, il procedimento speciale per decreto.
Nessun patteggiamento. Come abbiamo visto, Boffo ha pagato l’ammenda inflittagli con il decreto penale; non ha fatto opposizione e non c’è stato, quindi, alcun patteggiamento.
Nessuna sentenza. Boffo, ribadiamo, è stato condannato con un decreto penale al quale non ha fatto opposizione. Pertanto, non si è giunti al giudizio e non c’è stata alcuna sentenza.
Va detto, a questo punto, che il decreto penale di condanna, al pari di una sentenza di condanna emessa all’esito di un giudizio, è comunque un atto con il quale si statuisce che l’imputato è colpevole del reato per il quale, con lo stesso decreto, lo si condanna.
E veniamo al sedicente “certificato generale del casellario giudiziale”.
Innanzi tutto, diversamente da quanto qualcuno ha scritto, il documento che è stato pubblicato non è il certificato del casellario giudiziale “di Terni”.
Il certificato del casellario giudiziale di un certo soggetto, infatti, è un documento che può essere formato presso qualsiasi ufficio giudiziario ed esso riporterà, se ce ne sono, tutte le condanne riportate da quel soggetto in Italia, qualunque sia l’ufficio giudiziario o gli uffici giudiziari che abbia o abbiano emesso le condanne. Esemplificando, se Tizio è stato condannato dal Tribunale di Terni, la condanna risulterà dal certificato del casellario giudiziale di Tizio formato presso qualsiasi ufficio giudiziario italiano.
Detto questo, il “certificato” in questione presenta qualche particolare o dettaglio che ci inducono a dubitare che effettivamente si tratti di un vero certificato del casellario giudiziale.
Vi è, innanzi tutto, una certa stranezza esterna del documento: il formato non ci sembra corrispondente a quello dei certificati che quotidianamente vediamo tra le carte del nostro lavoro. Molto molto sorprendente è lo stranissimo riferimento ad un sedicente “ufficio locale di …”, denominazione assolutamente sconosciuta all’organizzazione giudiziaria.
Vi è poi un’incongruenza interna al documento: il “certificato” reca, da un lato, l’intestazione “Procura della Repubblica” (in alto sotto lo stemma della Repubblica italiana) e, dall’altro, la sottoscrizione “Il Cancelliere” (in basso a destra). Come è noto, però, nelle Procure della Repubblica non ci sono cancellerie e non vi prestano servizio “cancellieri” ma, semmai, ci sono segreterie alle quali sono addetti segretari.
Infine, merita una considerazione la scelta processuale di Boffo di non proporre opposizione al decreto penale.
La contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. rientra tra quelle per le quali l’art. 162 bis c.p. consente il ricorso al beneficio dell’oblazione, ossia un meccanismo premiale che consente di estinguere il reato mediante il pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge. Insomma, il direttore dell’Avvenire, proponendo opposizione al decreto penale, avrebbe potuto chiedere di essere ammesso all’oblazione e, pagando la metà del massimo dell’ammenda stabilita dall’art. 660 c.p. – ossia, in concreto, metà della somma che ha effettivamente pagato –, estinguere il reato, sicché il procedimento si sarebbe concluso con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.
Se fosse stata percorsa questa strada, sul certificato del casellario giudiziale di Boffo Dino oggi risulterebbe “NULLA”. Sorprende che una persona sicuramente avveduta come il direttore dell’Avvenire, che pensiamo potrà essersi avvalso del consiglio dei migliori avvocati, non abbia fatto ricorso a tale possibilità.
del 1 settembre 2009
A parlare del caso Boffo si corre il rischio di fare il gioco di qualcuno che almeno l’obiettivo di spostare l’attenzione da magagne ben più significative l’ha sicuramente ottenuto.
Lo facciamo perché ci preme evidenziare ai lettori del blog che, anche questa volta, sono state dette, oltre che diverse e gravissime falsità (come l’avere spacciato una lettera anonima per una “informativa giudiziaria”), tante inesattezze; lo facciamo anche per segnalare alcuni aspetti della vicenda, finora non evidenziati, che destano ulteriori perplessità ed interrogativi.
Si è parlato di “rinvio a giudizio”, si è parlato di “patteggiamento”, si è parlato di “sentenza” (per tutti, si leggano il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale del 28 agosto e l’articolo a firma Gabriele Villa dello stesso giorno sulla stessa testata).
Da quel che emerge dal sedicente – diremo fra breve perché – “certificato generale del casellario giudiziale” di Boffo Dino pubblicato sul giornale di Berlusconi (Paolo?) e spacciato per “sentenza” risulta che non c’è stato alcun “rinvio a giudizio”, non c’è stato alcun “patteggiamento”, non c’è stata alcuna “sentenza”.
Prima di dire che cosa risulti dal sedicente “certificato generale”, si impone di conoscere la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone e di sapere cos’è il decreto penale di condanna.
Per quanto riguarda la prima, riportiamo il testo dell’art. 660 c.p.: Molestia o disturbo alle persone – “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.
Quanto al decreto penale di condanna, bisogna sapere che nel nostro sistema processuale penale esiste un procedimento speciale, adottabile per i reati meno gravi che possono in concreto essere puniti con la sola pena pecuniaria (multa per i delitti e arresto per le contravvenzioni), definito dal legislatore procedimento per decreto (disciplinato dagli artt. da 459 a 464 c.p.p.).
In sintesi, il procedimento funziona così:
- il Pubblico Ministero, trasmettendo al Giudice (per le indagini preliminari) il fascicolo delle indagini, gli chiede di condannare per un certo fatto ad una certa pena una certa persona, la quale non sa nulla di questa richiesta;
- il G.i.p., se ritiene che il fatto risulta dimostrato dagli atti trasmessigli dal P.M. e se ritiene corretta la qualificazione giuridica data al fatto dallo stesso P.M. e congrua la pena da questi richiesta, emette un provvedimento di condanna alla pena richiesta dal P.M. che assume la forma del decreto e che si chiama, appunto, decreto penale di condanna;
- una volta emesso dal G.i.p., il decreto viene notificato al condannato, che così ne viene a conoscenza;
- il condannato può proporre opposizione al decreto entro un certo termine dal giorno in cui il medesimo gli è stato notificato;
- se l’opposizione non è proposta, il decreto diviene irrevocabile ed esecutivo;
- se invece il condannato propone opposizione si svolge il giudizio ordinario (si procede, cioè, alla raccolta ex novo delle prove davanti al giudice del dibattimento che, all’esito, decide con sentenza) a meno che, con la stessa opposizione, il condannato non chieda il giudizio abbreviato (in tal caso si procede, nel contraddittorio tra le parti, ad un giudizio basato sugli atti delle indagini; con la sentenza, in caso di condanna, a fronte del risparmio legato al mancato svolgimento del dibattimento, la pena da infliggere è diminuita di un terzo) o il c.d. “patteggiamento” (l’interessato trova un accordo con il P.M. su una certa pena, che, evitandosi il giudizio, il legislatore consente possa essere ridotta fino ad un terzo rispetto a quella che sarebbe applicabile in via ordinaria; si chiede l’applicazione della pena concordata al giudice, il quale, se ritiene il tutto rispettoso della legge e congrua la pena richiesta, la applica con una sentenza).
Tanto premesso, dal sedicente “certificato” pubblicato su il Giornale risulta:
- che Boffo è stato condannato alla pena di € 516 di ammenda per avere commesso, nel gennaio 2002 a Terni, un fatto integrante la contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone);
- che la condanna è stata inflitta con un decreto penale emesso dal G.i.p. del Tribunale di Terni il 9 agosto 2004;
- che al decreto penale non è stata fatta opposizione e che esso, pertanto, è divenuto esecutivo in data 1 ottobre 2004;
- che prima ancora che il decreto divenisse esecutivo, precisamente in data 7 settembre 2004, l’ammenda di € 516 era già stata pagata.
Dal sedicente “certificato”, invece, non risulta in che cosa concretamente è consistito il comportamento del Boffo. Per saperlo occorrerebbe leggere il decreto, atto normalmente assai sintetico, dal quale comunque risulta il fatto concreto costituente l’oggetto dell’addebito. I decreti penali, peraltro, sono atti dei quali chiunque può chiedere il rilascio di copia.
Nessun rinvio a giudizio e nessun giudizio. Il rinvio a giudizio è un atto – che assume la forma del decreto – del procedimento penale ordinario. Lo emette, quando ci sono i presupposti, il Giudice dell’udienza preliminare (G.u.p.) a seguito di una richiesta del PM ed all’esito dell’udienza preliminare che si svolge nel contraddittorio tra le parti. L’udienza preliminare, peraltro, è prevista solo per i procedimenti che riguardano i reati più gravi. Per la contravvenzione punita dall’art. 660 NON è prevista l’udienza preliminare. Il giudizio ordinario, quindi, si svolge senza passare per l’udienza preliminare e, quindi, senza un atto di rinvio a giudizio del giudice ma con citazione diretta a giudizio da parte del P.M.. Ad ogni modo, nel caso Boffo, come visto, non si è seguito il procedimento ordinario ma, come di fatto accade in tutti i casi di questo tipo, il procedimento speciale per decreto.
Nessun patteggiamento. Come abbiamo visto, Boffo ha pagato l’ammenda inflittagli con il decreto penale; non ha fatto opposizione e non c’è stato, quindi, alcun patteggiamento.
Nessuna sentenza. Boffo, ribadiamo, è stato condannato con un decreto penale al quale non ha fatto opposizione. Pertanto, non si è giunti al giudizio e non c’è stata alcuna sentenza.
Va detto, a questo punto, che il decreto penale di condanna, al pari di una sentenza di condanna emessa all’esito di un giudizio, è comunque un atto con il quale si statuisce che l’imputato è colpevole del reato per il quale, con lo stesso decreto, lo si condanna.
E veniamo al sedicente “certificato generale del casellario giudiziale”.
Innanzi tutto, diversamente da quanto qualcuno ha scritto, il documento che è stato pubblicato non è il certificato del casellario giudiziale “di Terni”.
Il certificato del casellario giudiziale di un certo soggetto, infatti, è un documento che può essere formato presso qualsiasi ufficio giudiziario ed esso riporterà, se ce ne sono, tutte le condanne riportate da quel soggetto in Italia, qualunque sia l’ufficio giudiziario o gli uffici giudiziari che abbia o abbiano emesso le condanne. Esemplificando, se Tizio è stato condannato dal Tribunale di Terni, la condanna risulterà dal certificato del casellario giudiziale di Tizio formato presso qualsiasi ufficio giudiziario italiano.
Detto questo, il “certificato” in questione presenta qualche particolare o dettaglio che ci inducono a dubitare che effettivamente si tratti di un vero certificato del casellario giudiziale.
Vi è, innanzi tutto, una certa stranezza esterna del documento: il formato non ci sembra corrispondente a quello dei certificati che quotidianamente vediamo tra le carte del nostro lavoro. Molto molto sorprendente è lo stranissimo riferimento ad un sedicente “ufficio locale di …”, denominazione assolutamente sconosciuta all’organizzazione giudiziaria.
Vi è poi un’incongruenza interna al documento: il “certificato” reca, da un lato, l’intestazione “Procura della Repubblica” (in alto sotto lo stemma della Repubblica italiana) e, dall’altro, la sottoscrizione “Il Cancelliere” (in basso a destra). Come è noto, però, nelle Procure della Repubblica non ci sono cancellerie e non vi prestano servizio “cancellieri” ma, semmai, ci sono segreterie alle quali sono addetti segretari.
Infine, merita una considerazione la scelta processuale di Boffo di non proporre opposizione al decreto penale.
La contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. rientra tra quelle per le quali l’art. 162 bis c.p. consente il ricorso al beneficio dell’oblazione, ossia un meccanismo premiale che consente di estinguere il reato mediante il pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge. Insomma, il direttore dell’Avvenire, proponendo opposizione al decreto penale, avrebbe potuto chiedere di essere ammesso all’oblazione e, pagando la metà del massimo dell’ammenda stabilita dall’art. 660 c.p. – ossia, in concreto, metà della somma che ha effettivamente pagato –, estinguere il reato, sicché il procedimento si sarebbe concluso con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.
Se fosse stata percorsa questa strada, sul certificato del casellario giudiziale di Boffo Dino oggi risulterebbe “NULLA”. Sorprende che una persona sicuramente avveduta come il direttore dell’Avvenire, che pensiamo potrà essersi avvalso del consiglio dei migliori avvocati, non abbia fatto ricorso a tale possibilità.
Dopo tutta sta papardella di diritto veramente basico che può illudere solo i non addetti al sistema giudiziario, resta il fatto che il Boffo è un pregiudicato che ha molestato una persona e per questo è stato condannato...
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