sabato 26 settembre 2009

PERCHÉ È SCOMPARSA L’AGENDA ROSSA DI PAOLO BORSELLINO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 26 settembre 2009

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(Giornalisti)



“ALLA FINE DEL ‘92 stavamo per scoprire la verita' sulle stragi e forse anche sui mandanti esterni. Con uno stop improvviso, il Viminale decise di trasferire me e, dopo una settimana, il capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Ci dissero che tutto doveva passare nelle mani dei carabinieri del Ros, che stavano trattando con collaboratori importantissimi per arrivare all'arresto del boss Toto' Riina. Per me e' la prova che la trattativa, gia' pochi mesi dopo la morte di Borsellino, era nota a tutti''. Con questa rivelazione esplosiva, riversata nei giorni scorsi alla procura di Caltanissetta, il super-esperto informatico Gioacchino Genchi che, diciassette anni fa, partecipo' in prima linea alle indagini sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio, rilancia la questione delle responsabilita' politiche e istituzionali legate alla ''trattativa'' mafia-Stato.Chi sapeva? Qualcuno forni' davvero un avallo istituzionale al Ros del generale Mario Mori per negoziare con l' ex sindaco mafioso Vito Ciancimino la fine dello stragismo e l'arresto di Toto' Riina? La verita' di Genchi, al vaglio dei pm, offre una nuova chiave di lettura che si insinua tra le stanze del Viminale, e rischia di aprire l'ennesima polemica con l'ex ministro degli Interni Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, che ha sempre smentito l'esistenza ''ufficializzata'' di una trattativa con Cosa nostra.Tirato in ballo nei mesi scorsi da Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, che lo ha indicato ai magistrati come il ''garante istituzionale'' della trattativa, Mancino ha sempre negato su tutta la linea. E, interrogato dai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e di Palermo, Francesco Messineo, giovedi' 17 settembre, l'ex ministro ha ripetuto di non aver mai sentito parlare ne' di trattativa ne' di ''papello'' con richieste mafiose per far cessare le stragi, aggiungendo che ''quando fu ipotizzato che questo potesse essere il disegno dei boss, l'eventualita' fu immediatamente scartata''. Nello stesso interrogatorio, Mancino e' tornato a negare anche l'incontro al Viminale, che sarebbe avvenuto il 1° luglio 1992, con il giudice Paolo Borsellino. Un incontro del quale l'ex ministro non ha alcuna memoria, ma che Borsellino annoto' scrupolosamente nella sua agendina rossa, un taccuino dove il giudice segnava gli appuntamenti. Sulla pagina dell'agenda, a quella data, risulta scritto: ''Ore 9.50: Holiday Inn. Ore 15: Dia. Ore 18:30: Parisi. Ore 19,30: Mancino''. E' un incontro al quale gli inquirenti attribuiscono una notevole importanza. Perche'?

IL ''BARONE''
Quel giorno, alle quindici, nei palazzoni romani della Dia, Borsellino ha fissato l'incontro con il nuovo pentito, il boss di Partanna Mondello Gaspare Mutolo, ex autista di Toto’ Riina, per il primo interrogatorio ufficiale. Sono presenti anche il collega Vittorio Aliquo', anche lui a quel tempo procuratore aggiunto a Palermo, il tenente colonnello Domenico Di Petrillo e il vice questore Francesco Gratteri, entrambi della Dia, e l’ ispettore di polizia Danilo Amore. La storia dell' aspirante collaboratore e’ tormentata: braccio destro e killer di fiducia del boss Saro Riccobono, Mutolo, detto ‘’il barone’’, e’ tra i pochissimi sopravvissuti alla mattanza del 30 novembre del1982 che decimo’ la cosca di don Saro. Gasparino si salvo’ per la vicinanza con Toto’ Riina, suo compagno di cella, con cui giocava a carte, ‘’facendolo vincere’’, dira’ poi ai magistrati. Quel giorno, a Borsellino, il pentito ha anticipato che fara’ dichiarazioni esplosive su esponenti delle istituzioni . Ma prima vuole parlare degli organigrammi mafiosi. L' interrogatorio comincia, Mutolo va avanti per ore. Poi, all’improvviso, accade qualcosa di inatteso: una telefonata. Per ‘’esigenze di ufficio’’, il verbale viene chiuso alle 17.40 e poi riaperto alle 19. Ecco la ricostruzione di Rita Borsellino sugli eventi di quel pomeriggio: ‘'Ad un tratto, durante l’interrogatorio, Paolo riceve una telefonata, chiude il verbale, si precipita al Viminale, accompagnato da Aliquo’ e dalla scorta, poi ritornada Mutolo. Il pentito ha raccontato successivamente che, di ritorno dal Viminale, Paolo era talmente nervoso che fumava due sigarette contemporaneamente e decise di non continuare l’ interrogatorio’’. Ancora piu’ dettagliato e’ il ricordo di quel pomeriggio ripetuto dalla bocca dello stesso Mutolo, qualche anno dopo, il 21 febbraio del 1996, nell’aula del processo per la strage di via D’Amelio. “…il giudice Borsellino mi viene a trovare, io ci faccio un discorso molto chiaro […] e ci ripeto, diciamo, quello che io sapevo su alcuni giudici e su alcuni funzionari dello Stato molto importanti, pero’ ci dico che non volevo verbalizzare niente se prima non parlavo della mafia, ma diciamo li ho avvisati per dirci ‘c’e’ questo pericolo, insomma, mi sa che questa cosa qui finisce male’. Allora mi ricordo probabilmente […] che il dottor Borsellino la prima volta che mi interroga, riceve una telefonata, mi dice: ‘Sai, Gaspare, debbo smettere perche’ mi ha telefonato il ministro’, ‘va beh, dice, manco una mezz’oretta e vengo’. Quindi manca qualche ora, 40 minuti, cioe’ all’ incirca un’ora, e mi ricordo che quando e’ venuto, e’ venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava cosi’ distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa… ‘dottore, ma che cosa ha?’ E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si e’ incontrato con il dottor Parisi e il dottor Contrada… mi dice di scrivere, di mettere a verbale quello che io gli avevo detto oralmente, cioe’ che il dottor Contrada, diciamo, era colluso con la mafia, che il giudice Signorino, diciamo, era amico dei mafiosi… amico… insomma che tutto quel che sapeva gli diceva, ci ho detto ‘guardi noi piu’ di questo non dobbiamo verbalizzare niente, per-che’ ci dissi io ‘io… insomma a me mi ammazzano e quindi a me interessa che prima io verbalizzo tutto quello che concerne l’ organigramma mafioso’. Io, appena finisco di parlare dei mafiosi, possiamo parlare di qualunque cosa, che a meno non mi interessa piu’. L’ultima sera che ci lasciamo con il dottor Borsellino e’ stato, mi sembra, il venerdi’, dopo due giorni il giudice… salta in aria’’.

RICORDI DI ALIQUO'
Sugli eventi, di quel pomeriggio del 1° luglio 1992, e' stato sentito anche Aliquo’, che oggi e' Avvocato generale dello Stato a Palermo. Ma il suo ricordo diverge da quello di Mutolo. Aliquo' ricorda da che, durante quell’interrogatorio, il pentito fece cenno a categorie di persone colluse con Cosa nostra, ma non fece nomi. Sulla visita al Viminale, poi, Aliquo’ conferma di aver incontrato Parisi e di aver accompagnato Borsellino sulla soglia dell’ufficio di Mancino, restando fuori; poi, di essere entrato a sua volta per un incontro con il ministro appena insediato, fatto dei consueti convenevoli. Non ricorda, pero', di aver incontrato Contrada ed esclude che Borsellino possa avergliene parlato. Ricorda che Parisi era al corrente del fatto che Borsellino stesse interrogando Mutolo, ma che questo era ovvio, visto che lui e Borsellino dovevano chiedere la scorta per ogni spostamento, e dunque informare la polizia delle loro attivita’. Al contrario di Mutolo, infine, Aliquo’ non ricorda alcuna particolare manifestazione di nervosismo, in Borsellino, successivamente a quell’ incontro: ‘’Ma quando mai… a Paolo capitava spesso di accendere la nuova Dunhill con il mozzicone di quella precedente, perche’ era un grande, accanito fumatore, non perche’ fosse particolarmente nervoso’’. Borsellino, dunque, quel giorno entro' nella stanza dell' ex ministro? Sì, secondo Giuseppe Ayala, ex pm di Palermo, il quale recentemente ha dichiarato che ''Mancino ha avuto un incontro con Borsellino, in modo del tutto casuale, il giorno del suo insediamento al Viminale. Lo stesso Mancino l'ha sempre confermato, l'ha detto anche a me... Ma non ho elementi per leggere alcuna dietrologia in quell'incontro. C'era Borsellino al Viminale che parlava con l'allora capo della polizia Parisi; arrivo' il nuovo ministro e Parisi gli disse se gradiva salutare Borsellino. Mancino rispose: si figuri... Cosi' Borsellino fu accompagnato nella stanza di Mancino, in mezzo a tanta altra gente, e tutto si risolse con una stretta di mano''. Una ricostruzione che coincide con le ultime precisazioni di Mancino che in un'intervista televisiva, ha dichiarato: ''Ricordo solo che col citofono interno, Parisi mi telefono' per dire: le dispiace se le verra' a stringere la mano il giudice Borsellino? Io non lo conoscevo fisicamente, non credo di averlo incontrato, non escludo che mi abbia potuto stringere la mano''.

IL ROMPICAPO
Dopo queste, rivelazioni, l'azione investigativa torna ancora una volta a concentrarsi sulla trattativa tra lo Stato e Cosa nostra e sugli apparati istituzionali che secondo Genchi ne erano al corrente, riaprendo tutti gli interrogativi sui misteri dell'agenda rossa, il diario scomparso nel nulla sul quale Borsellino annotava i fatti e le considerazioni piu' nascoste durante l'estate di sangue del '92. Perche'? ''Non e' una possibilita' fantascientifica – sostiene il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che dentro quell'agenda, mai piu' ritrovata, ci fossero degli appunti di Borsellino su un possibile negoziato tra lo Stato e le cosche, perche' si ponesse fine alle stragi''. Borsellino sapeva, dunque, di una potenziale trattativa in corso? E' vero, come dice il pentito Giovanni Brusca, che ''Borsellino muore per la trattativa avviata tra i corleonesi e pezzi delle istituzioni'', dopo che ''il magistrato ne era venuto a conoscenza e qualcuno gli aveva detto di starsene in silenzio, ma lui si era rifiutato''?Ma in che modo Borsellino sarebbe venuto a conoscenza del dialogo aperto con la mafia? E' possibile che su quel ''patto'' sotterraneo, il giudice avesse scritto le proprie impressioni sulle pagine della sua agenda rossa? E' per questo motivo che l'agenda e' scomparsa subito dopo l'esplosione di via D'Amelio? Mancino oggi nega l'esistenza di qualsiasi tipo di dialettica aperta con la mafia: ''Di ufficiale non sapevo niente – dice -nessuno mi ha proposto richieste di trattativa, ma se io le avessi sapute, le avrei immediatamente rigettate, perche' lo Stato si difende con la fermezza. Io sono uno che ai tempi del povero Moro ha sempre ritenuto che lo Stato non potesse arrivare a trattative con il terrorismo brigatista, e cosi' avrei detto anche rispetto all'aggressione della malavita organizzata''. Nell'ultimo interrogatorio, a Caltanissetta, poi, il vicepresidente del Csm e' stato categorico: ''Borsellino, quel 1° luglio, non l'ho visto, a meno che non ci sia stata solo una stretta di mano, come le centinaia di altre in quel giorno, di cui non ho memoria''. Nessun colloquio ''riservato'', dunque, tra l'allora ministro e il giudice considerato l'erede di Falcone: e secondo Mancino, nessuna notizia di contatti tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino. Piu' o meno la stessa linea tenuta dal generale Mario Mori che, per sua stessa ammissione, in quell'estate del '92 fu l'interlocutore di Vito Ciancimino, in una serie di colloqui mirati alla cattura di Toto' Riina. Piu' volte interrogato sull'esistenza di possibili ''garanti'' istituzionali che lo avessero autorizzato a ''trattare'' con l'ex sindaco mafioso, Mori ha sempre risposto di aver agito in maniera autonoma. Smentito, pero', dal collaboratore Giovanni Brusca, il quale giura che in quello scambio tra lo Stato e la mafia, il generale fu solo un ''mediatore'' e Mancino, l'uomo del Viminale, il vero ''terminale'' nelle istituzioni. Tra contraddizioni, accuse e smentite, la ricostruzione della manovra d'intelligence che nell'estate del '92 avrebbe portato le istituzioni a patteggiare con i vertici di Cosa nostra e' oggi un autentico rompicapo per i pm di Caltanissetta. Con due collaboratori, Brusca e Cianci-mino junior, che sparano a zero contro Mancino. E l'ex ministro che, dall'alto del suo ruolo di vice-capo del Csm, invoca il massimo rigore nelle indagini e sfida i pentiti e i testimoni a tirar fuori le prove delle loro accuse. Ora a questi si e' aggiunto Genchi, l'uomo che per primo individuo' la pista del Castello Utveggio, sede di una cellula riservata del Sisde, ipotizzando l'intervento di pezzi deviati dei servizi segreti nella strage di via D'Amelio: e' lui che adesso accusa apertamente il Viminale di aver bloccato le indagini della polizia sui mandanti occulti alla fine del 1992, ''perche' tutto doveva passare al Ros dei carabinieri''. La prova, dice Genchi, che la trattativa era nota.Ma davvero anche Borsellino era stato informato che, dopo Capaci, la lotta alla mafia poteva mettere in conto l'apertura di un dialogo con le cosche? Una cosa e' certa. Durante i 57 giorni che separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio, il magistrato appare visibilmente sconvolto. Alla moglie Agnese, rivela: ''Ho capito tutto''. E ancora: ''Devo fare in fretta''. L'agenda rossa diventa il suo punto di riferimento. In quel calendario tascabile, il giudice annota le considerazioni, i dubbi, le angosce, le paure di quegli ultimi, frenetici giorni di vita. E sempre in quei giorni ripete ai suoi familiari: ''Mi uccideranno, ma non sara’ una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri''. Dice oggi Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso: ''Paolo si rendeva conto che dietro e sopra Cosa nostra, in quel periodo convulso della storia italiana, altre ''entita'' senza volto, erano al lavoro per portare avanti una manovra di destabilizzazione nel paese''.

IL CAPITANO
Per questo l'agenda rossa, col suo potenziale di segreti, e' considerata la ''scatola nera'' della Seconda Repubblica. Ne e' convinto anche il braccio destro di Paolo Borsellino, il tenente dei carabinieri Carmelo Canale, poi accusato di mafia e infine assolto. ''La verita' della morte di Borsellino – ha detto piu' volte – sta nella sua agenda.... un'agenda che gli aveva regalato un militare e sulla quale il giudice scriveva tutte le sue cose riservate... In quell'agenda, ne sono sicuro, c'era anche la verita' su chi e perche' aveva ucciso Giovanni Falcone''. In quell'agenda, quasi certamente, il magistrato aveva scritto anche il nome del ''traditore'', quell'amico che gli aveva voltato le spalle, provocando in lui una fortissima delusione. L'episodio lo hanno raccontato recentemente ai pm di Caltanissetta Massimo Russo e Alessandra Camassa, entrambi ex sostituti a Marsala, che ''intorno al 24-25 giugno del '92'', in visita a Paolo Borsellino a Palermo, rimasero sconvolti nel vederlo affranto e in lacrime sul divano del suo studio in procura: ''Un amico - diceva - mi ha tradito''. L'ultimo giorno della sua vita, quella domenica 19 luglio 1992, poco prima di andare incontro al suo destino, Borsellino ripose l'agenda rossa nella sua borsa di cuoio, dopo aver passato alcuni minuti a scrivere annotazioni in previsione del suo viaggio in Germania. Lo vide la moglie, Agnese, intento a riempire quelle pagine, e lo racconto' ai giudici. ''Mio marito non si separava mai da quell'agenda, vi annotava tutti i suoi incontri di lavoro. Sono sicura che l'avesse con se' anche il giorno in cui fu ucciso''. In quell'agenda, sostiene il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ''c'e' la chiave della strage di via D'Amelio. E' improbabile che sia andata distrutta''. Per Ingroia, e' piu' logico pensare che ''sia in mano a qualcuno che la possa usare come arma di ricatto''.Ma quell'agenda non e' mai stata ritrovata. Dentro la borsa di cuoio intatta, raccolta sul sedile posteriore della Croma blindata, dopo l'esplosione di via D'Amelio, c'erano le chiavi, le sigarette, persino un costume ancora bagnato. L'agenda no. Quella era sparita.Tredici anni dopo, nel 2005, come in un gioco di prestigio, quella borsa di cuoio riappare nelle mani di un uomo in borghese che si allontana dalla carcassa dell'auto blindata di Borsellino: e' l'immagine fissata in una foto a colori, una tra le mille scattate dai reporter sul teatro ancora fumante della strage. L'uomo e' il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli. La foto e' un reperto prezioso e raro. E' la foto di uno dei misteri italiani.Un mistero sul quale la Cassazione ha messo una pietra tombale, respingendo il ricorso dei pm di Caltanissetta che volevano processare l'ufficiale per il furto dell'agenda. La Suprema Corte, infatti, ha confermato la precedente archiviazione del gup Paolo Scotto Di Luzio che aveva prosciolto Arcangioli, mettendo in dubbio persino l'esistenza stessa dell'agenda.
Per la giustizia italiana, insomma, non e' stato Arcangioli a far sparire quel documento. ''Secondo me in quell'agenda – conclude Rita Borsellino – c'e' scritto il motivo per cui Paolo e' stato ucciso''. Chi l'ha fatta sparire, ormai a distanza di tanti anni, difficilmente saltera' fuori.

1 commento:

  1. Dov'è finita L'Agenda Rossa di Borsellino che dopo il suo attentato era finita in mano di un ufficiale dei Carabinieri? Perchè questa vergognosa omertà? Sono rabbrividito quando ho sentito alcune interviste di Massimo Ciancimino in cui veniva raccontato di accordi fra mafia e alti rappresentanti delle forze dell'ordine,sotto la minaccia di attentati, con la più grande naturalezza. Ma allora mi chiedo, di chi dobbiamo avere fiducia, se le persone che dovrebbero garantire la legalità sono in combutta con certa gente?

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