del 25 ottobre 2009
di Claudia Fusani
(Giornalista)
Fa le scale di corsa, risponde agli sms che lo ringraziano «per la meravigliosa esperienza» («è una poliziotta» spiega), corre da una riunione all’altra, ieri ce ne sono state 17 in sedi diverse sui temi dell’antimafia che hanno coinvolto 2.500 persone. Vero uomo del fare, don Luigi Ciotti trova anche il tempo di passare dalla redazione dell’Unità, prima di preparare il Manifesto di Contromafie 2009, che verrà letto stamani giornata di chiusura degli Stati generali dell’Antimafia.
Don Luigi, è come se l’antimafia in questo paese dove la mafia è il primo dei problemi, dalla legalità all’economia, non fosse una priorità della politica ma una delega in bianco ad associazioni come Libera.
«Guai se fosse così. In questa lotta, che è prima di tutto culturale, è fondamentale il ruolo di tutti. Ci tengo a dire che in questi anni, pur tra mille difficoltà e molti silenzi, non è mai venuto meno l’impegno delle forze di polizia e della magistratura. Però, non basta: per combattere le mafie serve una politica più consapevole e uno Stato sociale più forte».
Quella che lei chiama «la buona politica»?
«Una politica che sappia incontrare la partecipazione dei cittadini e, soprattutto, farsene arricchire. Nella cittadinanza ci deve essere sempre più politica e nella politica sempre più cittadinanza. Essere contro le mafie significa riaffermare che l’io è per la vita e non la vita per l’io».
Quella di oggi sembra invece una società molto concentrata sull’Io. Qual è lo stato di salute della politica oggi in Italia?
«Preferisco parlare di cosa fa Libera, del recupero dei beni mafiosi, delle cooperative che danno un progetto di vita in tante zone del paese, dell’impegno a coltivare memoria, cultura, informazione. La credibilità e l’autorevolezza di un progetto non sono misurate dall’attenzione mediatica ma dalla capacità di lasciare un segno. Ognuno di noi è quello che fa».
Corruzione sulla bonifica dei terreni; assunzioni in cambio di soldi e voti; politici collusi che si candidano ai vertici delle istituzioni: le ultime inchieste giudiziarie raccontano di una diffusa cultura mafiosa. La mafia è anche un atteggiamento culturale?
Il primo nemico è l’atteggiamento culturale. E la prima mafia è quella delle parole, quella per cui tutti si riempiono la bocca di concetti come legalità, diritti e poi però si fa poco o nulla. Essere contro le mafie significa soprattutto riaffermare la corresponsabilità, la centralità delle persone e del legame sociale e agire in questa direzione. Rita Atria, la giovane testimone di giustizia suicida a 17 anni, nell’ultima pagina del suo diario, scrive: «La prima mafia da combattere è quella dentro ciascuno di noi. La mafia siamo noi». Ancora oggi la sua tomba, a Partanna, non riesce ad avere una lapide».
La maggioranza sembra avere un’unica ossessione: la giustizia. Che ne pensa delle riforme?
"Non c’è magistratura senza indipendenza e dico guai a toccare la norma sulle intercettazioni. Se bisogna fare delle riforme, ecco che cosa chiede Libera: applicare la norma della Finanziaria 2006, quella che stabiliva l’uso sociale dei beni confiscati ai corrotti; la nascita di un’Agenzia nazionale, non nominata dalla politica, per la gestione dei beni confiscati; un testo unico per le leggi antimafia perché dall’organicità delle norme dipende l’efficacia; l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale, un nuovo modello per il sistema di protezione dei testimoni».
Improvviso ritorno delle inchieste sulle stragi del ’92-’93. Perché?
«Non so dire perché, Vedo che periodicamente alcune cose tornano in cima alla lista, urgenti. Facciano presto, abbiamo bisogna di verità. Di tante verità, un elenco lunghissimo».
Il boss Spatuzza, le cui rivelazioni un anno fa hanno dato impulso ai nuovi filoni di indagine, si è pentito dopo una crisi spirituale.
«Non è il solo. La parola del Vangelo è incompatibile con quella della mafia. Lo dico per chiarezza. Sa, anche Provenzano aveva il covo pieno di santini. Non esiste una mafia devota. E non si può appartenere alle mafie, o esserne conniventi, e ritenersi parte della comunità cristiana».
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