del 20 ottobre 2009
di Silvia D'Onghia
(Giornalista)
Lodo Alfano, le motivazioni della Corte: “Serviva una legge costituzionale”
La decisione era arrivata lo scorso 7 ottobre, al termine di due giorni di Camera di Consiglio: 9 giudici contro, 6 a favore. La Corte Costituzionale bocciava il Lodo Alfano. Ieri, a distanza di undici giorni, sono state depositate le motivazioni della sentenza. Anche queste, senz’altro, destinate a far discutere. La Consulta afferma, innanzi tutto, che sarebbe stata necessaria una legge costituzionale, poichè si tratta di una deroga al principio di uguaglianza sancito nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Da qui il richiamo al 138: “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione”. I giudici spiegano poi di essersi mossi nella stessa direzione del 2004, quando venne bocciato il Lodo Schifani.
Una risposta alle critiche di Berlusconi, dei suoi avvocati e di molti esponenti del Popolo della Libertà, che avevano sostenuto che, nella sentenza del 2004, la Corte non avrebbe eccepito nulla sull’uso di una legge ordinaria anzichè costituzionale. In quella sentenza, invece, si faceva più volte riferimento all’articolo 138: i giudici ricordavano che il Tribunale di Milano aveva chiesto alla Corte di bocciare il Lodo perchè attribuiva “alle persone che ricoprono una delle menzionate alte cariche dello Stato una prerogativa non prevista dalle citate disposizioni della Costituzione, che verrebbero quindi ad essere illegittimamente modificate con legge ordinaria”. La Consulta osservava, poi, che, per creare un “regime differenziato rispetto al principio di uguaglianza di tutti i cittadini, occorre prevedere limiti ben precisi”.
Nella sentenza del 7 ottobre si affronta anche il tema del “legittimo impedimento”, che può valere, dicono i giudici, solo nel caso di impegni istituzionali. Una questione, del resto, già regolamentata, con una sentenza del 2005, quando la Corte fu chiamata in causa per un conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. Era il caso dell’onorevole Cesare Previti, in corso di giudizio da parte del Tribunale di Milano. Previti aveva fatto sapere più volte di non poter essere presente in aula a causa dei suoi molteplici impegni parlamentari. I giudici di Milano ritennero che l’impedimento non fosse sempre “assoluto”, e perciò andarono avanti con le udienze. Camera e Senato fecero ricorso contro questa decisione . La Consulta, pur esprimendosi a favore di questi ultimi, stabilì però che il giudice “non può limitarsi ad applicare le regole generali del processo in caso di legittimo impedimento dell'imputato, ma ha l'onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari”. Un argomento che invece era stato al centro dell’arringa difensiva degli avvocati del premier, Niccolò Ghedini, Piero Longo e Gaetano Pecorella, secondo cui non sarebbe stato possibile rivestire la duplice veste di alta carica dello Stato e di imputato, “per esercitare il proprio diritto di difesa e senza il sacrificio di una delle due”. I legali avevano poi tentato di convincere i giudici del fatto che Berlusconi, in base alla legge elettorale del 1999, non è più “primus inter pares”, ma “primus super pares”, essendo tra l’altro l’unico ad “avere investitura popolare”. Questo avrebbe dovuto giustificare il trattamento diverso rispetto agli altri parlamentari. Nessun “primus super pares”, dunque, secondo la Corte, senza una modifica della Costituzione. Che, per fortuna, resiste.
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