del 31 ottobre 2009
di Stefano Feltri
(Giornalista)
Sul tabloid svizzero “Blick” compare ieri una frase che lascia intendere, al di là della sua fondatezza, quale potrebbe essere il prossimo livello dello scontro diplomatico tra Svizzera e Italia innescato dallo scudo fiscale. “Se io parlassi, il governo italiano cadrebbe in un giorno, non c’è alcun esponente del governo, nessuno nel mondo dell’economia italiana che non abbia un conto in Svizzera”. E soprattutto: “Grazie al silenzio degli avvocati e delle banche ticinesi non è ancora chiaro da dove sono arrivati i milioni che hanno permesso il sorgere dell’ impero costruito attorno alla Fininvest”. Sono frasi attribuite a un banchiere anonimo che si sarebbe confidato con “Blick”, ma indicano che ormai la guerra con la Svizzera è passata a un altro livello. La miccia l’hanno accesa le perquisizioni di questi ultimi giorni nelle filiali italiane di alcune banche svizzere, con la Finanza che cerca di spaventare gli evasori per convincerli a regolarizzare la propria posizione pagando allo Stato la penale (5 per cento della somma). Il fatto che siano stati violati anche gli uffici di banche ovattate e di riferimento di ricchi clienti piemontesi e lombardi, come Pictet, non ha lasciato indifferenti .
Poco importa se le dichiarazioni anonime di “Blick” siano davvero di un banchiere o ispirate da ambienti diplomatici che vogliono mandare un messaggio al governo italiano. Perché Berlusconi ha davvero rapporti con la Svizzera, e gli svizzeri - se vogliono - sanno creare problemi. Se n’è accorta anche Veronica Lario, moglie di Berlusconi ora sulla via del divorzio, che da mesi riceve ispezioni delle autorità comunali nella casa (intestata alla madre, Flora Bartolini) che ha a Schanf in Engadina. I lavori di ristrutturazione dell’immobile dovevano essere completati entro ottobre perché il paese non tollera cantieri eterni che ne turbano l’armonia ma, forse per le procedure di divorzio, stanno andando per le lunghe. Queste sono minuzie, però, rispetto ai problemi che potrebbero derivare al Cavaliere dalle banche svizzere. “Nessuna banca svizzera seria vuole avere a che fare con un cliente come Berlusconi, ma escludo che qualcuno si spinga a rivelare le sue operazioni riservate, visto che il segreto bancario per la Svizzera è ancora fondamentale”, dice al “Fatto Quotidiano” un private banker di un istituto svizzero che opera in Italia.
La banca Arner, con la sede principale a Lugano e filiali da Dubai alle Bahamas, è quella a cui si affida da anni Berlusconi a Milano per la gestione del suo patrimonio personale e, anche se il suo slogan è “facciamo emergere i vostri valori”, mai rivelerebbe qualcosa degli affari berlusconiani negoziati nelle sue stanze. La Arner è stata coinvolta in una recente inchiesta per riciclaggio e Nicola Bravetti (direttore fino al 2007 della filiale italiana) è stato arrestato a maggio 2008 su richiesta della procura Antimafia di Palermo per i suoi rapporti professionali con un imprenditore siculo condannato per associazione mafiosa. Dopo il commissariamento da parte della Banca d’Italia, è finito sotto inchiesta anche il commissario mandato da Mario Draghi, Alessandro Marcheselli per anomalie nella gestione. Alla Arner bank, come ha rivelato Peter Gomez, Silvio Berlusconi ha il conto numero uno. E infatti la banca è coinvolta nel processo al Cavaliere e a David Mills, appena condannato in appello, per i diritti cinematografici comprati a prezzi gonfiati a Mediaset (con il conseguente sospetto di fondi neri accumulati all’estero).
Il vero pericolo, quindi, per Berlusconi e il suo governo è che nel dibattito pubblico entrino i trascorsi personali, i rapporti con i paradisi fiscali che si è cercato di far dimenticare. Visto che, dal G8 al G20 (dove si invocavano sanzioni ai Paesi non cooperativi con l’Ocse su trasparenza e segreto bancario), la posizione dell’Italia è sempre stata a parole molto dura. Se si comincia a parlare del passato, potrebbero riemergere storie professionali, legittime ma politicamente forse inopportune da rievocare in questo momento, come quella di Giulio Tremonti. Oggi è il ministro dell’Economia che invoca standard legali per le buone prassi finanziarie e che, per garantire l’efficacia dello scudo, va alla guerra contro le banche dei paradisi fiscali scatenando l’Agenzia delle entrate addirittura contro la famiglia Agnelli. Nel 1995, però, quando ancora la sua carriera politica era agli inizi, il professor Tremonti lavorava per la Banca centrale di San Marino come “ispettore vigilanza credito e valute” (con un compenso annuale di 78 milioni di lire) insieme ad Aldo Loperfido e al professor Giovanni Manghetti. Un rapporto cominciato - secondo quanto risulta al “Fatto” - già dieci dieci anni prima, nel giugno del 1985, quando il nome di Tremonti compare per la prima volta nella rosa dei candidati all’Ispettorato per il credito e le valute i cui membri vengono nominati dal Consiglio Grande e Generale (il parlamento sanmarinese). Oggi il ministro non è più molto ben visto nel paradiso fiscale romagnolo. “Ci trattano malissimo, siamo indignati”, si è sfogato di recente un esponente del governo di San Marino.
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