del 8 novembre 2009
di Peter Gomez
(Giornalista)
Una cosa va detta subito. Il sequestro di Abu Omar è stato una schifezza. Rapire la gente, torturarla per farla parlare, rinchiuderla in galera senza processo, non è solo sbagliato. È inutile. Una democrazia liberale si differenzia dagli altri regimi perché non permette abusi da parte del potere. Se poi l’abuso diventa sistematico, come nel caso delle extraordinary rendition dell’era di George W. Bush, e viene anzi disposto da chi sta al governo, è la democrazia stessa a essere a rischio. Perché oggi tocca ai presunti terroristi, ma domani potrebbe toccare a oppositori o avversari. Per questo proprio Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori americani, spiegava: “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà, né la sicurezza”. Ma, in questa storia, il rapimento non è l’unica schifezza. Anche la sentenza del tribunale di Milano che, mercoledì 4 novembre, ha condannato 22 agenti della Cia responsabili, con un militare italiano, del sequestro dell’estremista islamico, è repellente. E non – sia chiaro – perché il giudice o la procura hanno sbagliato nell’applicare doverosamente la legge nei confronti degli imputati. O perché l’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari e l’ex capo del controspionaggio, Marco Mancini, sono stati ritenuti ingiudicabili per via di un segreto di Stato tardivamente imposto nel 2006 dal governo Prodi con un ricorso alla Corte Costituzionale.
Arendere schifosa tutta la vicenda è stato invece l’atteggiamento delle autorità politiche italiane. Piccoli uomini che, come al solito, lanciano il sasso e nascondono la mano. Nessuno degli 007 (americani e nostrani) finiti sotto processo aveva infatti un interesse personale a rapire nel 2003 Abu Omar. Per questo, adesso, negli Usa molti ex della Cia dicono di essere stati mandati allo sbaraglio. Tutti erano certi di agire non solo su ordine del loro paese, ma anche nell’ambito di precisi accordi internazionali. Patti segreti tra Italia e Stati Uniti – siglati con tutta probabilità in ambito Nato – che, come è ovvio, impongono ai rispettivi Servizi una sorta di dovere di collaborazione. Nel 2005, però, quando l’inchiesta sul rapimento entrò nel vivo, Berlusconi non oppose ai magistrati il segreto di Stato. Se lo avesse fatto, assumendosi davanti agli elettori le proprie responsabilità politiche, l’istruttoria sarebbe stata immediatamente bloccata. Invece si è andati avanti all’italiana. Con il premier che assicurava di essere all’oscuro di tutto, che giurava sull’estraneità del Sismi, e intanto sembrava garantire collaborazione all’inchiesta milanese. “Non esiste alcun coinvolgimento del governo in vicende delle quali né io, né i miei ministri, né i miei sottosegretari, né alcuna istituzione italiana sono stati mai né avvisati né informati da chicchessia”, ripeteva il Cavaliere. Mentre l’allora ministro Carlo Giovanardi si presentava in Parlamento per dire che l’esecutivo “continuerà a farsi promotore di tutte le possibili iniziative, coerenti col quadro di rigorosa trasparenza e di rispetto dell’ordinamento, utili per consentire il pieno accertamento dei fatti al fine di agevolare l’individuazione di qualsiasi trasgressione della legalità nazionale e internazionale da chiunque fosse stata posta in essere”.
La gente normale che cosa doveva capire ascoltandoli? Che il governo, sapendo di non aver fatto nulla di male, voleva solo verità. Invece era tutto un imbroglio. Perché accanto alle pubbliche dichiarazioni arrivano sui tavoli dei pm note ricche di astrusi bizantinismi giuridici. Roba del tipo: vi vogliamo “fornire gli elementi di informazioni richiesti nella misura in cui gli stessi risultano partecipabili all’autorità giudiziaria”. Ma ribadiamo “l’indefettibile dovere istituzionale [di] salvaguardare, nei modi e nelle forme normativamente previsti, la riservatezza di atti, documenti, notizie e ogni altra cosa sia idonea ad arrecar danno agli interessi protetti”. Berlusconi – ma dopo di lui anche il governo di centrosinistra – faceva insomma il furbo. Non aveva voglia di ricorrere ufficialmente al segreto perché temeva le polemiche che ne sarebbero seguite. Prendeva come al solito tempo, giocava sull’ambiguità delle parole contenute nei documenti protocollati (carte che saranno poi alla base della sentenza di non luogo a procedere su Pollari e Mancini), evitava di confrontarsi con un elettorato che pure su temi come questi – i diritti civili dei presunti terroristi – è fin troppo indulgente. Il risultato della manfrina è oggi sotto gli occhi di tutti. A Washington dire che l’Amministrazione americana è imbufalita con l’Italia, è poco. Il nostro Paese viene visto come il solito regno dei furbi, fatto di personaggi inaffidabili e voltagabbana. Gli apparati di sicurezza Usa protestano facendo sentire persino la loro voce sui giornali. E, a ben vedere, ai loro reclami sarebbe giusto che si sommassero quelli degli 007 made in Italy. Al momento opportuno i discutibili ex vertici del Sismi sono stati bellamente scaricati. E anche se dopo (ma solo dopo), sia Berlusconi sia Romano Prodi, hanno fatto di tutto per evitare la loro condanna penale, un fatto è certo. Gli agenti segreti ormai sanno che per la politica anche loro sono solo carne da macello.
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