del 10 novembre 2009
di Daniele Martini
(Giornalista)
Ma l’Eni le tasse le paga? O meglio, come le paga? Fino all’ultimo centesimo o indugia in quel tipo di giochetti fiscali noti ai tecnici del ramo come elusione? La domanda non è di poco conto. Per almeno tre motivi. Primo: l’entità delle cifre in ballo è notevole, centinaia di milioni di euro di gettito se non miliardi, quattrini preziosi, soprattutto in un momento di crisi come questo e di fronte alle difficoltà dei conti pubblici. Secondo: l’Eni non è una società qualsiasi, è il marchio dell’Italia nel mondo, presente in 70 paesi con 79 mila dipendenti. Terzo: l’Eni è una società per azioni quotata in Borsa con un azionariato diffuso, in gran parte straniero, ma posseduta per oltre il 20 per cento dal ministero dell’Economia e di circa il 10 dalla Cassa depositi e prestiti. Per circa un terzo, cioè, è di proprietà pubblica. L’articolo 6 dello statuto di Eni riserva quindi al ministero dell’Economia una golden share, un’azione d’oro che consente allo stesso ministero, per esempio, di impedire a soggetti privati di detenere più del 3 per cento del capitale. La parte pubblica, inoltre, esprime sei amministratori su nove del consiglio di amministrazione, compreso il presidente e l’amministratore delegato. In pratica la parte pubblica, pur delegando le scelte operative al management, guida e governa l’Eni”. E l’idea che lo Stato quando indossa il cappello Eni possa ricorrere a comportamenti elusivi sulle tasse a scapito dello Stato in versione fisco è una di quelle contraddizioni che lasciano interdetti.
Il dubbio forte che l’Eni stia indulgendo in scelte fiscali nella sostanza elusive, è stato avanzato per tre volte in quattro mesi da un gruppo di deputati Pd in interrogazioni e interpellanze (primo firmatario Ludovico Vico) senza ottenere risposta, almeno finora. Il viceministro dell’Economia, Giuseppe Ve-gas, senza entrare nel merito, quindi senza ammettere o negare l’eventuale esistenza di comportamenti fiscalmente elusivi da parte dell’Eni, ha cercato di tenere comunque fuori il suo ministero dalla faccenda: il ministero in quanto azionista “si limita a esercitare i diritti dell’azionista, non esercitando attività di direzione e coordinamento”. Come dire: se sono stati adottati comportamenti non proprio limpidissimi da un punto di vista fiscale, sono eventualmente addebitabili al management e basta.
Le interrogazioni dei deputati Pd sono molto precise e circostanziate, in particolare l’ultima presentata mercoledì 4 novembre, e si basano sui dati contenuti nel bilancio di esercizio 2008 dell’Eni. Il punto è questo: “La società Eni Spa versa all’erario italiano poco più di 300 milioni di imposte nette annue a fronte di un utile ante tasse di oltre 7 miliardi di euro, con un’incidenza fiscale inferiore al 5 per cento”. Secondo i calcoli dei deputati Pd, l’Eni paga le tasse in base ad un’aliquota effettiva di appena il 4,34 per cento a fronte di un’imposta che teoricamente dovrebbe essere diverse volte superiore. Nel contempo crescono le tasse che la società del cane a sei zampe “versa all’estero erogando dividendi alle società controllate aventi sede in Stati e territori a regime fiscale privilegiato”.
Le società a cui si fa riferimento e che hanno erogato dividendi della controllante Eni Spa sono la Eni International Bv (3 miliardi e 325 milioni di euro) e la Eni Investments plc (917 mila euro). La prima ha sede ad Amsterdam, la seconda a Londra. Queste due società controllano a loro volta a cascata 48 società residenti o con filiali in Stati o territori a regime fiscale privilegiato o in Stati e territori elencati nell’articolo 3 del decreto del ministero dell’Economia del 21 novembre 2001, in cui si individuano, appunto, “gli Stati o i territori aventi un regime fiscale privilegiato”. La stessa Eni in una lunga nota a piè di pagina al bilancio 2008 rende conto degli assetti societari scelti e elenca il numero di società controllateresidenti o con filiali in Stati o territori con regimi fiscali privilegiati. In più informa di aver avuto per cinque di queste società la possibilità di non pagare le tasse in Italia grazie “all’esonero ottenuto dall’Agenzia delle Entrate”, diretta da Attilio Befera, mentre per altre due società fa capire che è in corso un braccio di ferro con il fisco perché “saranno soggette ad imposizione in Italia salvo l’accoglimento dell’istanza di interpello da parte dell’Agenzia delle Entrate”. Ai dubbi dei deputati Pd, l’Eni risponde con una nota al Fatto Quotidiano in cui specifica che il “totale delle imposte correnti italiane è di 1.715 milioni di euro”, cioè superiore alla cifra indicata dai parlamentari, così ripartiti: 1.408 milioni di Ires corrente (comprensiva di Robin tax) e 307 milioni di Irap corrente. Ma Vico, Pd, ribatte: “L’Eni preferisce fornire il dato relativo alle tasse del bilancio consolidato di gruppo che, essendo l’Eni una grande multinazionale, è la sommatoria di realtà molto diverse tra loro. Noi facciamo riferimento al bilancio di Eni Spa, società di diritto italiano, e continueremo a porre la questione finché il governo non ci darà una risposta plausibile”.
Ai deputati Pd sta a cuore la sostanza politica ed economica della faccenda: “Eni, pur realizzando cospicui ricavi sul territorio italiano (sulle bollette di famiglie e imprese italiane), si è strutturata, da un punto di vista fiscale e societario, in modo da pagare la maggioranza delle imposte sui propri ricavi all’estero, per sfruttare regimi fiscali più favorevoli. Sottraendo, quindi, all’erario italiano risorse fondamentali per fronteggiare la difficile congiuntura internazionale, la crisi occupazionale e la connessa e crescente domanda di politiche e tutele sociali”.
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