del 9 dicembre 2009
di Chiara Polin
(Giornalista)
Mimì è di nuovo per la strada. La sera del 13 settembre due alpini l’hanno portato in infermeria per la dose, le solite trenta gocce. Lui non voleva, ha camminato appena più lento del solito, loro l’avrebbero picchiato a sangue. Un dente spezzato. E il doppio di psicofarmaci da buttare giù. Ha avuto il coraggio di denunciare tutto alla procura, ma è stato più veloce il decreto di espulsione: Mimì Hisham, 25 anni, immigrato clandestino, non può più stare nel Centro di indentificazione ed espulsione di Torino. Deve tornare in Marocco, oppure nell’inferno della vita illegale, e trovare un modo per disintossicarsi. Sempre meglio di quel che è successo un anno fa nello stesso centro ad Hassam Nejl, trovato morto nella sua cella: nel sangue un mix micidiale di metadone e calmanti, una “concausa” del decesso per arresto cardiaco, disse il referto. Nessun responsabile per la sua morte, fino a oggi.
Spiega Simone Ragno, operatore del Garante dei detenuti al Cie di Roma: “La metà dei detenuti è sotto psicofarmaci. Chi arriva dal carcere li chiede in automatico. Ma stare lì un anno e mezzo con l’unica prospettiva di essere cacciati come delinquenti spingerebbe chiunque all’abuso: nessuna attività sociale, spazi spogli e angusti, situazioni personali che non trovano attenzione. Noi come organismo di vigilanza teniamo gli occhi aperti e denunciamo i casi più gravi, però se volessimo rivolgerci alla procura per segnalare un abuso faremmo solo un buco nell’acqua: coi tempi della giustizia, parti lese e testimoni diventano regolarmente irreperibili. E gli eventuali colpevoli impunibili”.
Gli episodi violenti sono all’ordine del giorno nei 13 Cie italiani: rivolte, repressioni, autolesionismo, suicidi. Un vero inferno. Dove gli psicofarmaci rischiano di diventare lo strumento più pacifico di controllo e convivenza. Gianluca Ensoli, medico coordinatore di Ponte Galeria, ha ammesso l’utilizzo seriale dei medicinali: “La somministrazione è organizzata in tre turni, diversi per uomini e donne. Di giorno Diazepam (Valium) e Lorazepam (Tavor), alla sera Lormetazepam (Minias). Per evitare che i prodotti possano essere rivenduti sul mercato nero, sedativi e ipnotici vengono dati in gocce”. La sera le code dei disperati sono più lunghe di quelle per la cena. I detenuti ammettono: “Non riusciamo a dormire, diventiamo pazzi, abbiamo bisogno di questa roba”. E firmano un modulo di consenso alla somministrazione, per sopravvivere una notte di più.
Nessuno psichiatra a fare diagnosi e stabilire cure, nessun programma di disintossicazione. Neppure a Roma e negli altri Cie gestiti dalla Croce Rossa. Una situazione talmente grave da richiamare l’attenzione del governo svizzero. A ottobre il presidente della commissione per la Politica estera, senatore Dick Marty, ha visitato i centri di Caltanissetta e Roma anche per valutare “i temi più scottanti come l’utilizzo degli psicofarmaci”, recita un comunicato ufficiale.
Come se ne esce? L’avvocato Paolo Cognini di Psichiatria democratica, gruppo sensibile ai temi del disagio nelle carceri, è scettico: “Difendiamo ogni giorno i migranti da questo meccanismo micidiale, ma siamo in enorme difficoltà. Mancano gli strumenti. Un migrante da me assistito segnalò che al Cie di Bologna gli psicofarmaci venivano messi direttamente nel cibo e che i detenuti accusavano forti sonnolenze dopo aver mangiato. Ma organizzare verifiche e riscontri è impossibile, restano chiacchiere di fantasmi . Anche il mio assistito ha avuto il suo bel foglio di espulsione. In realtà adesso è per la strada, clandestino, senza diritti”. Come tutti gli altri.
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