del 12 dicembre 2009
di Giuseppe Lo Bianco
(Giornalista)
La suspense dura circa venti minuti, carichi di timori e di speranze: nello schermo di un televisore al plasma nell’aula della seconda sezione della Corte di appello di Palermo, il boss Filippo Graviano - 49 anni, capomafia di Brancaccio, stragista condannato a più ergastoli, rinchiuso nel carcere di Parma - risponde in perfetto italiano alle domande del pm Antonino Gatto. Rivela il suo percorso di legalità avviato da dieci anni, confessa il suo rispetto per le regole, dice di astenersi da “comportamenti astuti”, parla della sua passione per lo studio e la matematica in particolare. E soprattutto ammette di avere parlato nel 2004 in carcere con Gaspare Spatuzza, futuro pentito. Il pm chiede, il boss irriducibile risponde. Seduto accanto ai suoi avvocati Marcello Dell’Utri, mascella serrata e braccia distese sul tavolo, ha lo sguardo perso nel vuoto. Graviano scioglie i ricordi carcerari, ammette di avere parlato con Spatuzza di ritorno dal carcere di Rebibbia, nel 2004: “Mi disse che aveva incontrato Vigna”. E subito dopo si ritrae: “Sul contenuto non vorrei dire qualcosa di errato”. Siamo a un passo dalla conferma-bomba: secondo Spatuzza, Filippo Graviano gli parlò della trattativa tra Stato e mafia. Come un esperto regista, il boss conduce tutti, avvocati, pm, Corte e l’imputato, sulla soglia della rivelazione clamorosa, sa che se le parole di Spatuzza hanno dettato l’agenda politica del paese. E quando è stretto nell’angolo dalla domanda del pm – “che le disse Spatuzza di ritorno da Rebibbia?” – il boss aumenta sapientemente la suspense per poi virare, altrettanto clamorosamente, di 180 gradi: “A Spatuzza non ho detto quelle parole, né potevo dirle. Sono stato arrestato nel ‘94, dovevo scontare 4 mesi. Nessuno doveva promettermi niente. Se avessi dovuto consumare una vendetta, l’avrei fatto allora, nel 2004, non è che stavo in un hotel”. Fine della suspense. Il boss torna a fare il boss e nega tutto. La tensione in aula si scioglie sul volto del senatore Dell’Utri segnato da una minuscola cicatrice, probabile spia di un lifting recente, volto che si distende definitivamente alla domanda finale del pm: “Graviano, ha conosciuto il senatore Dell’Utri?”. “Assolutamente no”. Per raccontare il giorno dei Graviano nel processo Dell’Utri bisogna partire da quella suspense abilmente condotta da Filippo, il numero 2 della famiglia, lo scoglio più difficile da superare per il senatore-imputato che, apparso meno preoccupato dal fratello Giuseppe, è entrato persino in ritardo nell’aula dopo la pausa disposta dal presidente Claudio Dell’Acqua, a collegamento già avviato con il carcere di Tolmezzo. E dove è andata in scena la suspense ripetuta, in forma ridotta, dal fratello Giuseppe, il capo della cosca, che si è avvalso poco dopo della facoltà di non rispondere . “Per il momento” spiega pesando le parole. Non perché non voglia, ha precisato il boss, ma per le sue condizioni di salute che non gli permettono di parlare. Ma di scrivere sì, e le sue lamentele sono elencate in una lettera inviata alla Corte in cui denuncia i rigori del 41-bis. La lettera non viene letta, e a spiegarne il contenuto ci pensa il suo avvocato , Ninni Giacobbe: “Il mio cliente è in uno stato di alienazione totale, è monitorato 24 ore su 24 dalle videocamere ed è tenuto sotto riflettori e visori ionizzanti. Non gli danno neppure la carta igienica. Il suo non è un 41-bis normale, ma una tecnica mirata ad annientare la personalità e a indurre alla collaborazione con la giustizia”. Anche qui, fine delle trasmissioni, terminate prima ancora di iniziare. Filippo parla, lascia in attesa, poi nega. Giuseppe mostra un vorrei ma non posso, fino a quando ci sarà questo 41-bis. E subito dopo, dentro e fuori dall’aula si scatena la caccia a decifrare quelli che appaiono segnali e messaggi a cui neanche il senatore Dell’Utri sembra sottrarsi: per lui Spatuzza è un falso pentito, Filippo Graviano, invece, mostra segni di ravvedimento. Affettuosità reciproche che suggellano la fine temporanea di un incubo per l’imputato più importante d’Italia, che la terza deposizione – quella del “picciotto” Cosimo Lo Nigro, venuto anch’egli a smentire Spatuzza – non scalfisce e che ribadisce, anzi, la considerazione dei “picciotti” di Brancaccio verso “l’infame” Spatuzza: “Lo rispettavo come un fratello più grande – dice Lo Nigro – abbiamo avuto una bellissima amicizia”. La partita dei Graviano al processo Dell’Utri si chiude probabilmente qui - il pg Nino Gatto ha lasciato intendere che potrebbe reintrodurre la carta Ciancimino, chiedendo di nuovo l’audizione del figlio di don Vito, già bocciata - assieme alle soddisfazioni per la smentita di Spatuzza un brivido finale attraversa la schiena dei difensori: “Non ci aspettavamo nulla di diverso, anche se quegli accenni al 41-bis non mi sono piaciuti” dice all’uscita uno dei legali del collegio difensivo. E l’avvocato Ninni Giacobbe ricorda alla fine ai giornalisti che gli chiedevano se le parole di Giuseppe Graviano erano finalizzate a lanciare il messaggio che sarebbe disponibile a parlare solo qualora gli fosse revocato il carcere duro: “Non dovete interpretare così, sono cose che dice dal ‘94. Però se le sue condizioni di salute dovessero migliorare, come ha spiegato, potrebbe parlare”. La suspense continua.
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