sabato 12 dicembre 2009

La genesi di questa Italia

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 12 dicembre 2009

di Maurizio Chierici
(Giornalista)


L’Italia dei nostri giorni è cominciata a Milano, quel 12 dicembre in Piazza Fontana. Noi cronisti l’abbiamo vissuta così. Il questore Marcello Guida sta telefonando. Le 7 di sera, aspettiamo. “Caro professore, i nostri sospetti sembrano confermati. I suoi ragazzi sono qui. Adesso li informo…”. Appoggia il telefono, guarda i giornalisti del Corriere della Sera. “Spadolini, vostro direttore …”. Due ore e mezza dopo lo scoppio fa sapere che le indagini inseguono gli autori del massacro.

Sette chili di tritolo in una capsula d’alluminio. Non a orologeria. Un impiegato ha visto un filo di fumo uscire da sotto il tavolo. Pensa a un incendio, ma senza preoccuparsi: solo un filo. Gira la testa per chiamare il commesso quando un soffio d’aria calda lo schiaccia alla parete. Ferito ma salvo. Una miccia. Ne hanno trovato un mozzicone. A chi ha nascosto la bomba sono bastati 40, forse 50 secondi per scappare. Correndo”. Le nostre voci chiedono: “Da solo?”. “Solo, ma con alle spalle un gruppo bene organizzato. La perfezione della bomba lo dimostra”. Di quale colore politico? Ilquestore sospira prima di sillabare la risposta. Poliziotto di lunga esperienza, sa come sfumare le spiegazioni. Carriera che comincia a ventotto anni, carcere-confino per antifascisti. Quando nel ’68 lo promuovono a Milano, i ragazzi della Statale ne ricordano il passato di “zelante funzionario della polizia di Mussolini”. Induriva regolamenti già terribili. Il prigioniero Sandro Pertini, malato di polmoni, scrive una lettera al ministero, e Guida fa sapere a Roma: “Non è vittima della situazione come vorrebbe far credere”. Insomma, piagnone che imbroglia.

ANARCHICI, DIREI Insistiamo: “Di quale colore, signor questore?”. “Anarchici, direi: stiamo indagando”. Il 25 aprile un attentato aveva sconvolto la Fiera di Milano. Bombe artigianali. Qualche anarchico fermato, ma i sospetti erano rimasti sospetti. “Non riesco a capire. Le bombe della Fiera erano grossi petardi; adesso spiega che nell’ordigno della banca c’è la mano di professionisti. Gli anarchici cosa c’entrano?”. “Per il momento non posso dire di più”.

Milano senza nebbia quel pomeriggio del 12 dicembre. I colori del Natale illuminano le vetrine. Rosso il colore di via Montenapoleone: tovaglie, festoni, rose di carta. Al caffè della Rai, corso Sempione, beviamo qualcosa di caldo. Biagi prepara “Terza B facciamo l’appello”. Arriva Mike Bongiorno, sta montando “Rischiatutto”, novità 1970. Parliamo a voce alta per le sirene che corrono in strada. Bongiorno guarda verso il corridoio degli studi e prova a scherzare: “Forse registrano un poliziesco”. Ma le sirene continuano; telefono a Il Giorno. “Corri alla Banca Nazionale dell’Agricoltura. È scoppiato qualcosa. Forse una caldaia. Forse dei morti”. Ma i taxi dove sono? Spariti. Al volo sul tram che non arriva al Duomo: l’ingorgo taglia le strade. Città paralizzata. Un silenzio irreale avvolge Piazza Fontana. La folla aumenta a ogni minuto che passa, tutti parlano sottovoce come in chiesa. Tacciono le nenie degli zampognari: guardano i lampi delle autolettighe con le cornamuse strette al petto. Dalla farmacia vien fuori chi si è fatto medicare. Portano a braccia un giovane carabiniere svenuto nel salone della banca: l’angoscia per i corpi coperti di polvere e di sangue. Il fotografo Massimo Turchetti riemerge dalla hall affumicata: corre al Giorno con la foto simbolo della tragedia. Quel buco nero dall’alto e attorno le rovine.

Nel 1969 non si trasmettevano i giornali in tipografie lontane. Correvano nei camion della notte. L’edizione per Roma chiudeva alle 10 di sera. Nella piccola stanza del direttore Italo Pietra ognuno racconta cos’ha visto: testimonianze parziali che si somigliano. Una domanda tormenta Angelo Rozzoni, vice di Pietra, maniche di camicia rimboccate, matita in mano: spiegare ai lettori chi è stato e perché. “Non è facile…”. Giorgio Bocca mastica la risposta: un’infame provocazione. Dopo processi inutili, imputati e uomini anguilla sgravati per sempre dalla Cassazione, il titolo soffiato da Bocca nella prima pagina del giornale sembra scritto stamattina per ricordare i 40 anni della tragedia mai risolta.

Nei giorni che vengono dopo l’ufficialità conferma l’ipotesi di Guida. Ancora una volta attorno alla sua scrivania ascoltiamo come è morto Pinelli, anarchico volato dalla finestra della questura: suicida per la disperazione di aver fallito. Parla il dottor Allegra e il questore approva piegando la testa.

Neofascisti e identikit

Ma è quel “correre” dell’uomo che ha messo la bomba il dettaglio stonato che non riesco a spiegare. Non va d’accordo col Valpreda dalle gambe molli: ballava e aveva smesso di ballare, la malattia glielo impediva. Pertini, presidente della Camera piange ai funerali. Rifiuta la mano tesa dal questore. Poi la strana telefonata. Gian Luigi Fappanni, 25 anni, neofascista avventuroso, biondo col ciuffo, mi fa sapere, e fa sapere a Gian Luigi Melega di Panorama, di avere segreti dei quali si vuol liberare. Perché proprio noi? Con qualche spillo avevamo raccontato i dubbi sulle prime indagini, e gli amici delle bande nere lo avevano arruolato per passare notizie che incolpassero i protagonisti della destra. Un notaio registra la trappola. Appena i giornali pubblicano i falsi segreti, la beffa della smentita. Si erano presi gioco così di Camilla Cederna: finti campi d’addestramento di Ordine Nuovo in Sardegna. Ci chiediamo : quale ansia li spingeva ad allontanare i sospetti da una destra ancora non coinvolta mentre il “colpevole” Valpreda annaspa in prigione? Controlliamo i racconti di Fappanni. Un giovane italoamericano era in contatto con i gruppi neri di Padova: Giovanni Ventura, Franco Freda. Fappanni e gli altri lo incontravano nella bella casa di Milano alle spalle del Duomo, finestra affacciata su Piazza Fontana. Per due volte li ha portati in gita alla base Nato di Verona. Fappanni ricorda divise importanti e signori in borghese che abbracciavano il loro accompagnatore. Il quale esibiva nelle stanze milanesi ritratti di Hitler e Mussolini. Dovevamo parlargli per capire chi è. Il portiere fa sapere: ha lasciato la casa il 10 dicembre, due giorni prima della bomba. Dov’è appeso il ritratto immenso di Mussolini? “Di fronte alla porta d’ingresso…”. Fappanni sembra preciso. Il portiere ci accompagna. Mobili e quadri spariti, ma in quella Milano fuligginosa resta l’ombra di un quadro nel posto del duce adorato. Non basta. Vogliamo guardare in faccia i committenti. Appuntamento al bar del metrò di Porta Venezia. Piccolo caffè. Due ore prima si riempie di passeggeri senza fretta: autisti, fattorini, cronisti del Giorno. Mauro Galligani (grande fotografo rapito in Cecenia) fissa l’immagine dei signori che salutano Fappanni. Se ne vanno soddisfatti. La ricompensa è un posto alla Citroën di Parigi e soldi per il viaggio e dove dormire. Continuiamo a non fidarci. Fappanni li richiama dalla cabina dei dimafonisti del Giorno. Registrano ogni parola. È proprio vero. Ma chi sono i trappolanti? Angelo Del Boca, redattore capo del giornale, sfoglia le immagini di Galligani: “Piero Cappello, redattore del Borghese…”, torinese come lui. Patrizio Fusar, cronista di nera, riconosce due uomini di Tom Ponzi. Finalmente scriviamo. Ma Il Giorno battagliero e progressista continua a non fidarsi. Di ora in ora la pagina scivola dai piani nobili del giornale all’ultima pagina di cronaca raggelata da un cappello di poche righe: “Fra le tante voci che ogni giorno indicano piste nuove sulle bombe di Piazza Fontana, per dovere di informazione ne raccogliamo una che ipotizza eventuali responsabilità della destra”. Non appare nell’edizione nazionale, inchiesta rimpicciolita nell’edizione di Milano. Fappanni sparisce. Sei mesi dopo la notizia: ha cercato di morire. Sei mesi dopo Freda, Ventura, i fascisti di Padova e Rauti e Zorzi e Ordine Nuovo diventano i protagonisti di chi scava nei bunker del nuovo fascismo alla ricerca della verità mentre servizi più o meno segreti stanno deviando la verità su trame immaginarie. Se l’avessimo capito prima, chissà.

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