del 20 gennaio 2010
di Gustavo Zagrebelsky
(Ex Giudice Corte Costituzionale)
C'è una gran voglia di voltare pagina e guardare avanti. Quello che è stato un Paese riconosciuto e rispettato per la sua politica, la sua cultura, la civiltà dei rapporti sociali, è ormai identificato con l'impasse in cui è caduto a causa di un conflitto di principio al quale, finora, non si è trovata soluzione. Sono quasi vent'anni che il nodo si stringe, dalla fine della cosiddetta prima repubblica a questa situazione, che rischia d'essere la fine della seconda. La terza che si preannuncia ha tratti tutt'altro che rassicuranti.
Siamo probabilmente al punto di una sorta di redde rationem, il cui momento culminante si avvicina. Sarà subito dopo le prossime elezioni regionali. A meno che si trovi una soluzione condivisa, che si addivenga cioè a un compromesso. È possibile? E quale ne sarebbe il prezzo? Se consideriamo i termini del conflitto - la politica contro la legalità; un uomo politico legittimato dal voto contro i giudici legittimati dal diritto - l'impresa è ardua, quasi come la quadratura del cerchio. Per progressivi cedimenti che ora hanno fatto massa anche nell'opinione pubblica, dividendo gli elettori in opposti schieramenti, i due fattori su cui si basa lo stato di diritto democratico, il voto e la legge, sono venuti a collisione.
Questa è la rappresentazione oggettiva della situazione, che deliberatamente trascura le ragioni e i torti. Trascura cioè le reciproche e opposte accuse, che ciascuna parte ritiene fondate: che la magistratura sia mossa da accanimento preconcetto, da un lato; che l'uomo politico si sia fatto strada con mezzi d'ogni genere, inclusi quelli illeciti, dall'altro. Se si guarda la situazione con distacco, questo è ciò che appare come dato di fatto e le discussioni sui torti e le ragioni, come ormai l'esperienza dovrebbe avere insegnato, sono senza costrutto.
I negoziatori che sono all'opera si riconosceranno, forse, nelle indicazioni che precedono. Ma, probabilmente, non altrettanto nelle controindicazioni che seguono.
Per raggiungere un accordo, si è disposti a "diluire" il problema pressante in una riforma ad ampio raggio della Costituzione. Per ora, la disponibilità dell'opposizione al dialogo o, come si dice ora, al confronto, è tenuta nel vago (no a norme ad personam, ma sì a interventi "di sistema" per "riequilibrare" i rapporti tra politica e giustizia), è coperta dalla reticenza (partire da dove s'era arrivati nella passata legislatura, ma per arrivare dove?) o è nascosta col silenzio (la separazione tra potere politico, economico e mediatico, cioè il conflitto d'interessi, è o non è questione ancora da porsi?).
Vaghezza, reticenza e silenzio sono il peggior avvio d'un negoziato costituzionale onesto. La materia costituzionale ha questa proprietà: quando la si lascia tranquilla, alimenta fiducia; quando la si scuote, alimenta sospetti. Per questo, può diventare pericolosa se non la si maneggia con precauzione. Tocca convinzioni etiche e interessi materiali profondi. Non c'è bisogno di evocare gli antichi, che conoscevano il rischio di disfacimento, di discordia, di "stasi", insito già nella proposta di mutamento costituzionale. Per questo lo circondavano d'ogni precauzione. Chi si esponeva avventatamente correva il rischio della pena capitale. Per quale motivo? Prevenire il sospetto di secondi fini, di tradimento delle promesse, di combutta con l'avversario. Quando si tratta di "regole del gioco", tutti i giocatori hanno motivo di diffidare degli altri. La riforma è come un momento di sospensione e d'incertezza tra il vecchio, destinato a non valere più, e il nuovo che ancora non c'è e non si sa come sarà. In questo momento, speranze e timori si mescolano in modo tale che le speranze degli uni sono i timori degli altri. È perciò che non si gioca a carte scoperte. Ma sul sospetto, sentimento tra tutti il più corrosivo, non si costruisce nulla, anzi tutto si distrugge.
Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell'opposizione, che subisce l'iniziativa della maggioranza, si fronteggiano, per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L'uno è considerato troppo "politico", cioè troppo incline all'accordo, purchessia; l'altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c'è l'idea, per gli uni, che in materia costituzionale l'imperativo è di evitare l'isolamento, compromettendosi anche, quando è necessario; per gli altri, l'imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, a dimostrazione della sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall'altro l'intransigenza azionista (che condusse il Partito d'azione all'isolamento).
Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l'etica delle conseguenze e l'etica delle convinzioni. L'uomo politico degno della sua professione - colui che rifugge tanto dall'opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità - conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica.
Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un "giro" di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o "arco costituzionale", desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi, e reticenze sono gl'ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia, occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire.
Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l'accordo c'è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c'è e non ci potrà essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l'una e l'altra. Manca soprattutto l'idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell'ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta. Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell'immunità parlamentare c'è una posizione, o ci sono ammiccamenti?
Quest'ultimo è il caso che si può assumere come esemplare della confusione. Nella strategia della maggioranza, è il tassello di un disegno che richiede stabilità della coalizione e immunità di chi la tiene insieme, per procedere alla riscrittura della Costituzione su punti essenziali: l'elezione diretta del capo del governo, la riduzione del presidente della Repubblica a un ruolo di rappresentanza, la soggezione della giustizia alla politica, eccetera, eccetera. L'opposizione? Incertezze e contraddizioni che non possono che significare implicite aperture, come quando si dice che "il problema c'è", anche se non si dice come lo si risolve. Ci si accorge ora di quello che allora, nel 1993, fu un errore: invece del buon uso dell'immunità parlamentare, si preferì abolirla del tutto. Fu il cedimento d'una classe politica che non credeva più in se stessa. Ma il ripristino oggi suonerebbe non come la correzione dell'errore, ma come la presunzione d'una classe politica che non ama la legalità. Occorrerebbe spiegare le ragioni del rischio che si corre, nell'appoggiare questo ritorno; rischio doppio, perché una volta reintrodotta l'immunità con norma generale, la si dovrà poi concedere all'interessato, con provvedimento ad personam. Due forche caudine per l'opposizione. Ma allora, perché?
Perché, si dice, se non ci sono aperture, il confronto non inizia nemmeno e la maggioranza andrà avanti per conto proprio. Appunto: dove non c'è il consenso, avendo i voti, vada avanti e poi, senza l'apporto dell'opposizione, ci potrà essere il referendum, dove ognuno apertamente giocherà le sue carte. Ne riparleremo.
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