del 19 gennaio 2010
di Peter Gomez
(Giornalista)
Che tra loro tre vi fosse un rapporto speciale gli investigatori lo avevano già capito 24 anni fa. “Marcello, allora non ci sono dubbi a mettere la bomba è stato Vittorio Mangano”, diceva per telefono Silvio Berlusconi prima di spiegare come l’ordigno, piazzato su una cancellata della sua abitazione milanese di via Rovani, fosse comunque “una cosa rozzissima, ma fatta con molto rispetto, quasi con affetto”. Tanto che il Cavaliere si premurava di dire a Dell’Utri che gli sarebbe dispiaciuto “se i carabinieri, da questa roba qui, fanno una limitazione della libertà personale a lui”. Era il 28 novembre del 1986. Al giorno della sua discesa in campo mancavano ancora otto anni, ma già Berlusconi si dimostrava un garantista a tutto tondo. Se fosse stato per lui, anche se le indagini avessero dimostrato che l’attentatore era proprio Mangano (e in realtà non lo era), nessuno avrebbe dovuto arrestarlo. Una bella soddisfazione per l’uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova che in quel periodo si trovava già in carcere per scontare due condanne a undici anni complessivi per mafia e traffico di droga.
Certo, né Berlusconi, né Dell’Utri allora osavano ancora definirlo pubblicamente “un eroe”, come avrebbero fatto durante la campagna elettorale della primavera del 2008. Ma se il boss avesse ascoltato quella chiacchierata avrebbe capito che il suo comportamento (omertoso) per loro era un modello. Non per niente proprio il premier, dopo la morte di Mangano a causa di un cancro diagnosticato in ritardo, dirà che il mafioso “era una persona che si è comportata benissimo, stava con noi ad Arcore e accompagnava i miei figli a scuola”. E che “nonostante le pressioni terribili a cui fu sottoposto in carcere non accettò mai di dire qualcosa, d’inventarsi qualcosa, su di me e Marcello”. Gli amici, del resto, si riconoscono nei momenti di difficoltà. E infatti quando Mangano ritorna in prigione nell’aprile del ‘95, una serie di esponenti di Forza Italia, non mancano di fargli sentire la loro solidarietà.
Dopo gli arresti a ripetizione degli anni ‘70 e le condanne degli anni ‘80, il boss, nel frattempo promosso capo-clan, è adesso accusato di duplice-omicidio e di nuovo di mafia. Ma non importa. Il problema non è che cosa ha fatto. Ma che cosa potrebbe dire. Così il 1 novembre del 1995 il deputato forzista Piero Di Muccio, accompagnato dal futuro parlamentare Pdl Giorgio Stracquadanio, approda a Pianosa dove Mangano è sottoposto a 41-bis. L’incontro dura pochi minuti. Giusto il tempo di scambiare qualche battuta. Ma basta perché in conferenza stampa i due denuncino come a Mangano (mai citato esplicitamente) i pm abbiano posto domande su Berlusconi. Passano sei giorni e il boss (ufficialmente per un errore di un agente) viene trasferito in centro ospedaliero carcerario.
Intanto anche Dell’Utri finisce sotto inchiesta. Interrogato nel ‘96 sostiene di aver continuato a frequentare Mangano, perché “ faceva paura”. Mezz’ora dopo, davanti ai giornalisti, il senatore cambia però versione. Quando i verbali diverranno pubblici c’è il rischio che il boss leggendo quella frase la prenda male. Così Dell’Utri dice alle telecamere: “Se fosse fuori lo inviterei a prendere un caffè”. Un pensiero gentile che ascoltato dal carcere fa sentire decisamente meno soli.
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