del 17 agosto 2009
di Luigi De Magistris
(Europarlamentare)
La sentenza del Tar del Lazio che mette in discussione il peso rivestito dall’insegnamento religioso nella formazione del credito scolastico merita attenzione. Non solo perché si tratta di una sentenza e come tale degna di interesse, ma anche perché, nelle motivazioni indicate dai giudici, è condensato il senso di un dibattito più generale che interroga la società nel suo insieme.
Quel dibattito che ha come centro focale il tema della laicità dello Stato, del rapporto fra fede e potere, del senso anche sociale e politico che da sempre la religione ha rivestito nelle diverse comunità e nelle diverse epoche, purtroppo caratterizzandosi soprattutto nella modalità del conflitto.
Quel dibattito che come un fiume d’acqua si articola in tanti affluenti -testamento biologico, pillola abortiva, coppie di fatto- che restano però alimentati da un bacino originario: appunto il tema della relazione fra fede e politica.
Tematica, questa, che lambisce anche il concetto di argine o di confine e che, nei tempi più recenti, è diventata una clava brandita dai partiti per contendersi il primato etico, con il Parlamento trasformato in un terreno di confronto agonistico piuttosto che in sede di riflessione e scelta consapevole, come invece meriterebbero argomenti simili.
Perciò è indispensabile arrivare ad un’intesa comune che stabilisca il ruolo e il limite di ciascun soggetto, quello politico e quello religioso. In Italia una necessità più che una sfida, che dovrà passare anche per una rivisitazione del famoso Concordato, sbilanciato sul predominio della religione cattolica e, per questo, anacronistico rispetto ad una società che si va globalizzando.
Prima di tutto vorrei chiarire che giudico positiva la decisione del Tribunale amministrativo del Lazio perché riafferma il principio costituzionale che lo Stato pur riconoscendo la libertà di coscienza e di fede al singolo, al contempo stabilisce l’uguaglianza e il pluralismo in cui queste due libertà si manifestano. Perciò lo spazio pubblico, comune a tutti, è spazio laico: le opinioni, comprese quelle religiose, convivono in una parità di importanza. E’ una conquista moderna, nata sulle ceneri fumanti delle guerre religiose e delle crociate, figlia dell’ Illuminismo e del percorso di emancipazione del potere temporale da quello spirituale: processi politici e esperienze storiche che non possono essere cancellate come fumo negli occhi.
La laicità dello Stato appare l’unica via possibile per garantire la convivenza ed è una garanzia per quanti non credono, ma soprattutto per coloro che si riconoscono in una fede. Tutela la libertà di tutti, ponendo fine al principio della territorialità della fede: quel “cuius regio, eius religio” che ha governato l’Europa, stabilendo che sia il potere politico dominante (controllato da quello religioso) ad imporre il culto ai sudditi. Ma se nell’epoca dello scontro fra protestantesimo e cattolicesimo appariva come l’unica strada possibile per evitare il conflitto fratricida all’interno della cristianità, oggi la territorialità della religione è un modello anti-democratico e anti-storico.
Modello che purtroppo ancora condiziona l’Italia e che trova espressione nel Concordato. Il fatto che in un Paese ci sia una maggioranza che si riconosca legittimamente nel cattolicesimo, il fatto che il cattolicesimo sia stato un elemento fondante della nostra cultura, di cui tutti siamo imbevuti (lo dico in senso positivo), non significa che si possa continuare a farne una “religione di Stato”. E che questa religione di Stato possa condizionare le scelte del potere politico, chiamato a rappresentare gli interessi e le sensibilità collettive attraverso la formulazione delle leggi.
Laicità significa dunque rinunciare ad una sensibilità di parte e rinunciare ad affidarle un primato soltanto perché storicamente maggioritaria. Significa arrivare a norme che consentano le diverse libertà, nel principio del reciproco rispetto e del non arrecarsi vicendevolmente danno.
Nel caso specifico questa sentenza muove da un dato oggettivo: in Italia non è insegnata la storia delle religioni, bensì La religione, i cui docenti vengono assunti dopo previo nulla osta vescovile. Per questo farne un elemento di valutazione, che incida sul rendimento scolastico, appare discriminatorio nei confronti di chi non ha fede o ne professa una diversa.
Discriminazione realizzata in quell’ambiente che più di tutti ha il dovere di educare al rifiuto di ogni discriminazione: la scuola. E’ la messa in discussione della laicità come conquista indicata anche dai padri costituenti in quanto unico orizzonte di convivenza, frutto della cultura del dopoguerra che ancora portava le ferite di un conflitto civile sanguinoso.
Diverso sarebbe se agli studenti fosse proposto lo studio delle fedi: un esercizio di educazione civica che troverebbe, credo, tutti d’accordo. Un insegnamento che potrebbe essere considerato l’applicazione del vero spirito evangelico, che ha come messaggio quell’amore del prossimo e quella esigenza di giustizia, anche sociale, che veramente si può considerare un valore universale di convivenza.
Mi sfugge del resto come il riconoscimento delle coppie di fatto, la possibilità di esprimersi sul come morire o il riconoscimento della parità dei credo, possano essere in contrasto con il messaggio che, duemila anni fa, è cominciato a soffiare dalla Galilea. Rivoluzionario nella sua ossessione di equità fra gli uomini e in quel suo grande imperativo morale de “l’amatevi l’un l’altro”.
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