del 19 dicembre 2009
di Marco Politi
(Giornalista)
Quella maschera insanguinata non si cancella facilmente. Perché pone domande. Per questo una tensione sotterranea continua a percorrere il paese. Il mondo politico ha risposto dando solidarietà all’aggredito e condannando fermamente ogni violenza. Il sentimento popolare ha manifestato vicinanza e protezione a chi è stato colpito, nel desiderio istintivo che mai più ritornino stagioni di sangue.
Ma quella maschera insanguinata pone domande anche al protagonista dell’evento. Non a caso un uomo sensibile come Mario Calabresi, ferito personalmente dalla violenza degli anni del terrorismo, ha evocato la necessità di un mutamento anche in Silvio Berlusconi, augurandogli la saggezza di imboccare una strada diversa.
Quella maschera insanguinata, che ha fatto il giro del mondo, esprime rabbia e paura. Dicono coloro che gli sono stati accanto in questi giorni che il suo stato d’animo oscillava tra torpore e stordimento, sussulti di barzellette e abbattimento, lacrime e stupore per non essere riamato… “io che voglio bene a tutti”.
Gli antichi, dagli ebrei ai greci, erano convinti che gli eventi bisognasse leggerli al di là delle causalità apparenti. Una freccia vagante, una pignatta che cade dal tetto colpendo il guerriero invincibile, uno scoglio che si sbriciola tra le mani di chi si pensava già salvo, il gesto di un folle che non dava fastidio a nessuno – erano segni che invitavano ad un ripensamento più profondo dell’evento.
I tragici greci avevano una parola pregnante per descrivere la disgrazia improvvisa che colpiva il forte dei forti: l’hybris – dicevano – aveva raggiunto il suo acme. Il re che si era incamminato su un tappeto di porpora, sentendosi un dio. L’eroe che aveva strappato una vergine dall’altare, spregiando gli dei. Il guerriero che aveva vinto “troppo”. Di colpo incappava in una violenza “grave e banale”, come è stata descritta in queste ore la pietra lanciata a Milano.
Se l’evento è esterno, la risposta, che tocca al protagonista sulla scena, matura (può maturare) solo al suo interno.Perché è interpellato il suo Io. Senza abbellimenti e autoinganni. Io che correvo al Family Day e poi tradivo esibizionisticamente i vincoli familiari. Io che ho negato di avere fondi neri. Io che sono il dominus di chi ha corrotto un giudice. Io non voglio essere giudicato da nessuno mai. Io insulto chi mi si pone contro anche nel compimento del suo dovere. Io voglio piegare il sistema ai miei voleri. Io sono l’Unto del Signore. Io. Io. Io.
Sembrano questioni politiche. Ma non lo sono. Il silenzio di una camera d’ospedale è lo specchio che rimanda le sue domande a chi prova dolore. Certo, si può rimuovere. Ci si può lasciare drogare dalla corte di chi esorta ad andare avanti come se nulla fosse, anzi a lanciarsi contro i “nemici” con accanimento ancora maggiore. Oppure si può tornare sui propri passi nell’auto-analisi. Quello che i saggi ebrei chiamano la teshuvà. Il passo indietro della riflessione critica.
E’ stato scritto che l’aggressione di Milano è un campanello d’allarme. Non solo domenica la campana ha suonato. Sta suonando per tutti noi da mesi in presenza di una forzatura mai vista degli equilibri costituzionali e del retto ordinamento del bene comune. Non va fermata solo la violenza del sasso lanciato. Va sospesa la deriva di onnipotenza, che ancora pochissimo tempo addietro si è manifestata violenta al punto da spaventare persino il presidente della Repubblica.
Ci si può fermare, se si legge un evento come segno di un vicolo cieco imboccato. Si può entrare dentro se stessi a riflettere, se dalle cose che ci toccano si vuole trarre un indizio non banale. Ma il raccoglimento, la teshuvà, può farla solo l’Io. E nessun altro.
Nessun commento:
Posta un commento