sabato 8 agosto 2009

Rai, tocca all’informazione salvare il futuro del servizio pubblico

Dal Corriere della Sera
del 8 agosto 2009

di Aldo Grasso
(Giornalista)



Sulle prime sembrava scherzasse. Il presidente del Consiglio ama scherzare, ma poi i toni hanno preso una brutta piega e Silvio Berlusconi è arrivato a rappresentarsi la tv del Servizio pubblico a sua immagine e somiglianza. Il che forse è troppo, anche per uno insaziabile come lui.

Nella conferenza stampa di ieri si è parlato anche di Rai: «State bene? Che aria si respira in Rai con i direttori che ho fatto io?», ha esordito il premier, riferendosi alle recenti nomine Rai, dove ai posti di responsabilità sono stati messi uomini molto vicini alla maggioranza di Governo.

Non che in passato i direttori venissero eletti in altro modo, ma il viavai di candidati a Palazzo Grazioli è stato particolarmente intenso e sfacciato. Poi sono partite le bordate al Tg3. Alla giornalista che gli aveva posto una domanda ha così risposto: «Lei appartiene a una testata che ieri ha fatto quattro titoli tutti negativi e di contrasto all’attività di governo. Credo che sia una cosa che non dobbiamo più sopportare, non possiamo più sopportare: che la Rai, la nostra televisione pubblica sia l’unica televisione al mondo che, con i soldi di tutti, attacchi il governo. Siamo maggioranza, non vogliamo fare ciò che l’altra maggioranza di sinistra ha fatto in passato, quando la Rai ha continuato ad attaccare l’opposizione». Ha poi aggiunto: «Quindi non è vero che c’è la libertà di stampa o di televisione e che compito di un media è quello di attaccare chi governa...». E poi l’affondo finale, su cui vale la pena riflettere: «Il mandato che io vorrei che la nostra televisione pubblica avesse, e che è il mandato che corrisponde (ho sondaggi precisi al riguardo) alla volontà degli italiani che pagano la Rai con i soldi di tutti, è che la Rai faccia veramente il servizio pubblico e che non attacchi né governo né opposizione».

Questa funzione anestetizzante del Servizio pubblico (SP) è una novità assoluta (anche se ricorda passati regimi), non la si trova nello statuto di nessuna tv europea.

Da parecchi anni la Rai non s’interroga più sul ruolo di SP e le giustificazioni che il dg Mauro Masi ha dato sul divorzio da Sky sono sintomatiche di un disinteresse totale per queste problematiche. Com’è noto, il concetto di SP qui da noi è ben presto degenerato in lottizzazione. Anzi, proprio in questi giorni, siamo tornati alla lottizzazione più selvaggia: al Tg1 e a Raiuno sono stati nominati ben 11 vicedirettori, per gratificare la maggioranza e accontentare un po’ l’opposizione (in stile riserva indiana). Una lottizzazione così spudorata da essere fatta in videoconferenza (alcuni consiglieri non erano presenti a Roma, forse già in vacanza), una lottizzazione così affamata di posti da smembrare la direzione unica della radio per ricavarne altri. Anche la Lega, in passato così sprezzante nei confronti della pratica, si è adeguata: Antonio Marano ha accumulato così tante deleghe da lasciare le briciole agli altri vicedirettori generali. Più la si disprezza nei convegni, più la si pratica. La spartizione delle spoglie Rai è un rito tribale che appartiene ormai alla fisiologia della nostra democrazia: si confonde ora con il pluralismo ora con il clientelismo, ora con lo strumento di controllo ora con la spudoratezza. Nessun moralismo al proposito, ma a rimetterci sono i prodotti (siamo persino arrivati alla lottizzazione della fiction!) e l’esistenza stessa del SP. Nato nell’età della scarsità dei beni televisivi, il SP si trova ora immerso nell’abbondanza. La deregulation dei media ha permesso la fine del monopolio, con la nascita di tv private prima (tra cui Mediaset, che ha giustamente conquistato il suo spazio) e di corporations internazionali poi. Così l’economia su scala mondiale dà il via a media giants , capaci di gestire l’intera filiera delle telecomunicazioni.

La digitalizzazione ha visto la nascita di nuovi canali e di nuovi media su cui è possibile fruire contenuti televisivi. Il pubblico è ormai artefice di un proprio palinsesto grazie alla sistematica ricerca, su più canali e più media, dei contenuti preferiti, da visionare dove e quando gli pare. In questo panorama, il SP pare perdere la sua identità e diventare una tv fra le tante.

Ma allora, cosa significa oggi SP e qual è il suo mandato? Ha ancora senso tenere in piedi una struttura elefantiaca per garantire il godimento di un bene ormai frantumato e fornito da altri? Perché pagare un canone? La risposta potrebbe essere ancora positiva. Ma a due condizioni irrinunciabili. Che non sia il SP auspicato da Berlusconi (l’informazione dovrebbe occuparsi di meteo e di traffico, ma anche così si correrebbero rischi di attacchi al governo, specie in caso di pioggia). Che sappia adeguarsi ai cambiamenti, il più in fretta possibile. Come è accaduto per la Bbc. A questo punto entra in gioco il ruolo dell’informazione che, insieme alla qualità dei contenuti e alla qualità dell’audience, è uno dei baluardi irrinunciabili di una concezione moderna del SP. Il suo compito è di assicurare il pluralismo e, possibilmente, l’obiettività, prendere le distanze dal potere politico, nell’elogio e nella critica, garantire la rappresentanza alle minoranze. La strada è una sola: quella dell’autorevolezza.

Il direttore generale, i direttori delle reti e dei tg non dovrebbero più essere scelti in base alla loro appartenenza politica ma alla correttezza professionale. Non sono i sondaggi a dirlo, ma il buon senso. Che esiste ancora, ma, come diceva don Lisander, se ne sta nascosto per paura del senso comune.

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