del 2 febbraio 2010
Ignoti, perché sembra siano stati banditi dai principali organi di informazioni e dalle tv, perché le loro vite si sono complicate non poco da quando hanno iniziato a combattere quei poteri forti -e a tratti occulti- che hanno determinato cambiamenti epocali nella nostra democrazia.
Un fenomeno quello di Genchi e Borsellino che è esploso negli ultimi anni grazie al web e alle numerose pagine di Facebook che sono visitate da migliaia di giovani che non erano nati, o solo adolescenti, quando si svolgevano gli avvenimenti ricostruiti dai due.
Gioacchino Genchi, poliziotto, ex consulente delle procure nelle inchieste più scottanti degli ultimi venti anni (dalla strage di via D'Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino all'inchiesta Why Not di De Magistris, passando anche per la scomparsa di Denise Pipitone a Mazara del Vallo), è stato messo sotto accusa per la prima volta pubblicamente dal premier Silvio Berlusconi. La colpa? Aver «intercettato 350mila italiani». Genchi è stato oggetto di una campagna stampa e di un processo. Il 26 giugno 2009 è stato scagionato.
Il Tribunale del Riesame già a marzo scorso aveva annullato il sequestro e la perquisizione dei tabulati telefonici spiegando che i reati contestati erano inesistenti. Ma la Procura di Roma comunque non ha restituito i tabulati a Genchi
Salvatore Borsellino, invece, è il fratello del magistrato ucciso dal braccio armato della mafia ma che egli sospetta mosso da parti deviate dello stesso Stato. Le ultime rivelazioni dei pentiti nell’ambito di recenti inchieste pare gli stiano dando ragione. La verità su cosa abbia davvero determinato la morte di Borsellino non c’è ancora.
Sono, in compenso, molti i fatti oscuri che ruotano intorno alle indagini che sembrano aver rallentato e ostacolato il percorso verso la verità.
Uno per tutti la scomparsa della agenda rossa di Borsellino nella quale sarebbero state annotate verità importantissime sui legami tra la politica e la mafia.
Una agenda che è stata sottratta -scomparsa per sempre- il giorno dell’attentato di via D’Amelio. Quella agenda è diventato il simbolo di una lotta per la verità di migliaia di giovani che chiedono spiegazione ai politici di Roma.
L’incontro di sabato è stato in realtà l’occasione per promuovere il libro di Genchi “Il caso Genchi, storia di un uomo in balia dello Stato” scritto con Edoardo Montolli, un libro di 900 pagine nel quale l’ex consulente tecnico delle procure ripercorre la sua storia partendo dai ricordi di Falcone e Borsellino con i quali ha lavorato («ho insegnato io il funzionamento del vecchio Videotel a Falcone che ne intuì l’immensa portata per le indagini») per passare alle inchieste più importanti nelle quali comparivano strane organizzazioni, più o meno occulte tutte con legami chiari con alcuni importantissimi esponenti della politica nazionale.
Molte di quelle inchieste poi sono state fermate, alcuni magistrati costretti a lasciare così come Genchi, accusato di cose palesemente false (un consulente non ha potere di intercettare ma esegue solo un ordine del pm, ndr).
Genchi ha ripercosso in un’aula ammutolita e attenta la fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda, passaggio dettato ed imposto da Cosa Nostra che aveva rotto i ponti con la Democrazia Cristiana e aveva votato per radicali e socialisti. Ne nasce una spaccatura interna al partito di Andreotti: c’è chi vuole combattere Cosa nostra anche per ritorsione e chi invece vorrebbe trattare.
Genchi ricorda come in questo clima sia nata l’Antimafia e come la Cassazione, I sezione penale, nel 1991 per un cavillo scarcerò tutti i boss arrestati dal maxiprocesso. Stessi giudici che in passato avevano contribuito ad “ammazzare” sentenze di condanna ai mafiosi.
Parole di fuoco per noti politici come D’Alema («una persona che dovrebbe sparire anche dall’elenco telefonico») e per Rutelli ex capo del Copasir.
Non sono mancati accenni inediti relativi agli attentati di Falcone e Borsellino che proverebbero come in molti sapessero che “l’attentatuni” sarebbe stato replicato.
Genchi, infatti, ha ricordato che nelle indagini alle quali ha contribuito è emerso che nel carcere dell’Ucciardone, alcune ore prima dell’attentato a Borsellino, arrivarono casse di champagne per i boss mafiosi, lì rinchiusi, per brindare alla morte del magistrato. Quando la polizia fece irruzione nel carcere i boss stavano ancora brindando.
La storia è poi proseguita velocemente tra aneddoti e storie di vita vissuta fino alla creazione di Forza Italia e la vittoria di Berlusconi per arrivare ad oggi con accenni molto critici al controllo totale sui media («proprietà del padrone unico») e alle varie distorsioni create per «addormentare il popolo».
Genchi ha attaccato duramente il premier accusandolo chiaramente di aver organizzato ed enfatizzato l’attacco di piazza del Duomo a Milano (elencando una serie di incongruenze che getterebbero pesanti dubbi sulla genuinità del gesto criminale) ma anche Maurizio Gasparri per aver lanciato attacchi ed insulti proprio da Pescara a Salvatore Borsellino.
Anche in questo caso Genchi ha ricordato l’attacco subito da Leo Nodari alcuni mesi fa, il giorno del Premio Borsellino, (al quale né Genchi né Borsellino hanno voluto partecipare) anche in questo caso parlando di strumentalizzazioni e di incongruenze per le accuse lanciate verso i contestatori che erano altrove.
Oltre due ore di parole seguite con attenzione da una folla eterogenea, molte persone in piedi, chiuse con le lacrime di Salvatore Borsellino, visibilmente commosso, affaticato, che ha urlato più volte la parola «resistenza» ed ha incitato ad aprire gli occhi e ad opporsi a chi vuole sotterrare la verità.
«Ho un debito da pagare con mio fratello», ha detto Borsellino, «perchè per sette anni sono stato in silenzio e perchè io ho lasciato la nostra città e sono andato a lavorare al nord. A Paolo, invece, non piaceva Palermo ma la amava e come tutto quello che si ama, voleva aiutarla a cambiare in meglio.
Per questo continuerò a girare l’Italia e ad incontrare chi vorrà venire a sentirmi per diffondere le idee di mio fratello. Continuerò a farlo fino all’ultimo giorno della mia vita. Oggi sono felice», ha continuato il fratello del giudice, con la voce strozzata da un misto di rabbia e commozione. «Sono felice perchè la vittoria più bella di questi anni siete voi, sempre di più, questo mare di agende rosse che mi segue e si organizza anche senza di me. Oggi so che anche quando non ci sarò più altri continueranno a difendere Paolo e gli uomini onesti e a gridare “fuori la mafia dallo Stato”».
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