del 4 febbraio 2010
di Marco Travaglio
(Giornalista)
Dopo 18 anni di indagini, finalmente l’hanno beccato: Di Pietro frequentava poliziotti, carabinieri, detective americani e persino un questore, Bruno Contrada, prima del suo arresto (si badi bene: prima, non dopo). Le prove che lo incastrano sono le foto di una cena con questa marmaglia il 15 dicembre 1992, foto che giustamente il Pompiere della Sera divenuto incendiario sbatte in prima pagina con gran dovizia di particolari: se Di Pietro avesse cenato con pregiudicati, piduisti, stallieri, corrotti, latitanti, escort sarebbe passato inosservato, anzi l’avrebbero beatificato con Craxi e il Banana. Ma frequentava incensurati, addirittura investigatori: uno scandalo. Il Giornale: “Di Pietro colto sul fatto: ora parli”. Libero: “Dossier Di Pietro. Le carte che spaventano Tonino”. Le foto, scattate dai carabinieri alla festa di Natale nella caserma del comando Legione di Roma davanti a un centinaio di reclute (luogo tipico per complottare lontano da occhi indiscreti), sono tratte da un libro che non esiste (l’editore Koinè dichiara al Giornale che “al momento c’è solo il contratto firmato e la bozza con molti omissis”) scritto da un ex dipietrista che ha denunciato 18 volte Di Pietro, ricavandone 18 archiviazioni che lo descrivono come un grafomane visionario. Dunque una fonte attendibile. Ce n’è abbastanza per riscrivere la storia di tutta Mani Pulite. I mejo segugi del bigoncio sono sguinzagliati alla bisogna. Feltri, reduce dai trionfi del caso Boffo, incalza: “Non sarà che Mani Pulite fu organizzata a tavolino per distruggere la Prima Repubblica, con annesso pentapartito, per assecondare interessi anche internazionali, cui non erano estranei gli Stati Uniti? Perché tutti i partiti finirono in galera e l’ex Pci finì al governo?”. A parte il fatto che dopo Mani Pulite al governo finì Berlusconi, il ragionamento fila: la Cia usa Di Pietro per demolire i partiti filoamericani e portare al governo l’ex Pci. Una mossa geniale che nemmeno il Kgb. Il pm fu poi ricompensato per gli alti servigi resi – rivela Il Giornale restando serio – “con un fermacarte con lo stemma dei servizi Usa”. Roba grossa. Ma non è finita: “Perché Di Pietro non avvertì Borrelli di essersi recato a cena con un capo dei servizi in odore di mafia?”. Giusto: il pm-medium avrebbe dovuto prevedere che Contrada sarebbe poi stato arrestato per mafia e avvertire il suo capo, che non aveva niente di meglio da fare che tenere la lista dei commensali dei suoi pm. E poi, interroga Feltri, “perché Tonino fu salvato dall’attentato e Borsellino no?”. Ecco: perché è ancora vivo? Si discolpi e confessi. A questo punto urge il parere di un esperto, infatti il Pompiere interpella il pregiudicato Enzo Carra: “E’ credibile che Di Pietro avesse rapporti coi servizi”. Il giornalista obietta che una normale cena con i carabinieri è un po’ pochino, ma Sherlock Carra estrae la pistola fumante: “Il fatto stesso che ne stiamo parlando dimostra che così normale non è…”. Un altro cane da trifole dall’olfatto fino, quello con le mèches, azzanna la preda su Libero. Prima scrive che il povero Arturo Parisi era nientemeno che “capo della Polizia”. Poi domanda abruciapelo: “Perché Gherardo Colombo non partecipò alla cena nell’ombra di una caserma?”. L’affare s’ingrossa. Di Pietro va a una cena e non ci porta Colombo. Avrà avuto qualcosa da nascondere, “nell’ombra di una caserma”, infatti lo nascose davanti a un centinaio di carabinieri. Ce n’è abbastanza per metterlo alle corde con dieci domande. Le ultime due del mèchato sono da ko: “9. Di Pietro, da magistrato, mantenne dei legami con un precedente mestiere? 10. Che mestiere?”. Qui l’occhiuto watchdog si tradisce e svela il suo maestro di giornalismo investigativo. Bernstein? Woodward? No, Totò con il vigile in piazza Duomo: “Noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare? Una semplice informazione”. E Totò con Fabrizi: “Mi dica un po’, lei è stato mai in qualche posto?”.
È il metodo Travaglio-Santoro, per cui si diventa mafiosi per aver intrattenuto rapporti con un tale accusato di mafia 20 anni dopo, ma si rimane perfettamente candidi pur avendo cenato con un tale arrestato per mafia nove giorni dopo. Il primo tale si chiama Nino Mandalà, e il suo conoscente Renato Schifani. In mezzo, tra la conoscenza e l’accusa, una ventina di anni, solo un breve lasso di tempo che autorizza perfettamente il cronista che la sa lunga a spruzzare un po’ di mafiosità sul presidente del Senato. Lo stesso ragionamento, tuttavia, non vale se il secondo tale si chiama Bruno Contrada e il suo conoscente Antonio Di Pietro, evidentemente dotato di salvacondotto morale a prescindere dalle frequentazioni e dai banchetti...
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Complimenti all'eloquacitá e dimistichezza (dovuta ad anni di studi ed esperienza "sul campo" immagino)rispettivamente nel descrivere/interpretare/omettere/camuffare.....