del 3 febbraio 2010
di Marco Travaglio
(Giornalista)
Bei tempi quando i politici si ricattavano fra loro. Ora c’è un intero Paese ricattato da un solo uomo, che lo tiene in ostaggio da quindici anni per sistemare i propri affari finanziari e penali. Sono ricattati gli alleati, precettati a uno a uno via sms perché si presentino compatti come falange macedone alla Camera per votargli l’ennesima (quarantesima? cinquantesima? s’è perso il conto) legge su misura: quella che renderà legittimo qualunque “impedimento” a comparire in tribunale, senza nemmeno la fatica di doverne inventare uno a ogni udienza. Impedimento legittimo a prescindere per Lui e i suoi ministri, su disposizione di un funzionario di Palazzo Chigi che darà ordini ai giudici (teoricamente “soggetti soltanto alla legge”, art. 101 della Costituzione) perché rinviino le udienze di sei mesi in sei mesi, in attesa della prossima porcata: superlodo Alfano o immunità Chiaromonte (Pd). Infatti è ricattata anche l’opposizione, almeno quella che si fa ricattare: l’Udc aveva promesso di votare contro se l’impedimento non fosse valso solo per il premier e non fosse stato ritirato il processo breve, invece si asterrà; e il Pd non tenta nemmeno l’ostruzionismo, anzi si accinge a dialogare sull’immunità, dopo che i D’Alema e i Violante han fatto sapere che il legittimo impedimento è “il male minore”.Ricattati anche gli editori dei giornaloni “indipendenti”, dal Sole 24 Ore (ieri, vedi pagina 10, taroccava un sondaggio per dipingere un paese allegro e ottimista sulla crisi) al Pompiere della sera (ieri sparava in prima pagina una vecchia e innocua foto di Contrada e Di Pietro, nascondendo le rivelazioni di Ciancimino sull’odore dei soldi). E sono ricattati anche i giudici. Quelli della Cassazione sanno che, se il 25 febbraio non assolvono Mills, il governo scasserà quel che resta della Giustizia col processo morto. Quelli di Milano sanno che, se non assolvono Berlusconi nel processo Mediaset e nella causa Mondadori, finiranno linciati come il collega Mesiano, portatore sano di calzini turchesi. Quelli di Palermo sanno che, se non assolvono Dell’Utri, una legge ammazza-pentiti farà saltare tutti i processi per mafia. E tocca pure assistere a sceneggiate come quella di sabato pomeriggio, quando la prima udienza della separazione fra Silvio e Veronica (“tentativo di conciliazione”) si è svolta non in Tribunale, come per i comuni mortali, ma alla Prefettura, in una sala appositamente allestita dal prefetto Lombardi, quello che dice che a Milano la mafia non esiste. Di solito, per proteggere la privacy dei coniugi vip, i giudici fissano le udienze in Tribunale il sabato pomeriggio. Per il divorzio del Banana, invece, c’è la Prefettura. Anche perché in Tribunale si inaugurava l’anno giudiziario e i magistrati protestavano contro il governo ammazza-giustizia. E poi, si sa, al Banana i tribunali danno l’orticaria. Gli vengono proprio le bolle rosse al solo sentirne parlare. Meglio farlo giocare in casa, nel “palazzo del governo”. Il tutto per decisione o con l’avallo della presidente del Tribunale, Livia Pomodoro, che tre anni fa aveva costretto il gip Clementina Forleo a una procedura del tutto inedita per proteggere la casta dalle intercettazioni Unipol-Antonveneta. Chissà in quale articolo del Codice di procedura civile è previsto che la separazione del premier venga discussa in Prefettura. E chissà perché il presidente della sezione famiglia del Tribunale, Gloria Servetti, ha sentito il bisogno di giustificare il fallimento dell’“operazione privacy” con un’imbarazzante dichiarazione Ansa: “Avevo adottato tutte le cautele possibili e sono molto amareggiata che la vicenda sia apparsa sulla stampa. Nessun giudice della mia sezione, né la cancelleria, né i miei familiari (sic!, ndr) erano al corrente della pendenza del procedimento né dei miei impegni di sabato pomeriggio”. Dopotutto, se il Tribunale avesse obbedito al Codice, sarebbe passata una leggina per il divorzio ad personam. Il ricatto è a un punto tale che ormai, per evitare le leggi su misura, i giudici le anticipano.
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