martedì 30 giugno 2009

Berlusconi contestato a Napoli e a Viareggio

Montano sempre più le contestazioni al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, oggi 30 giugno il premier è stato contestato duramente sia a Napoli che a Viareggio.








Cozzolino: falso il mio fidanzamento con Noemi



Dal Quotidiano L'Unità
del 30 giugno 2009





Il suo fidanzamento con Noemi Letizia? «La verità è che è stato tutto organizzato». È la clamorosa confessione che Domenico Cozzolino, 21enne pierre campano, ha rilasciato in esclusiva al settimanale "Diva e donna", diretto da Silvana Giacobini, in edicola domani.Secondo la versione del giovane, a chiedergli di mettere in scena il finto rapporto sarebbe stata Noemi stessa, «anche se credo che qualcuno l'abbia indirizzata, tre o quattro giorni dopo» la sua festa per i 18 anni, a cui partecipò anche Silvio Berlusconi. Un finto fidanzamento già finito: «Mi volevano allontanare perchè so troppe cose. Quindi dopo il 7 giugno non ci siamo mai più sentiti con Noemi».Alla domanda se ora si aspetta reazioni da Noemi e famiglia, Cozzolino replica: «Non mi interessa, io ho la coscienza a posto. In questa intervista sto raccontando come è andata, anzi, non ho raccontato tutto, ma una minima parte, una infarinatura. Finchè è gioco, sì, ma ora si stava iniziando ad andare oltre. Adesso dormo più sereno».

IL DIRITTO DI CRONACA

Condividiamo lo scritto dell'avvocato Antonello Tomanelli sul diritto di cronaca che in un paese civile e democratico deve essere garantito e messo al servizio solo ed unicamente dell'opinione pubblica, mentre a noi sembra che non è stato sempre così ed ultimamente il potere pare voglia garantirsi l'anonimato riguardo a determinati suoi abusi e allo stesso tempo aumentare il controllo su tutti i mezzi d'informazione, internet compresa.


Dal sito web
Difesa dell'informazione

Antonello Tomanelli
(Avv. del Foro di Bologna)



Il fondamento del diritto di cronaca è nell’art. 21 Cost., in quanto libera manifestazione del pensiero. La cronaca si distingue dalle varie forme di espressione, riconducibili a quella norma costituzionale, principalmente per due ragioni. In primo luogo, si manifesta attraverso la narrazione di fatti. In secondo luogo, si rivolge alla collettività indiscriminata.

Essendo la cronaca narrazione di fatti rivolta alla collettività, se ne deduce che la sua funzione è quella di informare la collettività. Quella collettività il cui ruolo, nella società democratica, è inequivocabilmente delineato dall’art. 1 Cost., laddove dice che “La sovranità appartiene al popolo”. Ed è proprio questa attribuzione di sovranità a connotare ulteriormente la funzione della cronaca.

La collettività, infatti, delega periodicamente la gestione della “cosa pubblica” (res publica) ai suoi rappresentanti eletti in Parlamento. E la delega deve avvenire con piena cognizione di causa. La collettività deve avere un quadro dettagliato sia di ciò che accade nel Paese, sia delle persone alle quali delega l’esercizio della sovranità. Ma, non disponendo di mezzi idonei, ecco che gli organi di informazione si incaricano di puntare i riflettori su quegli aspetti la cui valutazione determina la scelta del delegato. Di qui l’insostituibile funzione della cronaca: la raccolta di informazioni e la loro diffusione, in virtù del rapporto privilegiato che gli organi di informazione vantano con la realtà, allo scopo di consentire al popolo un corretto e consapevole esercizio di quella sovranità che l’art. 1 Cost. gli attribuisce.

Tuttavia, vi sono articoli di cronaca riguardanti personaggi o aspetti che non presentano punti di contatto con la gestione della cosa pubblica, ma che per vari motivi destano l’interesse della collettività. Si pensi agli artisti, ai campioni dello sport, agli argomenti culturali. Anche su questi personaggi e argomenti la collettività va tenuta informata. Qui la funzione della cronaca è quella di mantenere saldo il legame che unisce la collettività al personaggio, nonché di agevolarne la crescita intellettuale.

Sotto questo aspetto si può dire che la collettività vanta un vero e proprio diritto alla informazione. O perché è funzionale all’esercizio di quella sovranità che per Costituzione le appartiene, o perché ne favorisce la crescita in termini culturali e intellettuali. Ma si potrebbe affermare che esiste, in correlazione al diritto della collettività ad essere informata, anche un obbligo di informazione?

Un necessario chiarimento. Qui un eventuale “obbligo di informazione” non andrebbe riferito né specificamente alla persona del giornalista (o a chi comunque informa la collettività), né allo scopo di fondare un giudizio di responsabilità in caso di mancata osservanza. Un giornalista non può essere costretto a pubblicare una notizia, né può essere ritenuto responsabile nei riguardi della collettività per non averla informata. Al limite, ciò potrà avere rilevanza nel suo rapporto contrattuale con l’editore. In realtà, si tratta soltanto di verificare se, in base ad alcune norme, tra collettività ed organi di informazione si possa delineare un rapporto che, sebbene privo di rilevanza giuridica, sia tale da attribuire alla manifestazione di pensiero che accompagna la cronaca un valenza tutta particolare all’interno dell’art. 21 Cost.

Ebbene, di vero e proprio obbligo di informazione si potrebbe formalmente parlare con riferimento a quei soggetti che esercitano un servizio dichiarato pubblico dalla legge, perché inteso in favore della collettività indiscriminata. Secondo le leggi di disciplina del sistema radiotelevisivo che finora si sono succedute, l’attività radiotelevisiva ha sempre costituito “un servizio di preminente interesse generale”. E alla relativa attività di informazione è sempre stata attribuita la massima importanza, dal momento che “I soggetti titolari di concessione per la radiodiffusione sonora o televisiva in ambito nazionale sono tenuti a trasmettere quotidianamente telegiornali o giornali radio” (art. 20, comma 6°, L. n. 223/1990, nota come “legge Mammì”, confermato dalla L. n. 112/2004, nota come “legge Gasparri” e dall’art. 7, comma 2° lett. b), D.Lgs. n. 177/2005, noto come “Testo Unico della radiotelevisione”). L’attività informativa radiotelevisiva è dunque un obbligo per i maggiori concessionari.

Per la carta stampata, non c’è dubbio che molti quotidiani e periodici a diffusione nazionale assolvano ad una funzione informativa indispensabile per la collettività. Ma è anche vero che nella L. n. 47/1948 (“legge sulla stampa”) non vi è norma sulla quale fondare un obbligo di informazione analogo a quello dei concessionari radiotelevisivi nazionali. Tuttavia, l’attività di quasi tutti i quotidiani e i periodici è esclusivamente informativa. Per non dimenticare, poi, quelle norme deontologiche che disciplinano la professione giornalistica e che espressamente parlano di “diritto dei cittadini all’informazione” e di “diritto dovere di cronaca”, senza fare distinzione tra mezzi di informazione.

Dati questi presupposti, è evidente come la cronaca assuma una posizione di netto privilegio rispetto alle altre forme di manifestazione del pensiero garantite dall’art. 21 Cost. Si tratta dunque di scoprire in cosa consiste esattamente questo privilegio.

Di norma, i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero sono rappresentati dal rispetto di quei diritti inviolabili che l’art. 2 Cost., norma “aperta” a sempre nuove istanze di tutela della persona, fin dalla sua nascita si è incaricato di accogliere e garantire: a cominciare da concetti come onore, decoro, reputazione. Diritti della persona che l’ordinamento tutela attraverso la previsione di reati come l’ingiuria (art. 594 c.p.) e la diffamazione (art. 595 c.p.). E, nel conflitto tra manifestazione del pensiero e diritto inviolabile, è sempre quest’ultimo a prevalere.

Non così per il diritto di cronaca. Costituendo al tempo stesso espressione della libertà di pensiero ed insostituibile strumento di informazione al servizio esclusivo della collettività, il diritto di cronaca vanta una tutela rafforzata. E finisce per prevalere sul diritto del singolo individuo, anche se “inviolabile”. Il reato di diffamazione, l’illecito civile, qui non sorgono, pur in presenza di una obiettiva lesione, perché è lo stesso ordinamento giuridico a permetterla (art. 51 c.p.: “L’esercizio di un diritto […] esclude la punibilità”). Nel linguaggio giuridico in questo caso si dice che il comportamento illecito è scriminato, e la lesione non dà luogo ad alcuna responsabilità.

Tutela rafforzata, ma non assoluta. Il diritto inviolabile del singolo individuo soccombe di fronte all’esigenza informativa, ma nel rispetto di alcune precise condizioni. Di stabilire quali siano queste condizioni si è incaricata la giurisprudenza, a partire dalla storica sentenza che scrisse il cosiddetto decalogo del giornalista (Cass. 18 ottobre 1984 n. 5259). Secondo tutti i giudici che, a partire da quella storica sentenza, si sono ritrovati a dover affrontare problematiche relative al diritto di cronaca, quest’ultima si configura correttamente soltanto quando concorrono i seguenti tre requisiti: a) la verità dei fatti (oggettiva o “putativa”); b) l’interesse pubblico alla notizia; c) la continenza formale, ossia la corretta e civile esposizione dei fatti.

In assenza anche di uno solo di questi requisiti, il diritto inviolabile risorge in tutta la sua pienezza, rendendo illecita la manifestazione di pensiero.

Un’ultima considerazione va fatta riguardo ai soggetti che possono beneficiare del diritto di cronaca. Sarebbe errato sostenere che il privilegio di informare è riservato al giornalista. L’art. 21 Cost. non può riguardare una ristretta categoria. In realtà, l’ambito di applicazione del diritto di cronaca non è riferito al soggetto che lo esercita, ma al mezzo attraverso il quale viene diffuso il pensiero.

Così, il diritto di cronaca va riconosciuto a chi narra fatti o esprime un pensiero utilizzando un mezzo tecnicamente idoneo ad informare una cerchia indeterminata di persone. Quindi, non solo al giornalista, ma anche a chi scrive sul giornalino della scuola o dell’università, su un volantino poi distribuito al pubblico, a chi interviene in un forum o tiene un blog su internet. Persino chi scrive sui muri della città può invocare il diritto di cronaca, se vengono rispettati gli altri requisiti (interesse pubblico e continenza formale), anche se il più delle volte i messaggi scritti sui muri, non riportando fatti ma giudizi, risultano meglio riconducibili alla problematica della critica.

19 Luglio 2009: Lettera di Salvatore Borsellino


Grazie di cuore Salvatore



di Salvatore Borsellino
del 30 giugno 2009




Veniamo alla partecipazione per il 19 luglio a Palermo.

Innanzitutto non vorrei che quello che stiamo preparando venisse chiamato o inteso come “commemorazione”.



Le commemorazioni si fanno in Via D’Amelio a Palermo ormai da 17 anni e quello che io voglio fare è proprio spezzare questa catena che sta diventando ormai una abitudine. Per alcuni, i palermitani, forse gli stessi che parteciparono alla cacciata dei politici dalla cattedrale di Palermo il giorno dei funerali dei ragazzi della scorta e che oggi sembrano avere dimenticato quei momenti di indignazione e di rivolta, è un momento per risollevarsi dall’indifferenza e dall’assuefazione nelle quali sono ricaduti e per giustificare davanti alla propria coscienza, con una sempre più stanca partecipazione di qualche ora di quel giorno, il loro silenzio di oggi, Per altri, i complici morali o materiali di quella strage, è un periodico ritornare sulla scena del delitto ed assicurarsi che le vittime siano state effettivamente eliminate; il mettere corone e sentire suonare il silenzio è qualcosa che psicologicamente li rassicura, è proprio il silenzio che vogliono fare calare sui veri motivi e i veri mandanti di quella strage.
Ma quel giorno il buio che questo sistema di potere ha fatto calare su tutto quanto riguarda Via D’Amelio, il centro del SISDE sul castello Utveggio, l’agenda rossa sottratta e per cui viene negato anche un dibattimento in un pubblico processo, si deve necessariamente interrompere e per un giorno i riflettori sono accesi e illuminano tutta la scena. E’ questo momento di pausa nelle tenebre che io voglio sfruttare per fare arrivare alla massa inerme dell’opinione pubblica il nostro grido di verità e di giustizia. E’ perché questo grido sia abbastanza forte e faccia tremare gli avvoltoi che come ogni anno caleranno in via D’Amelio è necessaria una massa di gente, che, ognuno con la sua agenda rossa levata in altro a simboleggiare la nostra voglia di Giustizia, gridi a questi impostori, a questi sciacalli, la proria rabbia.Ma non si potrà esprimere per questa iniziativa una solidarietà di massima, dire che Palermo è troppo lontana, che non si ha il tempo. E’ troppo spendere un giorno della nostra vita per chi ha dato la nostra vita per noi?: Questa non deve essere una manifestazione qualsiasi, deve essere quella scintilla che dovrà provocare un incendio nella massa amorfa di chi non sa, non si rende conto del baratro in cui è precipitato il nostro paese. Da Palermo è cominciato tutto e a partire da Palermo tutto deve cambiare. E’ la nostra ultima occasione o dobbiamo rassegnarci a vivere in un paese di schiavi. E non basterà neanche partecipare, bisognerà che ciascuno di noi si attivi al massimo delle proprie possibilità perché questa manifestazione abbia il massimo della partecipazione e il massimo della risonanza. O sarà ancora una occasione sprecata. E non credo che possiamo permettercene ancora.

L'ex ministro socialista: «L’indagi­ne di Bari ci costringe ad aprire gli occhi e a osservare la so­cietà italiana»

Dal Corriere della Sera
del 30 giugno 2009

di Gianna Fregonara
(Giornalista)




ROMA — Non è soltanto una questione politica, non è un proble­ma di Prima e Seconda Repubblica, «perché prendendola così si fini­rebbe per trasformare tutto in un refrain della nostalgia» in cui ci si cimenta «senza costrutto perché non serve tenere gli occhi nel vec­chio mondo mentre i piedi della so­cietà sono in un mondo nuovo». E’ un giudizio duro quello di Ri­no Formica, potente ministro delle Finanze socialista nonché autore della famosissima definizione del­l’Assemblea nazionale del Psi del 1991, «la corte di nani e ballerine», di cui chiese l’abolizione: «L’indagi­ne di Bari — dice — ci costringe ad aprire gli occhi e a osservare la so­cietà italiana».

Impegnativo. Ci vuol provare?
«Dobbiamo cominciare doman­dandoci che cosa è cambiato negli ultimi anni. Dove sta andando la società italiana, come si è evoluta e quanto sono aumentate le tenden­ze anarcoidi».

La risposta?
«Si sono rotte del tutto le dighe delle convenzioni sociali. E’ succes­so nei campi più vari della socie­tà ».

E quando è successo, negli An­ni Ottanta?
«Noo, negli Anni Ottanta c’è sta­ta un’accelerazione, non una cesu­ra del percorso. La rottura delle gabbie è iniziata vent’anni prima con i movimenti di liberazione, le proteste studentesche».

Non vorrà dire che quello che succede oggi con Berlusconi è fi­glio del Sessantotto? «La società dal Sessantotto co­mincia a lacerare i propri vestiti, che sono le regole che reggono una comunità e che vengono ri­spettate a accettate. Alla fine del processo, la società è nuda».

E la moralità è cambiata.
«Non solo. Sa forse un tempo si era più attenti. Nel senso che si fa­ceva come raccomandavano i gesu­iti: se dovete peccare, fatelo con cautela».

E la politica che cosa c’entra?
«La politica, così come la cultu­ra, ha una responsabilità chiara. Una colpa, direi. Si è fatta trovare arretrata, impreparata. Pensava ad altro e non ha confezionato per tempo dei nuovi vestiti, delle nuo­ve regole, una nuova convenzione con cui rivestire il corpo sociale. Anzi, da vent’anni va di moda un certo dannunzianesimo politico. Tutti a stracciare gli abiti e nessu­no a pensare a ricoprire le nudità. Ma una società nuda, senza regole non esiste».

Sarà anche un problema com­plessivo e collettivo...
«Finirà per essere anche un pro­blema istituzionale, perché non si possono distinguere il cervello, il cuore della società e il sangue, che circola e intossicherà tutto».

Un po’ criptico.
«Sto pensando a quello che ha detto Napolitano e cioè che la de­mocrazia è forte e la politica è de­bole. La democrazia è il cuore e la politica è il sangue».

Ma in questo caso il problema politico è che, con le feste e le ra­gazze, morale e moralismi a par­te, il premier può risultare aperta­mente ricattabile.
«Ma sono tutti ricattabili. Per­ché un dirigente che andasse ai fe­stini non lo sarebbe, o un ammini­­stratore delegato di una banca sa­rebbe immune? Se si facesse la mappa dei salotti d’Italia, si scopri­rebbe che nella maggior parte si usa droga con scioltezza. Ma que­sta ricerca non la fa nessuno».

Uno scandalo come quello di Bari può portare alle dimissioni del premier o, secondo lei, non succederà nulla?
« Io sarei cauto, bisognerebbe ca­pire alcune cose. Per esempio se davvero dietro c’è un gioco politi­co, come dicono alcuni, o invece se si tratta di una questione imprendi­toriale, se non c’entra Mediaset».

Berlusconi è una vittima allo­ra?
«Ci mancherebbe, lui ha assecon­dato questa mutazione sociale, an­zi ne ha fatto la sua forza contrap­ponendosi alle vecchie convenzio­ni. Ha delle responsabilità molto chiare. Credeva che per cambiare mestiere e fare il politico bastasse cambiare l’oggetto sociale alla sua azienda, smettere di vendere denti­frici e cominciare con le lavatrici».

Però ha avuto un bel successo.
«Ha avuto successo perché il si­stema era distrutto. Poi i anche me­dia ci hanno messo del loro. E così oggi leggo che il ministro Tremon­ti può dire che il Cavaliere è diven­tato insostituibile».

Forse lo fa, tatticamente, per al­lontanare da se le voci sulle sue presunte velleità di sostituirlo in questo momento di crisi.
« Ci sarà anche questo elemento interno al governo e alla maggio­ranza, ma è un Paese serio quello in cui un personaggio così sgrade­vole - non dico il male assoluto, so­lo sgradevole - come Berlusconi è considerato in-so-sti-tu-i-bi-le? E’ gravissimo, in democrazia nessu­no è insostituibile».

lunedì 29 giugno 2009

Internet e diritto all'oblio: quando la memoria

Dal sito web Difesa dell'informazione
del 28 giugno 2009

di Antonello Tomanelli
(Avvocato)




Il generale Rafael Videla, capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981, amava ripetere che “la memoria è sovversiva”. Il senso della frase è che niente che possa nuocere al Potere va ricordato. In un’ottica opposta, Roberto Scarpinato, magistrato antimafia della procura di Palermo, dice che “la memoria è come un indice puntato contro i crimini del Potere”.

Carolina Lussana, deputata della Lega, ha fatto propria la tesi del dittatore argentino presentando alla Camera dei Deputati il disegno di legge n. 2455, che vuole regolamentare il cosiddetto “diritto all’oblìo” su internet. Un disegno di legge che impedirebbe di mantenere in Rete, decorso un certo periodo di tempo, informazioni su persone che in precedenza hanno avuto guai con la Giustizia.

Molto sinteticamente, il diritto all’oblìo, creato da quella giurisprudenza degli anni ’70, attentissima ai diritti della persona, che lo collocò tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., è il diritto di ognuno a non vedere riproposti al pubblico fatti propri che in passato furono oggetto di cronaca. A volte è sufficiente una singola pubblicazione perché una notizia venga acquisita con completezza dalla collettività. Altre volte sono necessari approfondimenti, che fanno sì che la notizia perduri nel tempo. In ogni caso, a partire dal momento in cui il fatto è acquisito nella sua interezza, l’interesse pubblico alla sua riproposizione va scemando fino a scomparire, come se diventasse un fatto privato, e sorge il presupposto del diritto all’oblìo.

Una tutela sacrosanta. Ma che, per ovvi motivi, riguarda il “cittadino X”, il tossicodipendente che per procurarsi la dose rapinò la bottega, o l’anonimo funzionario che si fece corrompere per coprire un abuso edilizio. Non certo il politico di lungo corso, quello il cui rapporto con la collettività perdura nel tempo e che sarà sempre attenzionato dall’opinione pubblica, anche per ciò che riguarda il passato.

Ebbene, il disegno di legge presentato dalla deputata Lussana cancella questo principio. Detta una normativa generale sui termini massimi di permanenza in Rete della notizia di un procedimento penale a carico di chicchessia, pena una sanzione amministrativa da 5.000 a 100.000 Euro ai danni del proprietario del sito. I termini variano a seconda che si tratti di assoluzione o archiviazione (un anno), di amnistia o prescrizione (due anni), di una condanna definitiva. In quest’ultimo caso, i termini sono maggiori e dipendono unicamente dall’entità della pena inflitta con la sentenza di condanna. Ma, cosa più importante, non si guarda all’autore del fatto. La normativa riguarda tanto il pastore che uccide per riprendersi la pecora quanto il presidente del Consiglio.

E certo non rassicura l’art. 3, comma 3° lettera c), secondo cui la cancellazione dei dati sul web non può imporsi in riferimento a chi “esercita o ha esercitato alte cariche pubbliche, anche elettive, in caso di condanna per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, allorché sussista un meritevole interesse pubblico alla conoscenza dei fatti”. Si badi bene: “per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni”. Ciò significa, per fare un esempio noto, che se, come è ormai certo, interverrà la prescrizione in favore di Silvio Berlusconi una volta ripreso nei suoi confronti il processo Mills, per ora sospeso dal lodo Alfano ma che in primo grado ha accertato la posizione di Berlusconi quale corruttore, le relative notizie potranno rimanere in Rete per soli due anni. Perché quel reato Berlusconi non lo avrebbe commesso nell’esercizio di funzioni pubbliche.

Allo stesso modo, i fatti contenuti in un decreto di archiviazione, che ha ad esempio accertato che un noto politico è abituale commensale di un mafioso ma non la sua partecipazione a Cosa Nostra, potranno rimanere in Rete per non più di un anno.

In pratica, questo disegno di legge interviene a gamba tesa sul concetto di interesse pubblico, che viene graduato in maniera molto discutibile. In caso di condanna, la relativa notizia potrà essere mantenuta in Rete per un tempo che varia in funzione della pena comminata dal giudice, non dell’interesse obiettivo che suscita il fatto.

Ed ecco il paradosso. Chi è stato condannato all'ergastolo per aver avvelenato la moglie, rimarrà per sempre nei motori di ricerca. Invece, del più grave episodio di corruzione della storia della Repubblica non rimarrà più traccia passati cinque anni. A questo porterà la geniale trovata dell'onorevole Lussana. Le generazioni future sapranno tutto sui delitti di Erba, Garlasco, Cogne, Perugia e simili. Ma niente su una nuova Tangentopoli.

Si noti, poi, come la logica sottesa a questo disegno di legge ricalchi quella della prescrizione del diritto penale. La prescrizione è l’estinzione del reato per decorso del tempo senza che sia stata emanata sentenza definitiva. Si parte, cioè, dal presupposto che trascorso un certo periodo di tempo, che varia a seconda della gravità del reato, lo Stato rinuncia a punire l’autore perché non ne ha più l’interesse. Lo Stato prima o poi dimentica, tranne i reati punibili con l’ergastolo, che sono imprescrittibili.

Allo stesso modo, questo disegno di legge impone alla collettività, decorso un certo periodo di tempo che varia a seconda della pena inflitta, di non nutrire più interesse alla conoscenza di determinati fatti. Vengono subito alla mente i reati dei colletti bianchi, che certo non tagliano la gola ai propri familiari. La collettività viene quindi privata della memoria in ordine a fatti la cui conoscenza è indispensabile per poter giudicare una classe dirigente. E’ come se la memoria storica cadesse in prescrizione. Per dirla con il collega Guido Scorza, viene meno il "diritto alla Storia". Ritorna in mente la frase del generale Videla (“La memoria è sovversiva”). E niente più dito puntato contro i crimini del Potere, parafrasando il magistrato Roberto Scarpinato.

Ma vi sono altre considerazioni di ordine logico che non si possono tralasciare, e che svelano una evidente scarsa conoscenza dell’istituto del diritto all’oblio da parte dell’onorevole Lussana. E’ noto, infatti, che l’elemento caratterizzante il diritto all’oblio sta nella riproposizione di un fatto che fu oggetto di cronaca in passato, quando l’interesse pubblico intorno ad esso si è ormai sopito. Si badi bene: “riproposizione”. Vale a dire: si vìola il diritto all’oblio quando il gestore di un’informazione, senza che sussista un interesse pubblico, la ripropone alla collettività. Qui da parte del lettore vi è un’apprensione passiva del fatto già oggetto di cronaca in passato. Riproporre un fatto alla collettività significa elevarlo al rango di notizia, quindi pubblicarlo, ad esempio, su un quotidiano (o un periodico) oppure inserirlo nella home page del proprio sito.

Il disegno di legge in questione impedisce, invece, l’apprensione attiva di un fatto, la sua acquisizione attraverso un’attività di ricerca da parte dell'utente sugli appositi motori della Rete. E’ come se il legislatore imponesse a tutte le biblioteche di rendere inaccessibile gran parte del proprio materiale cartaceo, decorso un certo periodo di tempo.

Se davvero si fosse voluto tutelare il diritto all’oblio, non ci sarebbe stato alcun bisogno di creare una normativa ad hoc. I principi dell’ordinamento già tutelano la persona contro le indebite riproposizioni di fatti passati. Se chi ha picchiato un altro per un parcheggio vuole far sparire il proprio nome dalla cronaca locale di un sito male aggiornato, non ha che da rivolgersi al tribunale o al Garante della Privacy, che provvederà senza indugio a far rimuovere quei dati imbarazzanti, con rifusione delle spese legali, laddove non sussista più alcun interesse pubblico al loro mantenimento.

Pertanto, dire che il disegno di legge dell’onorevole Lussana vìola l’art. 21 Cost., che sancisce la libertà di espressione, è cosa scontata. C’è di peggio. Qui è la formazione culturale delle future generazioni ad essere messa a repentaglio. Prevedere una normativa che obblighi sempre e comunque, decorso un certo periodo di tempo, a rimuovere dal web una notizia a prescindere dalla valutazione concreta della sussistenza di un interesse pubblico al suo mantenimento, significa privare i posteri di un fondamentale strumento di controllo delle elités del Potere, notoriamente refrattarie ad un ricambio generazionale. Una privazione che si sostanzia nella violazione del principio di sovranità popolare, sancito all’art. 1 Cost., che vuole che i governanti siano scelti dal popolo, ma con cognizione di causa.

Non solo. Qui è anche il principio costituzionale di eguaglianza sostanziale ad essere violato. Dice l’art. 3, comma 2°, Cost.: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Quegli ostacoli, più che rimuoverli, il disegno di legge Lussana li frappone. Imporre automaticamente l’oblio su fatti e misfatti di indubbio interesse pubblico provocherebbe uno scollamento tra i detentori del Potere e chi conferisce loro il mandato a governare, col risultato di vanificare quella “partecipazione” di tutti i cittadini al governo del Paese, voluta dalla Costituzione e che è alla base di ogni democrazia.

Passaparola del 29 giugno 2009

“Vogliono ammazzarmi”

Dal Quotidiano On Line Live Sicilia
del 29 giugno 2009

di di Roberto Puglisi
(Giornalista)




“Non sono solo i detrattori, gli sciacalli. Ci sono indagini in corso su cui non posso dire nulla. Esiste un piano della mafia per eliminarmi”. Pino Maniaci non è uomo che perda facilmente l’autocontrollo. E’ abituato a convivere con l’odore della paura, con la puzza del sudore che ti inzuppa la camicia ad ogni sussurro, ad ogni soffio di vento. Di recente, una sentenza ha assolto il giornalista di Telejato a Partinico da un’accusa assurda: l’esercizio abusivo della professione. Come se il possesso di un tesserino – che fu elargito post mortem a tanti martiri dell’informazione – fosse da solo il marchio di fabbrica di una condotta commendevole. Ora, Pino Maniaci – il cronista di provincia che ha collezionato inchieste scoop contro la mafia - parla con livesicilia. E svela: “Vogliono farmi fuori”.

Pino Maniaci, chi l’ha messa nel mirino?
“Le famiglie di Borgetto, Montelepre, Partinico, Cinisi e Terrasini. Ci sono indagini in corso. Devo essere cauto”.

Lei sta dicendo che c’è un piano per la sua eliminazione fisica?
“Sì. Indubbiamente, c’è. Hanno dato il via libera”.

E come vive?
“L’ho messo in conto da tempo. So che potrebbe succedermi qualcosa. Ho un rammarico: avere tirato la mia famiglia dentro questa storia”.

I suoi figli, per esempio. Negli occhi di Letizia brilla il fuoco dell’informazione.
“Lei è peggio di me”.

La sua è una zona calda.
“Tanti omicidi sotto le mie finestre. Come pensare di non rimanere coinvolti?”

Alla fine Pino Maniaci è stato assolto dall’accusa di esercizio abusivo.
“Ringrazio l’ordine dei giornalisti nazionale per la solidarietà. Ringrazio Enzo Iacopino e Giacomo Clemenzi”.

E l’ordine regionale, a riguardo?
“E’ irritato”.

Ha paura?
“Affronto la vita con coraggio. Finché…”.

Finché?
“Finché c’è”.


Intervista a Pino Maniaci: la lotta continua. Vogliamo i nomi!



Giancarlo Caselli a TG3 Linea Notte - Perché l'Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia

domenica 28 giugno 2009

Tela del ragno, la nuova inchiesta di Woodcock

del 27 giugno 2009


Loro si difendono e dicono di esserci rimasti male per averlo saputo dai giornalisti. Sono stati iscritti nel registro degli indagati della procura di Potenza il mese scorso. Gli investigatori - indaga il pool investigativo del pm Henry John Woodcock - sospettano che abbiano truffato la Regione Basilicata. Le accuse sono di truffa e peculato. Gli indagati sono due consiglieri regionali: Vincenzo Santochirico del Partito democratico e Rosa Mastrosimone dell'Alleanza dei democratici di centro. Negli atti dell'inchiesta, denominata Tela del ragno, ci sono le trascrizioni delle telefonate tra Rosa Mastrosimone e l'ex presidente della Provincia di Matera Carmine Nigro. Nell'edizione cartacea in edicola oggi i servizi di Fabio Amendolara e Leo Amato.

Il razzismo è un boomerang


Dal Quotidiano Articolo 21










Il razzismo, le tante modalità in cui si manifesta, rappresentano un pericolo non solo per chi direttamente ne subisce le conseguenze, ma per la democrazia di un paese, perché solo difendendo i diritti di tutti è possibile garantire i diritti di ognuno. Per questo lo definiamo un boomerang, i cui drammatici effetti sono destinati prima o poi a colpire anche chi lo ha promosso e praticato. Questa è la convinzione che sta alla base della Campagna che l’Arci ha presentato alla stampa mercoledì 24 giugno 2009 alla Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati.

Si tratta di un'ulteriore tappa dell’impegno dell’associazione contro ogni forma di discriminazione, per cercare di contrastare una deriva culturale preoccupante, un imbarbarimento delle relazioni sociali che porta sempre più a chiudersi nel proprio microcosmo e a vedere nell’altro, nel diverso, il nemico da cui difendersi.

A questo degrado ha sicuramente contribuito una legislazione repressiva e persecutoria, come il disegno di legge sulla sicurezza in discussione in questi giorni al Senato. Un provvedimento razzista, che distrugge il principio dell’universalità dei diritti, non più esigibili da ogni persona, ma solo da alcune “categorie” che rispondano a determinati requisiti. Nello stesso Paese, un pezzo di umanità è meno uguale, esclusa dalle garanzie dello stato di diritto e dai benefici di quel che resta del welfare.

Strumento comunicativo principale della campagna sarà un manifesto, che verrà affisso in tutta Italia e alla cui realizzazione hanno contribuito una coppia di pubblicitari, il fotografo Marco Delogu e i deputati Anna Paola Concia e Jean Leonard Touadì che ringraziamo.
Tutti hanno prestato gratuitamente il proprio contributo alla causa antirazzista.

Alla conferenza stampa, coordinata dal giornalista Giovanni Anversa, hanno partecipato Paolo Beni, presidente nazionale Arci, Aurelio Mancuso, presidente nazionale Arcigay, Filippo Miraglia, responsabile immigrazione Arci e gli onorevoli Concia e Touadì.

sabato 27 giugno 2009

Barzelletta intelligente...

Primo giorno di scuola, in una scuola Americana, la maestra presenta alla classe un nuovo compagno arrivato in USA da pochi giorni: Sakiro Suzuki (figlio di un alto dirigente della Sony).

Inizia la lezione e la maestra dice alla classe: "Adesso facciamo una prova di cultura. Vediamo se conoscete bene la storia americana. Chi disse: "Datemi la liberta o datemi la morte"? La classe tace, ma Suzuki alza la mano. "Davvero lo sai, Suzuki? Allora dillo tu ai tuoi compagni!"

"Fu Patrick Henry nel 1775 a Philadelphia!"

"Molto bene, bravo Suzuki!"

"E chi disse: Il governo è il popolo, il popolo non deve scomparire nel nulla ?"

Di nuovo Suzuki in piedi: "Abraham Lincoln nel 1863 a Washington!"

La maestra stupita allora si rivolge alla classe: "Ragazzi, vergognatevi, Suzuki è giapponese, è appena arrivato nel nostro paese e conosce meglio la nostra storia di voi che ci siete nati!"

Si sente una voce bassa bassa: "Vaffanculo a 'sti bastardi giapponesi!!!"

"Chi l'ha detto?" chiede indispettita la maestra.

Suzuki alza la mano e, senza attendere, risponde: "Il generale Mac Arthur nel 1942 presso il Canale di Panama e Lee Iacocca nel 1982 alla riunione del Consiglio di Amministrazione della General Motors a Detroit."

La classe ammutolisce, ma si sente una voce dal fondo dire: "Mi viene da vomitare!"

"Voglio sapere chi è stato a dire questo!!" urla la maestra.

Suzuki risponde al volo: "George Bush Senior rivolgendosi al Primo ministro Giapponese Tanaka durante il pranzo in suo onore nella residenza imperiale a Tokyo nel 1991."

Uno dei ragazzi allora si alza ed esclama scazzato: "Succhiamelo!"

"Adesso basta! Chi è stato a dire questo?" urla inviperita la maestra.

Suzuki risponde impeterrito: "Bill Clinton a Monica Lewinsky nel 1997, a Washington, nello studio ovale della Casa Bianca."

Un altro ragazzo si alza e urla: "Suzuki del cazzo!"

"Valentino Rossi rivolgendosi a Ryo al Gran Premio del Sudafrica nel Febbraio 2005."

La classe esplode in urla di isteria, la maestra sviene.

Si spalanca la porta ed entra il preside: "Cazzo, non ho mai visto un casino simile!"

"Silvio Berlusconi, luglio 2008, nella sua villa Certosa in Sardegna."

Consulta, la cena segreta

Il commento della costituzionalista Lorenza Carlassare

Berlusconi a cena con due giudici costituzionali: “Un attacco al cuore dello stato di diritto”





da l'Espresso
del 26 giugno 2009

di Peter Gomez
(Giornalista)




Le auto con le scorte erano arrivate una dopo l'altra poco prima di cena. Silenziose, con i motori al minimo, avevano imboccato una tortuosa traversa di via Cortina d'Ampezzo a Roma dove, dopo aver percorso qualche tornante, si erano infilate nella ripida discesa che portava alla piazzola di sosta di un'elegante palazzina immersa nel verde. Era stato così che in una tiepida sera di maggio i vicini di casa del giudice della Corte costituzionale Luigi Mazzella, avevano potuto assistere al preludio di una delle più sconcertanti e politicamente imbarazzanti riunioni, organizzate dal governo Berlusconi. Un incontro privato tra il premier e due alti magistrati della Consulta, ovvero l'organismo che tra poche settimane dovrà finalmente decidere se bocciare o meno il Lodo Alfano: la legge che rende Silvio Berlusconi improcessabile fino alla fine del suo mandato.

Del resto che quello fosse un appuntamento particolare, gli inquilini della palazzina lo avevano capito da qualche giorno. Ilva, la moglie di Mazzella, aveva chiesto loro con anticipo di non posteggiare autovetture davanti ai garage. "Non stupitevi se vedrete delle body-guard e se ci sarà un po' di traffico, abbiamo ospiti importanti...", aveva detto la signora Mazzella alle amiche. Così, stando a quanto 'L'espresso' è in grado ricostruire, a casa del giudice si presentano Berlusconi, il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini. Con loro arriva anche un altro collega di Mazzella, la toga Paolo Maria Napolitano, eletto alla Consulta nel 2006, dopo essere stato capo dell'ufficio del personale del Senato, capo gabinetto di Gianfranco Fini nel secondo governo Berlusconi e consigliere di Stato.

Più fonti concordano nel riferire che uno degli argomenti al centro della riunione è quello delle riforme costituzionali in materia di giustizia. Sul punto infatti Berlusconi e Mazzella la vedono allo stesso modo. Non per niente il giudice padrone di casa è stato, per scelta del Cavaliere, prima avvocato generale dello Stato e poi, nel 2003, ministro della Funzione pubblica, in sostituzione di Franco Frattini, volato a Bruxelles come commissario europeo. Infine l'elezione alla Consulta a coronamento di una carriera di successo, iniziata negli anni Ottanta, quando il giurista campano militava in un partito non certo tenero con i magistrati, come il Psi di Bettino Craxi (ma lui ricorda di aver mosso i primi passi al fianco dell'avversario di Craxi, Francesco De Martino), diventando quindi collaboratore e capo di gabinetto di vari ministri, tra cui il suo amico liberale Francesco De Lorenzo (all'epoca all'Ambiente), poi condannato e incarcerato per le mazzette incassate quando reggeva il dicastero della Sanità.

La cena dura a lungo. E a tenere banco è il presidente del Consiglio. Berlusconi sembra un fiume in piena e ripropone, tra l'altro, ai presenti una sua vecchia ossessione: quella di riuscire finalmente a riformare la giustizia abolendo di fatto i pubblici ministeri e trasformandoli in "avvocati dell'accusa".

L'idea, con Mazzella e Napolitano, sembra trovare un terreno particolarmente fertile. Il giudice padrone di casa non ha mai nascosto il suo pensiero su come dovrebbero funzionare i tribunali. Più volte Mazzella, come hanno in passato scritto i giornali, ha ipotizzato che la funzione di pm fosse svolta dall'avvocatura dello Stato. Solo che durante l'incontro carbonaro l'alto magistrato si trova a confrontarsi con uno che, in materia, è ancora più estremista di lui: il plurimputato e pluriprescritto presidente del Consiglio. E il risultato della discussione, a cui Vizzini, Alfano e Letta assistono in sostanziale silenzio, sta lì a dimostrarlo.

'L'espresso' ha infatti potuto leggere una bozza di riforma costituzionale consegnata a Palazzo Chigi un paio di giorni dopo il vertice. Una bozza che adesso circola nei palazzi del potere ed è anche arrivata negli uffici del Senato in attesa di essere trasformata in un articolato e discussa. Si tratta di quattro cartelle, preparate da uno dei due giudici, in cui viene anche rivisto il titolo quarto della carta fondamentale, quello che riguarda l'ordinamento della magistratura. Nove articoli che spazzano via una volta per tutte gli 'odiati' pubblici ministeri che dovrebbero essere sostituiti da funzionari reclutati anche tra gli avvocati e i professori universitari.

Per questo è previsto che nasca un nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm) aperto solo ai giudici, presieduto sempre dal presidente della Repubblica, ma nel quale entrerà di diritto il primo presidente della Corte di cassazione, escludendo invece il procuratore generale degli ermellini.

L'obiettivo è evidente. Impedire indagini sui potenti e sulla classe politica senza il placet, almeno indiretto, dell'esecutivo. Del resto il progetto di Berlusconi di incrementare l'influenza della politica in tutti i campi riguardanti direttamente o indirettamente la giustizia trova conferma anche in altri particolari. Per il premier va rivisto infatti pure il modo con cui vengono scelti i giudici della Corte costituzionale aumentando il peso del voto del parlamento. Anche la riforma della Consulta è un vecchio pallino di Mazzella.

Nei primissimi anni '90 il giurista, quando era capogabinetto del ministro delle Aree urbane Carmelo Conte, aveva tentato di sponsorizzare con un articolo pubblicato da 'L'Avanti' l'elezione a presidente della Corte dell'ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e aveva lanciato l'idea di modificare la Carta per affidare direttamente al capo dello Stato il compito di sceglierne in futuro il presidente.

Allora i giudici non l'avevano presa bene. Da una parte, il pur stimatissimo Vassali, era appena entrato a far parte della Consulta e se ne fosse diventato il numero uno per legge avrebbe ricoperto quell'incarico per nove anni. Dall'altra una modifica dell'articolo 138 della Costituzione avrebbe finito per far aumentare di troppo il peso del presidente della Repubblica che già nomina cinque giudici. Per questo era stato ricordato polemicamente proprio dagli alti magistrati che stabilire una continuità tra Quirinale e Consulta era pericoloso. Perché la Corte costituzionale è l'unico giudice sia dei reati commessi dal capo dello Stato (alto tradimento e attentato alla Costituzione), sia dei conflitti che possono sorgere tra i poteri dello Stato, presidenza della Repubblica compresa. Altri tempi. Un'altra Repubblica. E un'altra Corte costituzionale.

Oggi, negli anni dell'impero Berlusconi, un imputato che fonda buona parte del proprio futuro politico sulle decisioni della Corte, che dovrà pronunciarsi sul Lodo Alfano, può persino trovare due dei suoi componenti disposti a discutere segretamente a cena con lui delle fondamenta dello Stato. E lo fa sapendo che non gli può accadere nulla. Al contrario di quelli dei tribunali, le toghe della Consulta, non possono ovviamente essere ricusate. E dalla loro decisione passerà la possibilità o meno di giudicare il premier nei processi presenti e futuri. A partire dal caso Mills e dal procedimento per i fondi neri Mediaset.

Assolto Pino Maniaci


Dal Quotidiano Antimafia 2000
del 26 giugno 2009



Partinico. Il segretario Enzo Iacopino, che insieme al consigliere nazionale Giacomo Clemenzi era a Palermo accanto a Pino Maniaci, ha così commentato.


Il segretario Enzo Iacopino, che insieme al consigliere nazionale Giacomo Clemenzi era a Palermo accanto a Pino Maniaci, ha così commentato: "C’è un giudice almeno a Partinico".
"Un giudice capace di assolvere Pino Maniaci incredibilmente accusato di esercizio abusivo della professione giornalistica. Un giudice capace di respingere le inverosimili interpretazioni della legge fatte dalla Procura della Repubblica. Maniaci ha seguito il percorso imposto dalle norme per chiedere di essere iscritto all’Albo dei giornalisti, come pubblicista, ma ne veniva ugualmente chiesta la condanna tentando in aula di trovare conforto in non so che cosa mai avrebbe potuto dire il presidente dell’Ordine regionale del quale la pubblica accusa chiedeva la convocazione. Sono grato all’Ordine della Sicilia per la tempestività con la quale ha risposto alla richiesta di iscrizione di Maniaci dando un contributo significativo alla felice conclusione di questa incredibile vicenda.
Sono ancora più grato al giudice di Partinico che nella motivazione dell’assoluzione ha voluto affermare “che, negli anni, l’attività dell’emittente si è caratterizzata per le sue campagne contro ‘cosa nostra’, nonché per la sua opera di informazione in altri servizi quali l’ambiente, le speculazioni sul territorio, ecc.”
E’ questo il giornalismo che piace all’Ordine nazionale.



Luigi De Magistris: ''Soddisfatti per l'assoluzione di Pino Maniaci''



Palermo. "La sentenza di oggi con la quale é stato assolto Pino Maniaci dall'accusa di esercitare abusivamente la professione giornalistica ...

... non può che destare soddisfazione". Lo afferma l'eurodeputato dell'Italia dei Valori, Luigi de Magistris.
"Maniaci con coraggio ed intelligenza combatte la mafia - aggiunge - utilizzando la televisione come servizio per i cittadini, raccontando fatti e facendo informazione in ossequio all'art. 21 della Costituzione, contrariamente al TG1 di Minzolini che produce la scomparsa di fatti di inaudita gravità - cioé quelli relativi all'inchiesta di Bari- che riguardano il capo del Governo".

venerdì 26 giugno 2009

VA BENE ANDARE A PUTTANE. ...MA NON BISOGNA DIRLO...

VA BENE ANDARE A PUTTANE. ...MA NON BISOGNA DIRLO... from informazionedalbasso on Vimeo.

Cassazione: archivio Genchi da dissequestrare? Ieri si', oggi no

Velino del 26 giugno 2009



Il paradosso dell'archivio Genchi. Potrebbe essere un racconto fantasy se non fosse un frutto "normale" della bizantina giustizia italiana. Sono passate meno di 12 ore dal dissequestro dell'archivio dell'esperto in intercettazioni Gioacchino Genchi, deciso dalla Cassazione, che la stessa Cassazione, oggi, discute della possibilita' di annullare il dissequestro. Come in un deja vu, oggi al Palazzaccio si e' nuovamente discusso del ricorso della procura della Repubblica di Roma contro il provvedimento di dissequestro di una delle piu' consistenti banche dati frutto di intercettazioni, quella messa insieme nel corso degli anni dalla meticolosa attivita' di consulente per i pubblici ministeri svolta dal poliziotto in aspettativa Gioacchino Genchi. E mentre ieri il sostituto procuratore generale ha chiesto e ottenuto, dai giudici della quinta sezione penale, la conferma del dissequestro, oggi sempre il sostituto procuratore generale della Cassazione ha chiesto di annullare con rinvio la decisione del dissequestro. Un paradosso spazio-temporale di quelli stile "Ritorno al futuro"? No, una semplice "catena" di procedimenti. Se ieri il dissequestro e' stato confermato dai giudici della quinta sezione penale della Suprema Corte, oggi la richiesta di annullare il dissequestro dovranno valutarla i giudici della sesta sezione penale. La Suprema Corte e' la stessa. Tutto si spiega, si fa per dire, con ragioni tecnico-processuali. La procura di Roma infatti aveva sequestrato piu' volte, in un certo senso, lo stesso archivio. Aveva cioe' disposto il sequestro per reati diversi. Anzitutto per accesso abusivo a sistema informatico (in riferimento all'ingresso telematico di Genchi nell'archivio dell'Agenzia delle Entrate utilizzando la password del Comune di Mazara del Vallo per prendere notizie utili al suo lavoro di consulente dell'ex pm Luigi De Magistris). In secondo luogo i sigilli erano motivati con l'accusa di violazione della privacy. Queste due ragioni di sequestro erano state impugnate dalla difesa di Genchi al tribunale del riesame che, l'8 aprile, aveva ordinato il dissequestro perche', a suo parere, gli indizi a sostegno di quelle accuse non erano sufficienti (l'accesso non era abusivo ma concordato con la magistratura, la violazione della privacy non ha concretamente danneggiato nessuno perche' i dati non sono stati utilizzati in modo improprio).Ma gli inquirenti della Capitale, non paghi, hanno sequestrato l'archivio di Genchi anche per altre ragioni. In particolare, basandosi sulle accuse, sempre contestate al poliziotto esperto in "intercettaziologia", di abuso d'ufficio e violazione della legge Boato per aver illecitamente acquisito i tabulati telefonici di parlamentari senza avviare la procedura per consentire al pm di chiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza. Anche in questo caso la difesa di Genchi ricorre al tribunale del riesame che nuovamente annulla il sequestro: non rientrava nei compiti di Genchi chiedere l'autorizzazione per l'acquisizione dei tabulati dei parlamentari e inoltre le utenze in uso ad alcuni parlamentari avevano delle intestazioni fittizie e non erano, dunque, immediatamente riconducibili a loro. Questa decisione e' del 16 aprile, otto giorni dopo la prima. Per la serie: altro giro, altra corsa e altro ricorso. Stavolta pero' i giudici del riesame entrano anche nel merito delle contestazioni, affermando che quei due reati contestati proprio non stanno in piedi. Un'iniziativa che, a parere della procura, era fuori luogo. Il riesame deve limitarsi a dire se il sequestro e' fondato su presupposti validi e se e' stato correttamente eseguito. Senza anticipare il giudizio su ipotetici capi d'imputazione futuri. Un motivo di ricorso che, oggi, la procura generale della Cassazione condivide, a differenza di quello di ieri, e dunque ha chiesto di annullare con rinvio il dissequestro. Si attende la nuova decisione che naturalmente annulla gli effetti della prima.

Disegno Criminale

Manifesto pubblicato il 26 giugno 2009




E’ passato alla Camera il disegno di legge sulle intercettazioni dove il Governo ha posto la fiducia sul testo e quindi togliendo ai deputati la possibilità di poter discutere e magari modificare il testo, ora dovrà essere votato al Senato e salvo modifiche prima di diventare legge dovrà essere controfirmato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Ma in cosa consiste questo disegno di legge poco o nulla è dato sapere ai cittadini, dove le uniche notizie che trapelano dai vari tg sono le solite dichiarazioni litigiose dei vari esponenti politici, mentre nei talk show televisivi, tra una verità e una bugia, il risultato poi è quello di confondere ulteriormente le opinioni del cittadino.

Intanto è stata resa molto più difficoltosa la prassi per poter concedere al magistrato l’autorizzazione ad usare lo strumento delle intercettazioni a tal punto da rendere questo strumento inutile o inutilizzabile. Difatti è previsto che un magistrato dovrà chiedere l’autorizzazione ad un G.I.P. formato da tre giudici, mentre fino ad ora era un solo giudice a doversi esprimere, per ogni utenza telefonica che dovrà mettere sotto controllo, triplicando di fatto il lavoro della magistratura che già è stata messa in ginocchio e ora rischia il tracollo. Quindi il risultato non sarà una giustizia più rapida ed efficiente ma più lenta e mal funzionante.

Inoltre è stato limitato anche l’uso dei tabulati telefonici che in realtà con la privacy della persona inquisita ha davvero poco a che fare.

L’uso dell’intercettazione prima era consentito solo se il magistrato veniva a conoscenza di gravi indizi di reato oggi invece il testo della legge prevede che il magistrato potrà farne uso solo se sussistono evidenti indizi di colpevolezza. Ma se il magistrato ha trovato il colpevole che lo intercetta a fare? di solito quando trova il colpevole lo mette in galera.

L’intercettazione è prevista solo per reati superiori a pene di 5 anni e per una durata di 30 giorni prorogabili di 15 giorni più altri 15 e cioè un totale di 60 giorni massimo. Per i reati di mafia e terrorismo ci raccontano che non è prevista alcuna limitazione mentre non è così poichè al reato di mafia o anche di terrorismo si arriva nella stragande maggioranza dei casi attraverso investigazioni di reati minori che sono soggetti a tali limitazioni. E comunque anche per i reati di mafia è stato previsto un limite di tempo massimo di 40 giorni prorogabili di soli altri 20.

L’utilizzo di cimici e microspie è previsto solo nei luoghi dove si sa per certo che verrà commesso il reato… assurdo.

Inoltre non sarà più possibile pubblicare i testi delle intercettazioni per tutta la durata del processo e del processo si potrà parlare solo per riassunto lasciando anonimi i magistrati che svolgono le indagini e quindi isolarli, venendo per giunta meno il controllo da parte del popolo sull’esercizio della giustizia. E quindi non avremmo mai saputo niente soprattutto dei grandi scandali e delle straordinarie truffe dove a seguito di tale riforma il numero di tali reati rischia di aumentare esponenzialmente.

Dobbiamo poi riflettere sul perchè ai magistrati si vuol limitare così tanto l’uso di questo importantissimo strumento d’indagine. La scusa sarebbe che i magistrati un tempo ne facevano a meno e che quindi tutta questa tecnologia è superflua per le investigazioni mentre i delinquenti possono liberamente utilizzare le moderne tecnologie per compiere ogni genere di reato. Inoltre bisogna dire che le intercettazioni non solo servono a dimostrare la colpevolezza di un indagato ma anche al contrario ne possono dimostrare la sua innocenza e quindi strumento di fondamentale garanzia ai fini dell’accertamento della verità. In realtà, siccome non possono eliminarlo dal codice poiché sarebbe ingiustificabile tale atto, decidono di renderlo inutilizzabile, mettendo a serio rischio la sicurezza di tutti i cittadini giustificandosi dicendo che serve una stretta all’eccessivo uso delle intercettazioni, che costano troppo, che violano la privacy dei cittadini, e tante altre stupidaggini a seguire così da poter addolcire la pillola o oliare la supposta.

Riguardo al fatto che le intercettazioni vanno limitate perchè costano e se ne fanno troppe rispondiamo con un esempio. Nella procura di Torino su 170.000 fascicoli ci sono attività di intercettazioni solo per lo 0,2% e che nel 2008 le utenze intercettate sono state 5.000 che non significa di certo che sono state intercettate 5.000 persone poichè sappiamo benissimo che un soggetto può avere a disposizione più schede o utenze telefoniche.
La verità è una sola, si invocava fino a poco tempo fa maggiore sicurezza per gli italiani ed ora chi la invocava sacrifica tale sicurezza per fare un favore alle lobby criminali di questo paese mettendo a rischio la sicurezza di tutti i cittadini.

Gesù posto sulla Croce si rivolse a Dio dicendo “Signore perdona loro perchè non sanno quello che fanno”. Ma questi presunti rappresentanti del popolo sanno benissimo cosa stanno facendo... e adesso lo sapete anche voi.


Pensiero della settimana

"Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato." - Giovanni Falcone





Il gruppo
Ricomincia da te

giovedì 25 giugno 2009

Fenomeni paranormali



Dal blog voglioscendere

di Marco Travaglio
(Giornalista)




Strani fenomeni paranormali s’intensificano su tutto il territorio nazionale. Al Tg1 scompaiono le notizie su Puttanopoli (tranne quelle diffuse dall’autorevole “Chi”). A Bari l’auto della testimone Barbara Montereale prende fuoco, nel solco di una lunga tradizione che vede chiunque dia noia ad Al Pappone cadere vittima di strani incidenti di autocombustione (celebre l’autoesplosione della villa di Chiara Beria d’Argentine dopo un servizio dell’Espresso sulle toghe sporche).

Da La7 e da Rai2, causa cortocircuito, sparisce la satira di Crozza e Gnocchi. E sul Corriere un misterioso prestigiatore fa scomparire la vignetta di Vauro, già punito dalla Rai per Annozero e poi oscurato dalla Bignardi. Escludendo che la cosa sia opera del direttore galantuomo De Bortoli, defenestrato anni fa per leso Previti, si attende di conoscere il nome del genio che ha censurato la vignetta (“Berlusconi non ha scheletri nell’armadio”, con uno scheletro che tenta invano di entrare nell’armadio del premier, ma lo trova occupato da donnine).

E’ lo stesso genio che ora spiega la censura con un’arrampicata sui vetri a base di “questione di stile” e di “gusto”, con un finalino mortificante: “Il Corriere non è una buca delle lettere”. Infatti il Corriere ha riservato una pagina a un articolo (!) della Carfagna e, ieri, mezza pagina a un’imbarazzante intervista con Angelo Rizzoli, quello che consegnò il Corriere alla P2. Tre anni fa il Corriere s’era scagliato contro la fatwa islamica al vignettista danese che irrideva a Maometto. Ma, del resto, chi sarà mai questo Maometto di fronte ad Al Pappone?

Vauro censurato anche dal corriere della sera




La vignetta di Vauro censurata dal Corriere della Sera

LETTERA DI VAURO

“Alla fine,dovranno dargli un'aureola in un certo qual modo ambita: Quella di uomo più censurato d'Italia. Vauro...”. Questo l'incipit di un articolo apparso sulle pagine del Corriere della Sera il nove maggio scorso, a firma M.Cre. Quando lo lessi non prevedevo che, a distanza di poco tempo, lo stesso giornale, al quale collaboro da più di quindici anni, avrebbe direttamente contribuito ad illuminare ulteriormente l'aureo cerchio (da me per niente ambito) sul mio capo. Sbagliavo. Tant'è che i lettori, quelli che apprezzano e quelli che non apprezzano le mie opere (opere si fa per dire) ieri non hanno trovato la mia vignetta nello spazio consuetamente dedicato alla mia piccola rubrica. La direzione del Corriere si è sostituita al loro giudizio decidendo di non pubblicarla. Qualcuno adesso si starà chiedendo “ Chissà cosa aveva disegnato di così impresentabile ed indecente da meritare una censura”. Mi dispiace deludere quel qualcuno ma si trattava soltanto di una semplice vignetta riguardante Berlusconi; Oltretutto, ritengo fosse abbastanza al di sotto degli standard ai quali in genere mi attengo quando mi dedico al suddetto. Ma forse sono io che sottovaluto l'efficacia del mio lavoro, altrimenti non si spiegherebbe tanto zelo censorio da parte della direzione. Comunque, niente di grave, come lo stesso Corriere ricordava nel pezzo che ho citato, sono avvezzo alle censure (meno ad accettarle) e non ho nessuna intenzione di avvolgermi nel sudario del martirio (mi sta decisamente stretto). Sono cose che succedono quando si fa satira o informazione. Anche se nel nostro paese succedono un po' troppo frequentemente. Grave sarebbe se questo fosse un segnale che il più grande e prestigioso quotidiano nazionale teme le minacce del presidente del consiglio, specialmente quelle riguardanti la distribuzione delle quote pubblicitarie che vorrebbe ridotte o addirittura azzerate per i giornali non suoi amici o non suoi tout court. Ma questo è impensabile in un paese democraticamente avanzato come il nostro. O no?

Vauro


DE BORTOLI A VAURO, CORSERA NON E' BUCA LETTERE...

Il Corriere della sera non e' una buca delle lettere: cosi' il direttore Ferruccio De Bortoli risponde al vignettista che aveva denunciato il no ad una sua vignetta e scritto una lettera al quotidiano.

''Caro Vauro, puo' capitare, in quindici anni di collaborazione - replica De Bortoli a Vauro -, che il direttore possa ritenere una vignetta di dubbio gusto e decidere di non pubblicarla. E non per scelta politica, visto che la notizia cui si ispirava la tua vignetta (l'inchiesta di Bari) e' stata pubblicata per primo, e in esclusiva, dal Corriere della Sera. Ma soltanto per una questione di stile che purtroppo, nella tua simpatica veemenza, ti sfugge. In questi anni - conclude - ti sei esercitato sul soggetto Berlusconi con assoluta costanza. E il giornale che non e' come tu ritieni, una comoda buca delle lettere, ha rispettato le tue opinioni anche quando non le condivideva''.

La cassazione ritiene giusto il dissequestro dell'archivio di Genchi

Adnkronos del 25 giugno 2009



Gioacchino Genchi non ha violato la privacy di nessuno. Dunque e' stato legittimo il dissequestro del suo 'archivio'. Lo sottolinea il sostituto procuratore generale della Cassazione, Eugenio Selvaggi, nel chiedere, ai giudici della quinta sezione penale, di dichiarare inammissibile il ricorso presentato dalla Procura di Roma contro l'ordinanza con cui il Tribunale del Riesame ordino' il dissequestro del cosiddetto 'archivio Genchi'.

Il consulente informatico di diversi magistrati, tra cui Luigi De Magistris e Giovanni Falcone, era stato indagato per intromissione illecita nel sistema informatico dell'Agenzia delle Entrate e per violazione della privacy. Accuse che il Tribunale del Riesame di Roma aveva fatto cadere ordinando il dissequestro del materiale di Genchi.

Sulla stessa lunghezza d'onda si e' posta oggi la pubblica accusa della Cassazione che ha chiesto ai supremi giudici di confermare il dissequestro del materiale.

mercoledì 24 giugno 2009

Il Super Ego televisivo che deforma gli italiani

da enzodifrennablog


Un giorno, un solo giorno, a Roma

di Bruno Tinti
(ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)







Oggi (24 giugno) ero a Roma. Mia sorella è venuta a prendermi all’aeroporto e mi ha portato in centro, al vecchio palazzo di giustizia in piazza Cavour.

Via Cristoforo Colombo, le Terme di Caracalla, Lungotevere.

C’era un traffico micidiale, tutti in fila, abbastanza ordinati, non sembrava nemmeno di essere a Roma.

A un certo punto, poco dopo l’incrocio con via Arenula, improvvisamente una sirena.
Tutti si spostano, affannosamente, chi qua, chi là; e una Audi 8 grigia con il fungo blu passa e sgomma via.

Mia sorella e io restiamo un po’ perplessi e io dico “ma chi è quello; e dove diavolo va?”
Il finestrino era abbassato e il signore nella macchina vicino alla mia, uno molto distinto, di circa 40 anni, mi guarda e dice: “E’ uno che sta a portà na’ mignotta a Berlusconi”.

Poi, tutti arrabbiati, e anche un po’ umiliati per non aver saputo reagire a questa prepotenza (ma davvero, chi …. era quello? E dove andava, così di fretta? E perché riteneva giusto che tutti i cittadini si spostassero davanti a lui per farlo passare?), ce ne siamo andati.

Dopo un po’ ho passato il ponte Vittorio Emanuele II, attraversato via della Conciliazione e proseguito in direzione di via Crescenzio, transitando per via di Porta Castello. Era tutta ingombra di grandi auto blù, tutte con il loro bravo fungo. In alcune c’era un autista che leggeva il giornale (niente di che, quella roba che viene distribuita gratis), altri autisti girolavano tra una macchina e l’altra chiacchierando. Tutti uguali, aria stolida, spalle larghe, vestiti blu striminziti, atteggiamento arrogante. Le macchine erano parcheggiate anche in terza fila, il traffico era impazzito, si passava con grande difficoltà. E questi a leggere il giornale o, come ho detto, a chiacchierare.

La gente era furiosa. “Ma chi so’ sti’ stronzi?” “Ma guarda te si debbono parcheggià così; robba che si lo facevo io …” “Vanno a prenne er cappuccio cor maritozzo co’ la machina blù; e l’autista aspetta; e io pago …” Poi, finalmente, siamo sgusciati via e io ho raggiunto il palazzo di giustizia.

Adesso, che ho finito quello che dovevo fare e posso riflettere con calma, penso: ma è possibile che la nostra classe dirigente non avverta il disprezzo da cui è circondata? Ma è possibile che non ci sia uno, uno solo, tra politici, grand commis d’Etat, amici e fiancheggiatori di questa gente che non si renda conto di essere alla frutta? Ma come possono coltivare ancora impunemente questa squallida, provinciale, infantile arroganza?

Penso: ma che Paese è questo dove il senatore Colombo mandava gli agenti della sua scorta a comprargli la cocaina mentre lui aspettava sulla sua macchina blu; e che Paese deve essere la Svezia dove il Ministro degli interni (mi pare), una signora, è stata uccisa da un pazzo mentre usciva dal supermercato dove era andata a far la spesa in bicicletta? In bicicletta, capito?

Penso: ma tutte quelle macchine (Mercedes, Audi, BMW, magari blindate – forse 400.000, 500.000 euro ognuna) e quegli autisti quanto costano? E perché dobbiamo permettere a questa gente di averle? Quante case si potrebbero costruire in Abruzzo (o quante altre cose si potrebbero fare) con quei soldi?

Penso: ma se io, in un giorno, anzi in due ore, ho visto queste cose; ma cosa succederà tutti i giorni, e a ben altri livelli?

Penso: ma davvero siamo ridotti così? Ma che differenza c’è tra l’Italia e una qualsiasi dittatura africana? Forse solo il fatto che non è una dittatura sanguinaria? Che si ruba, si spreca, si mente, si fa propaganda falsa e bugiarda, si è indifferenti agli interessi del Paese; ma non si uccide?

Penso: ma cosa possiamo fare per liberarci di questa gente?

E qui mi fermo; perché non lo so cosa possiamo fare.

Io mi sono sentito obbligato, dopo lo spettacolino che vi ho descritto, a cercare un posteggio regolare, nelle strisce blu, a mettere il tagliandino con l’ora (calcolata per eccesso) di presumibile durata della sosta, ad attraversare sulle strisce pedonali e a fare la fila nell’ufficio dove dovevo sbrigare le mie cose; però ho visto molta gente, quasi tutti, che hanno lasciato la macchina in seconda o anche in terza fila e che mi sono passati avanti nella coda con qualche abile manovra.

E così alla fine penso: questa classe dirigente che fa finta di governarci ci ha conquistato o è il più limpido frutto della democrazia? Insomma, non è che abbiamo la classe dirigente che ci meritiamo?
Dal quotidiano La Repubblica

Questa lettera, scritta da don Paolo Farinella, prete e biblista della diocesi di Genova al suo vescovo e cardinale Angelo Bagnasco, è stata inviata qualche settimana fa e circola da giorni su internet. Riguarda la vicenda Berlusconi, vista con gli occhi di un sacerdote. Alla luce degli ultimi fatti e della presa di posizione di Famiglia Cristiana che ha chiesto alla Chiesa di parlare, i suoi contenuti diventano attualissimi.



Egregio sig. Cardinale,
viviamo nella stessa città e apparteniamo alla stessa Chiesa: lei vescovo, io prete. Lei è anche capo dei vescovi italiani, dividendosi al 50% tra Genova e Roma. A Genova si dice che lei è poco presente alla vita della diocesi e probabilmente a Roma diranno lo stesso in senso inverso. E' il destino dei commessi viaggiatori e dei cardinali a percentuale. Con questo documento pubblico, mi rivolgo al 50% del cardinale che fa il Presidente della Cei, ma anche al 50% del cardinale che fa il vescovo di Genova perché le scelte del primo interessano per caduta diretta il popolo della sua città.

Ho letto la sua prolusione alla 59a assemblea generale della Cei (24-29 maggio 2009) e anche la sua conferenza stampa del 29 maggio 2009. Mi ha colpito la delicatezza, quasi il fastidio con cui ha trattato - o meglio non ha trattato - la questione morale (o immorale?) che investe il nostro Paese a causa dei comportamenti del presidente del consiglio, ormai dimostrati in modo inequivocabile: frequentazione abituale di minorenni, spergiuro sui figli, uso della falsità come strumento di governo, pianificazione della bugia sui mass media sotto controllo, calunnia come lotta politica.

Lei e il segretario della Cei avete stemperato le parole fino a diluirle in brodino bevibile anche dalle novizie di un convento. Eppure le accuse sono gravi e le fonti certe: la moglie accusa pubblicamente il marito presidente del consiglio di "frequentare minorenni", dichiara che deve essere trattato "come un malato", lo descrive come il "drago al quale vanno offerte vergini in sacrificio". Le interviste pubblicate da un solo (sic!) quotidiano italiano nel deserto dell'omertà di tutti gli altri e da quasi tutta la stampa estera, hanno confermato, oltre ogni dubbio, che il presidente del consiglio ha mentito spudoratamente alla Nazione e continua a mentire sui suoi processi giudiziari, sull'inazione del suo governo. Una sentenza di tribunale di 1° grado ha certificato che egli è corruttore di testimoni chiamati in giudizio e usa la bugia come strumento ordinario di vita e di governo. Eppure si fa vanto della morale cattolica: Dio, Patria, Famiglia. In una tv compiacente ha trasformato in suo privato in un affaire pubblico per utilizzarlo a scopi elettorali, senza alcun ritegno etico e istituzionale.

Lei, sig. Cardinale, presenta il magistero dei vescovi (e del papa) come garante della Morale, centrata sulla persona e sui valori della famiglia, eppure né lei né i vescovi avete detto una parola inequivocabile su un uomo, capo del governo, che ha portato il nostro popolo al livello più basso del degrado morale, valorizzando gli istinti di seduzione, di forza/furbizia e di egoismo individuale. I vescovi assistono allo sfacelo morale del Paese ciechi e muti, afoni, sepolti in una cortina di incenso che impedisce loro di vedere la "verità" che è la nuda "realtà". Il vostro atteggiamento è recidivo perché avete usato lo stesso innocuo linguaggio con i respingimenti degli immigrati in violazione di tutti i dettami del diritto e dell'Etica e della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, con cui il governo è solito fare i gargarismi a vostro compiacimento e per vostra presa in giro. Avete fatto il diavolo a quattro contro le convivenze (Dico) e le tutele annesse, avete fatto fallire un referendum in nome dei supremi "principi non negoziabili" e ora non avete altro da dire se non che le vostre paroline sono "per tutti", cioè per nessuno.

Il popolo credente e diversamente credente si divide in due categorie: i disorientati e i rassegnati. I primi non capiscono perché non avete lesinato bacchettate all'integerrimo e cattolico praticante, Prof. Romano Prodi, mentre assolvete ogni immoralità di Berlusconi.
Non date forse un'assoluzione previa, quando vi sforzate di precisare che in campo etico voi "parlate per tutti"? Questa espressione vuota vi permette di non nominare individualmente alcuno e di salvare la capra della morale generica (cioè l'immoralità) e i cavoli degli interessi cospicui in cui siete coinvolti: nella stessa intervista lei ha avanzato la richiesta di maggiori finanziamenti per le scuole private, ponendo da sé in relazione i due fatti. E' forse un avvertimento che se non arrivano i finanziamenti, voi siete già pronti a scaricare il governo e l'attuale maggioranza che sta in piedi in forza del voto dei cattolici atei? Molti cominciano a lasciare la Chiesa e a devolvere l'8xmille ad altre confessioni religiose: lei sicuramente sa che le offerte alla Chiesa cattolica continuano a diminuire; deve, però, sapere che è una conseguenza diretta dell'inesistente magistero della Cei che ha mutato la profezia in diplomazia e la verità in servilismo.

I cattolici rassegnati stanno ancora peggio perché concludono che se i vescovi non condannano Berlusconi e il berlusconismo, significa che non è grave e passano sopra a stili di vita sessuale con harem incorporato, metodo di governo fondato sulla falsità, sulla bugia e sull'odio dell'avversario pur di vincere a tutti i costi. I cattolici lo votano e le donne cattoliche stravedono per un modello di corruttela, le cui tv e giornali senza scrupoli deformano moralmente il nostro popolo con "modelli televisivi" ignobili, rissosi e immorali.

Agli occhi della nostra gente voi, vescovi taciturni, siete corresponsabili e complici, sia che tacciate sia che, ancora più grave, tentiate di sminuire la portata delle responsabilità personali. Il popolo ha codificato questo reato con il detto: è tanto ladro chi ruba quanto chi para il sacco. Perché parate il sacco a Berlusconi e alla sua sconcia maggioranza? Perché non alzate la voce per dire che il nostro popolo è un popolo drogato dalla tv, al 50% di proprietà personale e per l'altro 50% sotto l'influenza diretta del presidente del consiglio? Perché non dite una parola sul conflitto d'interessi che sta schiacciando la legalità e i fondamentali etici del nostro Paese? Perché continuate a fornicare con un uomo immorale che predica i valori cattolici della famiglia e poi divorzia, si risposa, divorzia ancora e si circonda di minorenni per sollazzare la sua senile svirilità? Perché non dite che con uomini simili non avete nulla da spartire come credenti, come pastori e come garanti della morale cattolica? Perché non lo avete sconfessato quando ha respinto gli immigrati, consegnandoli a morte certa?

Non è lo stesso uomo che ha fatto un decreto per salvare ad ogni costo la vita vegetale di Eluana Englaro? Non siete voi gli stessi che difendete la vita "dal suo sorgere fino al suo concludersi naturale"? La vita dei neri vale meno di quella di una bianca? Fino a questo punto siete stati contaminati dall'eresia della Lega e del berlusconismo? Perché non dite che i cattolici che lo sostengono in qualsiasi modo, sono corresponsabili e complici dei suoi delitti che anche l'etica naturale condanna? Come sono lontani i tempi di Sant'Ambrogio che nel 390 impedì a Teodosio di entrare nel duomo di Milano perché "anche l'imperatore é nella Chiesa, non al disopra della Chiesa". Voi onorate un vitello d'oro.

Io e, mi creda, molti altri credenti pensiamo che lei e i vescovi avete perduto la vostra autorità e avete rinnegato il vostro magistero perché agite per interesse e non per verità. Per opportunismo, non per vangelo. Un governo dissipatore e una maggioranza, schiavi di un padrone che dispone di ingenti capitali provenienti da "mammona iniquitatis", si è reso disposto a saldarvi qualsiasi richiesta economica in base al principio che ogni uomo e istituzione hanno il loro prezzo. La promessa prevede il vostro silenzio che - è il caso di dirlo - è un silenzio d'oro? Quando il vostro silenzio non regge l'evidenza dell'ignominia dei fatti, voi, da esperti, pesate le parole e parlate a suocera perché nuora intenda, ma senza disturbarla troppo: "troncare, sopire ... sopire, troncare".

Sig. Cardinale, ricorda il conte zio dei Promessi Sposi? "Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo ... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire" (A. Manzoni, Promessi Sposi, cap. IX). Dobbiamo pensare che le accuse di pedofilia al presidente del consiglio e le bugie provate al Paese siano una "bagatella" per il cui perdono bastano "cinque Pater, Ave e Gloria"? La situazione è stata descritta in modo feroce e offensivo per voi dall'ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che voi non avete smentito: "Alla Chiesa molto importa dei comportamenti privati. Ma tra un devoto monogamo [leggi: Prodi] che contesta certe sue direttive e uno sciupa femmine che invece dà una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupa femmine. Ecclesia casta et meretrix" (La Stampa, 8-5-2009).

Mi permetta di richiamare alla sua memoria, un passo di un Padre della Chiesa, l'integerrimo sant'Ilario di Poitier, che già nel sec. IV metteva in guardia dalle lusinghe e dai regali dell'imperatore Costanzo, il Berlusconi cesarista di turno: "Noi non abbiamo più un imperatore anticristiano che ci perseguita, ma dobbiamo lottare contro un persecutore ancora più insidioso, un nemico che lusinga; non ci flagella la schiena ma ci accarezza il ventre; non ci confisca i beni (dandoci così la vita), ma ci arricchisce per darci la morte; non ci spinge verso la libertà mettendoci in carcere, ma verso la schiavitù invitandoci e onorandoci nel palazzo; non ci colpisce il corpo, ma prende possesso del cuore; non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro" (Ilario di Poitiers, Contro l'imperatore Costanzo 5).

Egregio sig. Cardinale, in nome di quel Dio che lei dice di rappresentare, ci dia un saggio di profezia, un sussurro di vangelo, un lampo estivo di coerenza di fede e di credibilità. Se non può farlo il 50% di pertinenza del presidente della Cei "per interessi superiori", lo faccia almeno il 50% di competenza del vescovo di una città dove tanta, tantissima gente si sta allontanando dalla vita della Chiesa a motivo della morale elastica dei vescovi italiani, basata sul principio di opportunismo che è la negazione della verità e del tessuto connettivo della convivenza civile.

Lei ha parlato di "emergenza educativa" che è anche il tema proposto per il prossimo decennio e si è lamentato dei "modelli negativi della tv". Suppongo che lei sappia che le tv non nascono sotto l'arco di Tito, ma hanno un proprietario che è capo del governo e nella duplice veste condiziona programmi, pubblicità, economia, modelli e stili di vita, etica e comportamenti dei giovani ai quali non sa offrire altro che la prospettiva del "velinismo" o in subordine di parlamentare alle dirette dipendenze del capo che elargisce posti al parlamento come premi di fedeltà a chi si dimostra più servizievole, specialmente se donne. Dicono le cronache che il sultano abbia gongolato di fronte alla sua reazione perché temeva peggio e, se lo dice lui che è un esperto, possiamo credergli. Ora con la benedizione del vostro solletico, può continuare nella sua lasciva intraprendenza e nella tratta delle minorenni da immolare sull'altare del tempio del suo narcisismo paranoico, a beneficio del paese di Berlusconistan, come la stampa inglese ha definito l'Italia.

Egregio sig. Cardinale, possiamo sperare ancora che i vescovi esercitino il servizio della loro autorità con autorevolezza, senza alchimie a copertura dei ricchi potenti e a danno della limpidezza delle verità come insegna Giovanni Battista che all'Erode di turno grida senza paura per la sua stessa vita: "Non licet"? Al Precursore la sua parola di condanna costò la vita, mentre a voi il vostro "tacere" porta fortuna.

In attesa di un suo riscontro porgo distinti saluti.

La verità che non può dire

Dal Quotidiano La Repubblica
del 24 giugno 2009

di Giuseppe D'Avanzo
(Giornalista)




Berlusconi esige da noi, per principio e diritto divino, come se davvero fosse "unto dal Signore", la passiva accettazione dei suoi discorsi. Pretende che non ci siano repliche o rilievi alle sue parole. Reclama per sé il monopolio di un'apparenza che si cucina in casa con i cuochi di famiglia. Senza contraddittorio, senza una domanda, senza un'increspatura, senza la solidità dei fatti da lui addirittura non contraddetti, senza un estraneo nei dintorni. Vuole solo famigli e salariati. Con loro, il Cavaliere frantuma la realtà degradata che vive. La rimonta come gli piace a mano libera e ce la consegna pulita e illuminata bene. A noi tocca soltanto diventare spettatori - plaudenti - della sua performance. Berlusconi ci deve immaginare così rincitrulliti da illuderci di poter capire qualcosa di quel che accade (è accaduto) non servendoci di ciò che sappiamo, ma credendo a ciò che egli ci rivela dopo aver confuso e oscurato quel che già conosciamo. Quindi, via ogni fatto accertato o da lui confessato; via le testimonianze scomode; via documenti visivi; via i giornalisti impiccioni e ostinati che possono ricordarglieli; via anche l'anchorman gregario e quindi preferito; via addirittura la televisione canaglia che da una smorfia può rivelare uno stato d'animo e una debolezza. Berlusconi, che pare aver smarrito il suo grandioso senso di sé, si rimpannuccia sul divano di casa affidandosi alle calde cure del direttore di Chi. Insensibile alle contraddizioni, non si accorge dell'impudico paradosso: censurare i presunti pettegolezzi dalle colonne di un settimanale della sua Mondadori, specializzato in gossip. Dimentico di quanto poca fortuna gli abbia portato il titolo di Porta a Porta (5 maggio) "Adesso parlo io" (di Veronica e di Noemi), ci riprova. "Adesso parlo io" strilla la copertina di Chi. Il palinsesto è unico.
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In un'atmosfera da caminetto, il premier ricompone la solita scena patinata da fotoromanzo a cui non crede più nessuno, neppure nel suo campo. La tavolozza del colore è sempre quella: una famiglia unita nel ricordo sempre vivo di mamma Rosa e nell'affetto dei figli; l'amore per Veronica ferito - certo - ma impossibile da cancellare; la foto con il nipotino; una vita irreprensibile che non impone discolpa; l'ingenuità di un uomo generoso e accogliente che non si è accorto della presenza accanto a lui, una notte, di una "squillo" di cui naturalmente non ha bisogno e non ha pagato perché da macho latino conserva ancora il "piacere della conquista". Acconciata così la sua esistenza che il più benevolo oggi definisce al contrario "licenziosa", chi la racconta in altro modo non può essere che un "nemico". Da un'inimicizia brutale sono animati i giornali che, insultati ma non smentiti, raccontano quel che accade nelle residenze del presidente. Antagonisti malevoli, prevenuti o interessati sono quegli editori che non azzittiscono d'imperio le loro redazioni. C'è qualcosa di luciferino (o di vagamente folle) nella pretesa che l'opinione pubblica - pur manipolata da un'informazione servile - s'ingozzi con questo intruglio. Dimentico di governare un Paese occidentale, una società aperta, una democrazia (ancora) liberale, il capo del governo pare convinto che, ripetendo con l'insistenza di un disco rotto, la litania della sua esemplare "storia italiana" possa rianimare l'ormai esausta passione nazionale per l'infallibilità della sua persona. È persuaso che, mentendo, gli riesca di sollecitare ancora un odio radicale (nell'odio ritrova le energie smarrite e il consenso dei "fanatizzati") contro chi intravede e racconta e si interroga - nell'interesse pubblico - sui lati bui della sua vita che ne pregiudicano la reputazione di uomo di governo e, ampiamente, la sua affidabilità internazionale. Berlusconi sembra non voler comprendere quanto grave - per sé e per il Paese - sia la situazione in cui si è cacciato e ha cacciato la rispettabilità dell'Italia. Ha voluto convertire, con un tocco magico e prepotente, le "preferite" del suo harem in titolari della sovranità popolare trasformando il suo privato in pubblico. Non ha saputo ancora spiegare, dopo averlo fatto con parole bugiarde, la frequentazione di minorenni che ora passeggiano, minacciose, dinanzi al portone di Palazzo Chigi. Ha intrattenuto rapporti allegri con un uomo che, per business, ha trasformato le tangenti alla politica in meretricio per i politici. Il capo del governo deve ora fronteggiare i materiali fonici raccolti nella sua stanza da letto da una prostituta e le foto scattate da "ragazze-immagine", qualsiasi cosa significhi, nel suo bagno privato mentre ogni giorno propone il nome nuovo di una "squillo" che ha partecipato alle feste a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli (che pressione danno a Berlusconi, oggi?). La quieta scena familiare proposta da Chi difficilmente riuscirà a ridurre la consistenza di quel che, all'inizio di questa storia tragica, si è intravisto e nel prosieguo si è irrobustito: la febbre di Berlusconi, un'inclinazione psicopatologica, una sexual addiction sfogata in "spettacolini" affollati di prostitute, minorenni, "farfalline", "tartarughine", "bamboline" coccolate da "Papi" tra materassi extralarge nei palazzi del governo ornati dal tricolore. Una condizione (uno scandalo) che impone di chiedere, con la moglie, quale sia oggi lo stato di salute del presidente del Consiglio; quale sia la sua vulnerabilità politica; quanta sia l'insicurezza degli affari di Stato; quale sia la sua ricattabilità personale. Come possono responsabilmente, questi "buchi", essere liquidati come affari privati? La riduzione a privacy di questo deficit di autorità e autorevolezza non consentirà a Berlusconi di tirarsi su dal burrone in cui è caduto da solo. Ipotizzare un "mandato retribuito" per la "escort" che ricorda gli incontri con il presidente a Palazzo Grazioli è una favola grottesca prima di essere malinconica (la D'Addario è stata prima intercettata e poi convocata come persona informata dei fatti). Evocare un "complotto" di questo giornale è soltanto un atto di intimidazione inaccettabile. Ripetendo sempre gli stessi passi come un automa, lo stesso ritornello come un cantante che conosce una sola canzone, Berlusconi appare incapace di dire quelle parole di verità che lo toglierebbero d'impaccio. Non può dirle, come è sempre più chiaro. La sua vita, e chi ne è stato testimone, non gli consente di dirle. È questo il macigno che oggi il capo del governo si porta sulle spalle. Non riuscirà a liberarsene mentendo. Non sempre la menzogna è più plausibile della realtà. Soprattutto quando un Paese desidera e si aspetta di sentire la verità su chi (e da chi) lo governa.

martedì 23 giugno 2009

“Il politico non ha un privato” lo diceva Minzolini

Riportiamo questo articolo ritrovato in rete nel quale vengono riportate alcune pillole di saggezza del nostro carissimo neo direttore del TG1 Augusto Minzolini che in così breve tempo si è già saputo far valere come autentico censuratore delle notizie riguardanti fatti che mettono in cattiva luce il Presidente del Consiglio.
Anzichè dare notizie le sotterra.
Dal Quotidiano La Repubblica
del 29 ottobre 1994


Roma - Chi non conosce Augusto Minzolini? 35 anni, inviato di punta della Stampa, "sul campo" dalle dieci di mattina alle dieci di sera, annusa l' aria come un furetto sul suo motorino all' inseguimento delle macchine blu e spunta dove uno meno se lo aspetta. Sembra il ritratto di un cronista da Prima pagina o, in chiave meno scherzosa, da Tutti gli uomini del Presidente e in effetti un po' lo è ma è anche un ritratto che corrisponde al personaggio. Il quale, naturalmente, non è affatto d' accordo con le tesi esposte da Antonio Polito. "Portata alle sue estreme conseguenze condannerebbe i giornalisti italiani a riferire solo le notizie ufficiali, diramate dai politici nel pieno delle loro funzioni. Ma Polito forse non sa, perché non fa il cronista politico, che quasi mai i politici forniscono informazioni che rispondono a fatti reali e quasi sempre invece parlano perché hanno altri scopi, soprattutto quello di far apparire il loro nome sui giornali". Poi rifà un po' la storia del rapporto giornalista-uomo politico nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica: "Faccio questo lavoro da quattordici anni. Con i politici tradizionali mi scontravo con la difficoltà di renderli concreti agli occhi del lettore, era anche un problema di linguaggio: voglio dire che bisognava decodificare il linguaggio astratto e rituale in uso nella prima Repubblica. Nella seconda Repubblica il problema non è farsi dire delle battute, ma all' opposto riuscire a strappare dei propositi seri. In entrambi i casi il mio modo di concepire questo lavoro non è cambiato e penso che sia l' unico modo per arrivare veramente alla verità: nella stessa pagina in cui riportavo le dichiarazioni di Del Noce sulle nomine Rai il Presidente del Consiglio dichiarava: ' non mi sono mai occupato di nomine Rai' . Forse Polito pensa che veramente Palazzo Chigi non se ne sia occupato?" E dunque lei non si sente strumentalizzato, usato per far arrivare messaggi in codice a costo di far seguire all' articolo una smentita? "Non capisco l' accusa. Non credo che quella della smentita sia una tecnica vincente per un politico, non crea una buona immagine nell' opinione pubblica ma anzi viene vista come una patologia e io penso che l' opinione pubblica sia perfettamente in grado di giudicare come stanno le cose. Potrei prestarmi a strumentalizzazioni se riferissi le confidenze senza indicare la mia fonte, ma io faccio sempre i nomi: a causa delle loro confidenze Del Noce ha perso l' incarico di responsabile dell' informazione di Forza Italia e Violante quello di presidente dell' antimafia". Questa ondata di smentite che arriva alla stampa italiana non si ritorce contro la credibilità dei giornali? "Le smentite a ripetizione rivelano solo che abbiamo una classe politica nuova che non ha ancora assimilato il fatto che un politico è un uomo pubblico in ogni momento della sua giornata e che deve comportarsi e parlare come tale. Il rinnovamento del Parlamento italiano è un fenomeno anche sociologico di cui la stampa deve dare conto: io non dimentico mai che il mio referente è il lettore e non il politico e che il mio compito è quello di rappresentarlo come è senza mediazioni". Rappresentarlo anche nei suoi aspetti privati? E' giusto frugare nella vita intima di chi ci governa, è utile? "Quattro anni fa, e cioè in tempi non sospetti, scrissi che la nomina di Giampaolo Sodano alla Rai nasceva dai salotti di Gbr, la televisione di Anja Pieroni. Oggi penso che se noi avessimo raccontato di più la vita privata dei leader politici forse non saremmo arrivati a tangentopoli, forse li avremmo costretti a cambiare oppure ad andarsene. Non è stato un buon servizio per il paese il nostro fair play: abbiamo semplicemente peccato di ipocrisia. Di Anja Pieroni sapevamo tutto da sempre e non era solo un personaggio della vita intima di Craxi. La distinzione fra pubblico e privato è manichea: ripeto, un politico deve sapere che ogni aspetto della sua vita è pubblico. Se non accetta questa regola rinunci a fare il politico". - D P