sabato 30 gennaio 2010

DON AGOSTINO CHE SPOSÒ IL CAPO DI COSA NOSTRA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Isaia Sales
(Scrittore)


Don Agostino Coppola è il prete che il 16 aprile 1974 nei giardini di Cinisi sposa Totò Riina (allora latitante) con Ninetta Bagarella. Insieme con lui altri due preti, don Mario e don Rosario. È parroco di Carini e viene ammesso nelle fila (combinato) di Cosa Nostra a Ramacca nel 1969. Ne parla il collaboratore di giustizia Antonino Calderone: “Mentre eravamo a cena arrivò un prete. Ci fu presentato come un uomo d’onore della famiglia di Partinico. Agostino Coppola si chiamava. Quello che riscosse i soldi del sequestro Cassina. Con mio fratello abbiamo scherzato durante il viaggio di ritorno su questo prete che faceva parte della mafia. ‘Gesù Gesù, anche un parrino in Cosa Nostra’”.

Don Agostino è legatissimo a Luciano Liggio ed è nipote di un capo di Cosa Nostra americana, Frank Coppola detto Tre dita. Amministra i beni della diocesi di Monreale (la più chiacchierata della Sicilia) e fa da mediatore nei sequestri di persona fatti dai Corleonesi (quello di Luciano Cassina, di Luigi Rossi di Montelera e dell’industriale Emilio Baroni). Nel 1974 viene arrestato, e nella sua abitazione gli inquirenti trovano cinque milioni provenienti dal riscatto di un sequestro di persona. Nel 1976 don Agostino viene processato, insieme con Luciano Liggio, per il sequestro di Luigi Rossi di Montelera e condannato a quattordici anni di galera.

Nel marzo del 1977 riceve una seconda condanna, questa volta per estorsione (derubricata poi in appello in lesioni personali aggravate) ai danni di un allevatore. Nel luglio dello stesso anno compare come imputato nel processo per il sequestro di Luciano Cassina, figlio di un noto appaltatore di lavori pubblici di Palermo, ma viene assolto per insufficienza di prove, grazie anche all’intervento del vescovo di Monreale. Monsignor Corrado Mingo invia, infatti, una lettera alla Corte pochi giorni prima del processo in cui dichiara di aver richiesto lui stesso l’intervento del prete in qualità di mediatore. Dunque, il vescovo sapeva dei legami di don Agostino Coppola con ambienti criminali. Il colonnello Russo, ucciso poi a Ficuzza nel 1977, era convinto che don Agostino avesse nascosto Luciano Liggio latitante a Piano Zucco, zona in gran parte controllata dal prete di Carini e dai suoi fratelli Giacomo e Domenico. Quando Liggio si trasferisce in Calabria per un contrasto con gli altri capi della mafia contrari ai sequestri di persona che il corleonese e la sua banda praticavano in Sicilia, don Agostino Coppola lo raggiunge immediatamente.

Per mimetizzare i veri motivi della sua missione, il prete si fa accompagnare da una ragazza che interrogata disse di essersi innamorata del sacerdote ma di non essere riuscita a conquistare il suo amore. Tra il 1971 e il 1973, periodo di permanenza di Liggio latitante nel palermitano, padre Agostino Coppola acquistò beni per 49 miliardi di lire. Un po’ troppi per chi ha fatto voto di povertà. All’inizio degli anni Ottanta viene sospeso finalmente dal Vaticano e si sposa con una donna della famiglia Caruana di Siculiana, famosa famiglia di trafficanti di droga tra la Sicilia, il Canada e il Venezuela. Morì mentre era agli arresti domiciliari. Sempre a proposito della famiglia Coppola, va ricordato che lo zio, Frank Tre dita, quando fu rispedito in Italia dall’America perché indesiderato , fu ricevuto alla stazione con la banda dal parroco di Partinico don Leonardo La Rocca.

FRA’ GIACINTO

Frate Giacinto, al secolo Stefano Castronovo, nato nel 1919 a Fa-vara, provincia di Agrigento, fu ucciso il 6 settembre 1980 con cinque colpi al capo da due persone nella sua cella al primo piano del monastero di Santa Maria del Gesù a Palermo. Già nel 1964 la polizia si era interessata a lui. Il commissariato di Corleone aveva perquisito il convento e la cella in cui viveva Fra’ Giacinto alla ricerca del latitante Luciano Liggio. Una “soffiata” aveva indicato in Fra’ Giacinto il suo protettore. A Santa Maria del Gesù si era sistemato splendidamente: viveva in un appartamento di sette stanze. Nella perquisizione, dopo il suo assassinio, fu trovata una rivoltella calibro 38 in un cassetto della scrivania e quattro milioni di lire in contanti, inoltre profumi e liquori e abiti civili di ottima fattura. Don Giacinto era amico dei mafiosi. Oltre a Luciano Liggio, annoverava tra le sue frequentazioni anche la famiglia Bontate, di cui era diventato il confessore. Le indagini sull’uccisione le svolse il vicequestore Antonino Cassarà, assassinato qualche anno dopo. Cassarà restò fortemente impressionato dall’omertà dei suoi confratelli. Le poche cose che venne a sapere riguardavano la sua non partecipazione alla vita religiosa del convento; riceveva solo gente che gli chiedeva favori e faceva raccomandazioni, i doni che gli portavano non li condivideva con gli altri frati. Nessuno dei suoi superiori aveva avuto da ridire su questi suoi comportamenti fuori dalle regole e dalle tradizioni dell’ordine francescano. Nessuno dei suoi confratelli aveva segnalato l’anomalia del suo modo di vivere. Nel 1961 Fra’ Giacinto aveva acquistato una pistola, una Walther 7,65. Il frate era chiacchierato da lungo tempo, e nessuno a Palermo si meravigliò della sua fine. Pare che praticasse perfino il prestito di denaro a usura, ma “furono le sue amicizie strettamente mafiose a farne decidere l’omicidio”. Quando l’anno dopo la sua uccisione fu sterminato l’intero clan dei Bontate, si capì meglio la ragione della sua eliminazione: si era trattato di un messaggio mandato alla famiglia di cui era il padre spirituale.

Voci insistenti dicevano che nel cimitero del convento fossero sepolti alcuni “scomparsi” di quegli ultimi anni e che, nelle tombe vuote, si fossero nascosti alcuni mafiosi latitanti. Anche Gianni Baget Bozzo in un articolo ventilava l’ipotesi che Fra’ Giacinto non rappresentasse un’eccezione all’interno dell’ordine e della Chiesa siciliana.

Nella omelia al suo funerale il provinciale dell’ordine francescano, padre Timoteo, richiamò la massima evangelica “Chi è senza peccati scagli la prima pietra”. Dire una frase del genere davanti a un assassinato, “vuol dire ammetterne le colpe o assolverle”.

Inaugurazione dell’Anno Giudiziario con tabù

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Antonella Mascali e Lucio Musolino
(Giornalisti)


La Cassazione, dove si è inaugurato l'anno giudiziario generale, ieri sembrava una stanza sterilizzata dove non erano al bando i germi, ma alcune parole che erano nella testa di tutti e nei riferimenti di alcuni: processo breve e legittimo impedimento. Gli ultimi ddl ad personam che hanno portato alla protesta che ci sarà questa mattina alla cerimonia nei vari distretti. C'è stata però un'eccezione, le bacchettate ai magistrati sono state chiare e sono arrivate da più parti. Il procuratore generale della Suprema Corte, Vitaliano Esposito, ha detto che non sono più “tollerabili i contrasti tra foro e magistratura e tra magistratura e classe politica”. Il Pg ha fatto un'apertura apparente al processo breve, sia pure senza nominarlo: devono essere “accolte con favore tutte le iniziative volte a contenere la durata del processo entro termini ragionevoli”, ma – ha sottolineato Esposito - “ogni intervento in tale direzione, se non vuole produrre guasti maggiori, dei benefici auspicati, deve essere preceduto da una radicale riforma strutturale dei sistemi sostanziali e processuali, oltre che da un adeguato potenziamento delle risorse umane e materiali”. Esposito ha inoltre difeso le intercettazioni che il governo vorrebbe neutralizzare: sono “ invasive” ma “ utili per contrastare diverse forme di criminalità”. Un altro monito ai magistrati è arrivato dal primo presidente della Cassazione, Vincenzo Carbone, per il quale il governo potrebbe far approvare una legge per innalzare l'età pensionabile dai 75 ai 78 anni. ”La giustizia - ha detto - non ha bisogno di audience, ma di fiducioso rispetto...desta perplessità la partecipazione di giudici ai talk show televisivi ove si ricostruiscono delitti oggetto di indagini, e perfino di processi in corso, alla ricerca di una verità mediatica diversa da quella processuale”. Il primo presidente, come ogni anno, è stato costretto a denunciare la realtà disastrata della giustizia, per tempi e costi. E' sempre al 156° posto, perfino dietro Angola, Gabon e Guinea”. A causa della lentezza dei processi la finanza pubblica ha speso, in 3 anni, 267 milioni di euro per risarcire i cittadini. Una situazione, però, ha chiarito Carbone, che non si può attribuire “all'improduttività dei magistrati”, ma all'assenza di una riforma globale. Non si può lavorare sulla base di “ impostazioni contingenti, cui corrispondono conflittualità deleterie”. Unico riferimento a Berlusconi, senza nominarlo, l'ha fatto il vice presidente del Csm, Mancino: ”chi svolge attività politica...non solo ha diritto di difendersi... quando sia chiamato personalmente in causa, ma non non può rinunciare alla sua libertà di giudizio nei confronti di provvedimenti giudiziari. Ha però il dovere di non abbandonarsi a forme di contestazione sommaria dell'operato della magistratura”. Il ministro Alfano dal canto suo, al Csm, che ha bocciato i progetti di legge della maggioranza, ha detto: “i giudici sono soggetti soltanto alla legge, ma la legge la fa il Parlamento eletto dal popolo”. Ad ascoltare, tra gli altri, il presidente dell'Anm, Luca Palamara, che ha confermato la protesta di oggi nei vari distretti, quando i magistrati usciranno dalle aule durante l'intervento del rappresentante del ministero. Non a L'Aquila, dove sarà presente Alfano, “ perché – ha spiegato Palamara – non è un'iniziativa contro la persona”. In Abruzzo ci saranno solo i rappresentanti locali dell'Anm. Sulla protesta di oggi non tutti i magistrati sono d'accordo: c'è chi pensa che sia troppo, e chi troppo poco, ma Palamara ha negato che ci siano divisioni: ”L'Anm è la casa dei magistrati e domani( oggi, ndr) ci sarà una voce unica”. A Reggio Calabria, dove 3 giorni fa sono arrivati gli ispettori, dopo l'escalation di intimidazioni mafiose, sarà il pg Di Landro ad analizzare quanto ha compiuto la 'ndrangheta in queste settimane: l'ordigno piazzato davanti alla procura generale, le armi fatte ritrovare in via Ravagnese, dove sarebbe dovuto passare il corteo di Napolitano, il proiettile inviato al pm della Dda, Lombardo, titolare di numerose inchieste sui rapporti tra la ‘ndrangheta e la politica. Di Landro nella sua relazione dirà che è la reazione delle famiglie mafiose “al cambiamento di clima in alcuni uffici giudiziari, con una logica più incisiva nell’affrontare il fenomeno mafioso”. A detta del procuratore generale c'è in atto una sorta di “strategia della tensione. Gli attacchi sono mirati, rivolti ad obiettivi precisi, per ‘responsabilità’ precise”.

Granata:“Pomicino megliodiCosentino” IL FINIANO RIBADISCE: FACCIA UN PASSO INDIETRO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Caterina Perniconi
(Giornalista)


“Chi ha responsabilità di governo, in questi casi, deve fare un passo indietro. La mia posizione su Cosentino resta identica e anzi, è rafforzata”. La posizione in questione è quella di Fabio Granata, vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia in quota Pdl. Politicamente vicino al presidente della Camera Gianfranco Fini, Granata a novembre, in occasione della richiesta di arresto da parte del gip di Napoli per il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica e rapporti con il clan dei Casalesi, chiese le dimissioni dell’esponente di governo.

Onorevole Granata, dopo la sentenza della Cassazione che conferma l’ordinanza di custodia cautelare per Cosentino, il suo parere è rimasto lo stesso?

“La mia risposta sarà lapidaria: ritengo inopportuna la permanenza nel governo di un esponente politico gravato da queste accuse”.

Ma la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti.

“Io non metto assolutamente in discussione la presunzione d’innocenza di Cosentino bensì la sua appartenenza al governo con una funzione delicata. Davanti ad accuse di questo genere bisogna fare un passo indietro fino a quando non si dimostra la propria innocenza”.

Adesso cosa auspica?

“Che la palla passi in mano alla politica. Non vorrei rimpiangere la Prima Repubblica quando Cirino Pomicino si dimise per un avviso di garanzia con l’accusa di abuso d’ufficio”.

Ieri, insieme alla sua compagna di partito, Angela Napoli, ha proposto un “certificato antimafia”. Di cosa si tratta?

“Di un controllo preventivo sulle candidature, a partire dalle prossime elezioni regionali”.

Allora siete d’accordo con Beppe Grillo quando chiede ai pregiudicati di non partecipare alla vita politica.

“Secondo noi non è più sufficiente non mettere in lista pregiudicati, ma bisogna anche evitare di candidare o dare responsabilità dirigenziali a soggetti che, per contesto familiare o sociale, hanno contatti con le organizzazioni mafiose. Non capisco perché una persona che non può fare l’imprenditore possa fare il consigliere regionale. Solo con classi dirigenti rinnovate ed al di sopra di ogni sospetto, la politica potrà fare un passo avanti decisivo nella lotta alle mafie”.

A chi vorreste estenderlo?

Alla selezione delle rappresentanze parlamentari, di governo e di partito.

Quindi secondo lei anche

Berlusconi dovrebbe fare un passo indietro?

“Sul premier credo che sia necessario introdurre il legittimo impedimento. Alla fine del suo mandato si farà poi processare”.

Si è parlato anche d’immunità. Se fosse in vigore, Cosentino non solo non sarebbe stato arrestato, ma nemmeno indagato.

“Non credo che quella sia la soluzione giusta, anche se è presente in quasi tutti i paesi europei. Comunque la preferisco al processo breve”.

Lei è uno dei pochi nemici giurati del processo breve nel centrodestra. Perché?

“Il processo breve rompe l’equilibrio del sistema giudiziario senza migliorarlo. Semplicemente è da evitare”.

LA CURA IMMAGINARIA

Dal Quotidiano La Repubblica
del 30 gennaio 2010

di Giuseppe D'Avanzo
(Giornalista)


ROMA - Modesto esercizio definitorio: di che cosa parliamo, quando parliamo di «riforma della giustizia»? Non certo della giustizia, come "servizio", la prestazione che uno Stato ha il dovere di offrire ai cittadini e, i cittadini, il diritto di avere dallo Stato. Quel "servizio", e non da oggi, è un arnese arrugginito. Non serve a nessuno. Né al cittadino né allo Stato. Né al «presunto innocente» né alla vittima del reato. Né a una strategia di fiducia reciproca tra i cittadini o tra il cittadino e lo Stato né allo sviluppo economico del Paese (i ritardi della giustizia "costano" a imprese e consumatori 2,3 miliardi di euro, ogni anno).

Nel 2008, dopo il fallimento della XIV legislatura, Berlusconi si presenta agli elettori con un ambizioso programma: restituire efficienza alla giustizia italiana. Da allora, a ogni sortita pubblica, il suo ministro, Angelino Alfano, annuncia contro le lentezze e l'impotenza della machina iustitiae mirabilie e successi a portata di mano. Anche nell'inaugurazione dell'anno giudiziario non ha lesinato «consigli per gli acquisti». Dovunque intervenga, le frasi del guardasigilli suonano sempre più o meno così: «Entro l'anno... entro pochi mesi... già la prossima settimana... approveremo... la riforma del processo penale, la riforma del processo civile, misure di efficienza di rango non legislativo, interventi sul sistema carcerario, una riforma della magistratura ordinaria, una riforma delle professioni del comparto giuridico economico...».

Sistematicamente, nonostante i numeri predominanti della destra in Parlamento, il catalogo propagandistico dei trionfi finisce confinato nel registro delle buone intenzioni destinate all'inerzia. Non si scorge nessuna riforma di sistema. Nessuna correzione. Nessuna cura. Non vedono la luce neppure provvedimenti a basso impatto economico come la revisione delle ottocentesche circoscrizioni (sono 165, potrebbero diventare 60). O l'introduzione della posta elettronica per l'esecuzione delle notifiche (cinquemila cancellieri ne consegnano brevi manu agli avvocati 28 milioni ogni anno). O una depenalizzazione dei reati minori che consenta di riservare il processo penale, che costa molto, alle questioni di maggiore allarme sociale. O il rinnovamento della professione forense: «più avvocati, più cause» e gli avvocati in Italia sono 230mila, 290 ogni 100 mila abitanti, contro 4.503 magistrati giudicanti in un rapporto avvocato/giudice strabiliante che demolisce il processo civile.

Inutile dire della riforma di un processo penale, al tempo stesso obeso e avvizzito, che ibrida tutti i difetti dei possibili modelli (inquisitorio, accusatorio) trasformandolo in un gioco dell'oca interminabile e incoerente. Gli atti dell'indagine non valgono per dibattimento (in coerenza con la logica del processo accusatorio) però le garanzie del dibattimento sono state estese alle indagini preliminari (in contraddizione con la logica accusatoria). Così oggi l'indagine ? e non il processo ? è un dibattimento anticipato mentre il rinvio a giudizio, più che essere una valutazione della necessità di un dibattimento, è diventato una sentenza sull'istruttoria (sul lavoro del pubblico ministero). Il processo ne è soffocato. La sovrabbondanza di assillanti formalismi lo disintegrano in una rosa di microprocessi. Giudizio sull'inazione (archiviazione). Giudizio sui tempi dell'azione. Giudizio sulle modalità dell'azione (misure cautelari). Giudizio sulla completezza delle indagini e sul fondamento dell'azione (udienza preliminare). Un processo, in cui ogni atto può generare un microprocesso, che richiede avvisi, notifiche, discussioni, deliberazioni e consente ripetute impugnazioni, non potrà avere mai una «ragionevole durata». Figurarsi se può essere «breve» come vuole, per amore di se stesso, Silvio Berlusconi.
LA CURA IMMAGINARIA


In un esercizio definitorio, si può essere allora tranchant: quando il governo dice che, con la «riforma», vuole restituire efficacia, equilibrio e ragionevolezza all'amministrazione della giustizia, sappiate che mente a gola piena. Quando parla di «riforma della giustizia», Berlusconi, il suo ministro, la maggioranza alludono o si riferiscono a un obiettivo preliminare: un provvedimento-salvacondotto che assicuri l'immunità al capo del governo. Oggi, all'esame del Parlamento non c'è alcuna proposta di riforma sistemica, ma «processo breve», «legittimo impedimento», intercettazioni telefoniche, una riforma del processo che vieta ai pubblici ministeri di «cercare» notizie di reato, lavoro che viene assegnato al poliziotto non più alle dipendenze delle procure, ma del ministro dell'Interno. Alla luce del sole, l'esecutivo lavora soltanto a espedienti che possano proteggere l'Eletto dalla legge, per il passato e il presente, e metterlo in sicurezza per il futuro. La «riforma della giustizia» può attendere.

Quel che accadrà è trasparente come un cristallo. Berlusconi non metterà mai la machina iustitiae in condizione di funzionare meglio nell'interesse del cittadino, fino a quando una nuova Costituzione, nel suo interesse, restaurerà «la legittimazione della politica» («finalità positiva» anche per alcune oligarchie del centro-sinistra) ridefinendo a vantaggio dell'Esecutivo i poteri della magistratura. Per dirla con un oligarca della destra, «il premier va messo in grado di governare tutelandolo dall'ordalia delle procure politicizzate, e la volontà popolare va protetta insieme a lui» (Denis Verdini). Non c'è altra intenzione dietro le parole di Alfano quando dichiara: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge e la legge la fa il Parlamento». Traduciamo.

Il diritto si appresta a diventare soltanto legge e la legge soltanto potere, strumento di un'avventura del potere. «La "forza di legge", di per sé ? scrive Gustavo Zagrebelsky guardando alla storia ? non distingue diritto da delitto. Affaristi, avventurieri, ideologhi fanatici e perfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per la conquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loro azioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi, per mezzo del controllo totale delle condizioni della produzione legislativa. Con la conseguenza che i poteri, ch'essi venivano attribuendosi, potevano certo dirsi legittimi nel senso di legali, essendo al contempo scientificamente qualificabili come usurpazioni, cioè poteri autoproclamati e autoconferiti» (Intorno alla legge). È quel che accadrà in Italia, nei tre anni che chiuderanno la XVI legislatura?

IL SITO NON PERDONA Il caso di Renata Polverini fa scandalo sul web nel silenzio della politica

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Marco Lillo
(Giornalista)


Il caso di Renata Polverini conferma la teoria di Beppe Grillo: internet è spietato. Puoi mentire persino al notaio, come ha fattolaleaderdelsindacatoUglper evadere le tasse, ma non puoi mentire alla rete. È impressionante la lettura del sitowww.renatapolverini.it  . Sono tantissimi i commenti al blog (ne riportiamo tre, ma sono almeno dieci volte di più) di persone comuni che scrivono per chiedere conto al candidato delle notizie pubblicate dal Fatto Quotidiano. Il caso dovrebbe essere studiato nelle scuole di comunicazione. L’apertura al web doveva essere la carta vincente della campagna obamiana della sindacalista di destra prestata alla politica. Purtroppo, alla vigilia dell’inaugurazione del sito, è uscita l’inchiesta del nostro giornale: Renata Polverini ha comprato a prezzo stracciato dallo Ior nel dicembre del 2002 (272 mila euro per sei stanze tre bagni e due box vicino all’Aventino) e non soddisfatta dell’affarone ha anche mentito al notaio per avere l’agevolazione prima casa e pagare il 3 per cento di tasse invece del 10. La sindacalista, infatti, aveva già comprato 9 mesi prima un’altra casa dall’Inpdap, a un prezzo ancora più basso: 148mila euro per sette vani catastali e un box al Torrino, vicino all’Eur.

Oggi siamo in grado di aggiungere un dato: anche sull’acquisto di quella prima casa dall’Inpdap c’è qualcosa che non va. Almeno dal punto di vista etico-politico. Renata Polverini compra con lo sconto in qualità di inquilina dell’Inpdap ma è costretta a fare una donazione alla mamma di un’altra casa che aveva già comprato nel 2001, perché altrimenti non avrebbe avuto diritto a comprare con lo sconto. Anzi non avrebbe avuto diritto proprio a quella casa che sarebbe così rimasta nel patrimonio dell’ente che ne avrebbe tratto molti più soldi mettendola all’asta. La storia della casa dell’Inpdap è poco chiara dall’inizio. Dopo lo scandalo Affittopoli, il ministro Tiziano Treu nel 1997 aveva emanato una circolare vincolante. Le case in affitto dovevano andare prima a poveri, handicappati, sfrattati, militari e giovani coppie. Non è chiaro come abbia fatto Renata Polverini ad avere quella casa. Lo abbiamo chiesto al presidente dell’ente, Paolo Crescimbeni, ex consigliere regionale umbro di An (stessa area della candidata). Ovviamente non ci ha risposto, seguendo l’esempio di Renata Polverini, alla quale abbiamo chiesto ripetutamente un’intervista. Inutilmente. Eppure sono molte le cose da spiegare: dall’evasione fiscale all’affitto dall’Inpdap. Il silenzio è aiutato dall’atteggiamento della stampa. Tutti tacciono. Compreso Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro. Erano stati i protagonisti di Affittopoli quando bisognava stanare dai loro appartamenti Massimo D’Alema e Franco Marini. Ora scoprono una politica-sindacalista furbissima che ha dribblato tutti ottenendo una casa con lo sconto e poi ne ha presa una seconda dichiarando il falso per non pagare le tasse. E loro muti. Ma tra i lettori ci sono molte persone che hanno lavorato una vita per comprare la casa e pagare le tasse. Per fortuna ci sono i blog.

SE IL PREMIER È RICATTABILE

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Peter Gomez
(Giornalista)


La parola chiave è “ricattabilità”. Si, perché comunque la si giri questa strana storia di Patrizia D'Adda-rio, la escort che adesso, secondo il settimanale Panorama, sarebbe considerata dal procuratore di Bari Antonio Laudati una sorta di Mata Hari di provincia inviata a Palazzo Grazioli per incastrare il premier, dimostra con quanta leggerezza Silvio Berlusconi abbia ricoperto il suo ruolo istituzionale di presidente del Consiglio di tutti gli italiani.

Ogni protagonista dell’inchiesta pugliese, e persino il premier in persona, ha confermato che, almeno fino allo scorso maggio, l’accesso nelle abitazioni del Cavaliere, equiparate per legge a residenze di Stato, era totalmente incontrollato.Così frotte di donne, molte delle quali straniere o a pagamento (ufficialmente erano ragazze immagine) cenavano, cantavano, ballavano e, in qualche caso facevano pure dell’altro, con Berlusconi senza che nessuno sapesse chi erano e da dove venivano. Una falla importante nella sicurezza del capo del governo, visto che il ricatto o lo scandalo sessuale sta nell’Abc dei manuali di spionaggio. Una qualsiasi potenza straniera, o qualsiasi avversario politico particolarmente spregiudicato, avrebbe insomma avuto campo libero per screditarlo o, addirittura, per condizionare le sue decisioni. Se davvero, come sostiene il settimanale edito da Berlusconi, le cose sono andate in questo modo, di chi è la responsabilità? Riandando con la moviola della memoria a quei giorni convulsi di inizio estate è facile scoprirlo. È di Silvio Berlusconi .

Il 25 giugno, quando sui giornali sono già apparse le rivelazioni della D’Addario sulla sua notte di passione con il premier (Il Corriere della Sera la intervista il 17), ma ancora L’Espresso non ha messo in rete parte delle registrazioni, effettuate dalla escort nella camera da letto presidenziale, che confermavano in toto il suo racconto, il Cavaliere dice: “Non ho mai immaginato di chiedere a un mio ospite di privarsi del suo telefonino”.

In quel momento la preoccupazione maggiore del capo del governo, che in un’intervista a Chi ha da poco sostenuto di non avere “alcun ricordo” della D’Addario, è ancora per gli scatti effettuati nei bagni di Palazzo Grazioli, e pubblicati su Repubblica da due amiche della escort: Barbara Montereale e

Lucia Rossini, presenti con lei a Palazzo Grazioli nella prima parte della serata del 4 novembre del 2008, poi conclusa da Patrizia “sul lettone di Putin”. Le due ragazze, risultate legate a doppio filo con uomini della mafia barese – la Montereale, a cui Berlusconi ha regalato 10.000 euro era la fidanzata del giovane Radames Parisi, ultimo rampollo dell’omonimo clan, mentre la Rossini ha un fratello spacciatore – potrebbero avere altre immagini. Berlusconi, così, rassicura gli elettori: “Tutto ciò che avviene in mia presenza non può essere men che morale, men che normale . Dopodiché se qualche cena mia sia divertente, perché io sono un grande mattatore e un intrattenitore, lo posso dare per scontato. [...] Se arrivano delle intruse che sotto mentite spoglie e portate da un ospite si meravigliano di quello che vedono non è colpa mia”. È la conferma dell’assoluta imprudenza del premier. Che facendo entrare in casa chiunque sia dotato di belle gambe e ampio sorriso, mette a rischio la sua sicurezza e quella dello Stato.

Ma per il momento la linea difensiva con i media è quella. E Berlusconi non è disposto ad arretrare di un millimetro: “Io sono fatto così e non cambio. Se mi vogliono così mi vogliono. E gli italiani mi vogliono, ho il 61%. Mi vogliono perché sentono che sono buono, generoso, sincero, leale, che mantengo le promesse”, dice senza chiarire di che tipo di promesse stia parlando. Poi, riferendosi a Giampaolo “Giampi” Tarantini, il giovane imprenditore specializzata nella vendita di protesi sanitarie a colpi di mazzette e di forniture di belle donne a primari e politici (anche del centrosinistra), il Cavaliere ribadisce il concetto: “Purtroppo abbiamo sbagliato l'ospite , e lui ha sbagliato l'ospite dell'ospite. Ma sono cose che capitano con le centinaia di persone che mi è capitato di avere alla mia tavola”.

La faccenda però è seria. Terribilmente seria. E non tanto perché l’intensissima vita sessuale e mondana del premier, stride con l’immagine politica che fino a quel momento aveva voluto dare di sé ergendosi a paladino dei valori tradizionali e partecipando a manifestazioni tipo il Family Day. Il punto è un altro. La slavina di fango che Berlusconi si è trascinato addosso, prima frequentando la minorenne napoletana Noemi Letizia, poi organizzando feste da mille e una notte per solo donne a villa La Certosa (fotografate dal reporter Antonello Zappadu) e, infine, vedendo di continuo Tarantini e le sue avvenenti e disponibili amiche, provoca al Paese un danno d’immagine sul piano internazionale, per riprendersi dal quale ci vorranno anni. E soprattutto finisce per distrarre Berlusconi dai suoi doveri istituzionali di capo del governo. In totale sono una ventina le ragazze introdotte da Giampi Tarantini alla corte del presidente del Consiglio. Ricostruendo, sulla base dei loro racconti, le date delle cene, delle feste e dei fine settimana trascorsi con Berlusconi, si scopre infatti come, sovente, il “terribile mal di schiena” che lo ha spinto a far saltare una lunga serie di impegni ufficiali, sia solo un modo elegante per dire: il Cavaliere ha fatto o deve fare baldoria. Accade, per esempio, proprio la sera in cui Patrizia D’Addario trascorre la notte a Palazzo Grazioli. Il premier è previsto ospite dell’ambasciata Usa per seguire le presidenziali americane. Ma non ci va. Niente di nuovo. Qualche settima prima in settembre aveva rinunciato all’ultimo momento addirittura a un viaggio a New York, dove avrebbe dovuto parlare all’assemblea dell’Onu. Ma Tarantini gli aveva procurato un bel set di ragazze.

Così il 23 settembre ecco il Cavaliere che ospita, tra le altre, Terry De Nicolò, già messa a disposizione di una assessore pugliese del centro-sinistra dal giovane imprenditore. Con lei, Giampi, e Carolina Marconi, ex del "GF" più Geraldine Semeghini, all’epoca responsabile del privè del Billionaire, Berlusconi fa le quattro del mattino. Poi dice a tutti che resterà in Italia per occuparsi della crisi Alitalia, ma invece si rifugia in un centro benessere con le amiche. E ci resta per quattro giorni. Vasco Rossi direbbe che la sua è una vita esagerata e spericolata. Per questo adesso le ipotesi di complotto lasciano il tempo che trovano. Anche se la D’Addario fosse stata pagata da qualcuno, una cosa è certa. Silvio Berlusconi si è incastrato da solo.

Se Cosentino non si dimette lasciate l’aula

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Marco Lillo
(Giornalista)


Nonostante la Cassazione abbia confermato l’ordine di arresto dei magistrati di Napoli per concorso esterno in associazione camorristica, il sottosegretario Nicola Cosentino per Silvio Berlusconi può restare al suo posto. Non ci si poteva aspettare altro da un premier che considera Vittorio Mangano un eroe. Il governo, dopo avere messo giovedì nel suo programma la lotta alle mafie, il giorno dopo ha confermato un presunto amico della Camorra – che per i giudici dovrebbe stare in galera – nella sua compagine. Per ironia della sorte l’unica dichiarazione in tal senso è stata fatta alle agenzie di stampa ieri dal ministro Gianfranco Rotondi, l’uomo che dovrebbe controllare l’attuazione del programma(compresa la lotta alla Camorra) del Cavaliere.

Di fronte a questa situazione sconcertante, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha detto parole chiare ad Annozero giovedì scorso: “Cosentino dovrebbe dimettersi”. Contro il sottosegretario all’Economia, il Pd e l’IdV a novembre hanno anche presentato una mozione di sfiducia respinta dal Senato. Quando la Camera ha rispedito al mittente la richiesta di arresto, l’opposizione ha votato contro. Apparentemente il centrosinistra avrebbe fatto tutto il possibile e dovrebbe rassegnarsi ad avere un simile personaggio nel governo. Per di più delegato per decreto a occuparsi di materie delicate come i contributi alle imprese radiotelevisive o le sedute del Comitato che decide la politica economica, il Cipe. Ma non è così.

Tra le deleghe di Cosentino c’è anche quella che gli permette di andare in Parlamento in rappresentanza del governo per rispondere alle interrogazioni. Bene. Lo spettacolo di un politico (secondo i giudici eletto con i voti della Camorra in cambio dell’impegno ad aiutare i clan) che entra in aula e risponde ai quesiti più disparati dei parlamentari, anche di sinistra, è intollerabile. Se il ministro Tremonti invierà ancora Cosentino in aula, tutti i parlamentari dell’opposizione, coerentemente con le loro dichiarazioni e mozioni, dovranno semplicemente alzarsi e uscire dall’aula. Non servirà a farlo dimettere. Ma almeno a farlo arrossire.

Ipotesi di autocomplotto

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 gennaio 2010

di Marco Travaglio
(Giornalista)


Grazie a Massimo Tartaglia, il collega squilibrato che l’ha colpito con un souvenir, il Banana era riuscito a far dimenticare Veronica, le euroveline, Noemi, Patrizia e i ponti aerei di gnocca aviotrasportata su voli di Stato nelle sue varie residenze. Svanite anche le dieci domande di Repubblica, dopo le dieci non-risposte date nel libro di Vespa e i casi Marrazzo e Delbono. Grazie a D’Alema, poi, la Puglia era tornata a essere un caso politico e non un serbatoio di escort presidenziali. Poi, due giorni fa, è uscito Panorama con lo scoop dell’indagine di Bari sul complotto internazionale, subito smentita dalla Procura e confermata da Panorama (quindi una balla). E il caso Banana-D’Addario è tornato al centro dell’attenzione. Anche perché la patacca è stata rilanciata dal Giornale e da Libero. Ora persino Minzolini potrebbe scoprire l’esistenza di Patrizia. Ancora una volta, non bastando i casi Boffo e Fini, i signorini grandi firme rovinano le strategie comunicative del pover’ometto che li paga. “Esclusivo. Il piano organizzato a tavolino per mettere alle corde Berlusconi. I registi: politici, magistrati e giornalisti. E un gruppo di personaggi disposti a tutto” (anche a portarsi la D’Addario nel lettone di Putin e a candidarla a Bari). Il Giornale: “Complotto contro il premier. Panorama rivela un’indagine segreta” (così segreta che nemmeno la Procura ne sa nulla). Libero: “Sputtanata. Crollano le accuse della D’Addario. Toghe, politici e giornali d’accordo per rovinare Silvio. Patrizia era l’esca” (chi fosse il tonno è superfluo precisarlo). Cogliamo fior da fiore dagli articoli di Giorgio Mulè, sagace direttore di Panorama, e di Giacomo Amadori, autore dello scoop mondiale. “A noi – comunica Mulè restando serio – interessano i fatti”. Perbacco. “Gli inquirenti sono sul punto di alzare il coperchio su una trama maleodorante”. Slurp. “Berlusconi vittima di complotto, la D’Addario ‘agente provocatore’ manovrata da Tarantini, Tarantini ‘terminale’ di spregiudicati burattinai politici, a loro volta legati a giornalisti”. Ma “sotto la lente degli inquirenti” (e dove, se no?) “ci sarebbero perfino magistrati in servizio a Bari”. Roba forte, anche perché “il capo della Procura Laudati è tutto fuorché uno sprovveduto”: “si muove coi piedi di piombo” ed “estrema riservatezza” (per questo smentisce: è schivo), è “affilato e distinto”, usa un “metodo investigativo che, per giungere alle conclusioni, si basa sui fatti e sull’analisi di tutti i particolari che gravitano intorno a essi”. Mica bruscolini. Dunque la Mata Hari del Tavoliere fu “selezionata e consegnata a Tarantini” perché la infilasse nel lettone di Putin. Quella sera l’anziano premier stava ultimando la consueta partita a rubamazzo con Bondi, Cicchitto e Capezzone, che perdevano apposta per non farlo star male, quando la maliarda, intrufolatasi a Palazzo Grazioli travestita da Bonaiuti, lo sorprese alle spalle e lo violentò. “No, no, vade retro Satana”, urlava lui dimenandosi come un ossesso nel suo curioso accappatoio bianco, “io penso solo a Veronica e ai valori della famiglia di Santa Romana Chiesa!”. Ma non ci fu nulla da fare, complice una pozione magica a base di Cialis e Viagra trovata nel comodino. Resta da capire chi montò un filmato col sosia del Banana che pareva piuttosto entusiasta della cosa, quale imitatore telefonò più volte alla signora nei giorni seguenti e come fu che lei finì in lista alle comunali di Bari. Ma lo scopo del complotto è evidente: “Compromettere la reputazione del premier” e “ridicolizzarlo oltreconfine” più di quanto non faccia lui da solo. Una mission impossible. Nulla però è impossibile a queste misteriose entità, legate a “intermediari internazionali, diretti a loro volta da politici italiani rimasti per ora nell’ombra”, anche se “è logico pensare che i burattinai vadano ricercati nel campo avverso al Pdl”. Visto che si proponevano di rovesciare il premier, si esclude pure che appartengano al Pd. Si batte la pista dei venusiani.

venerdì 29 gennaio 2010

Criminalita' organizzata e giornalismo d'inchiesta

Dal Sito Antimafia 2000
del 29 gennaio 2010

L’INCONTRO di sabato 30 gennaio

L'informazione e l'uso strumentale delle cause per diffamazione. Con Milena Gabanelli e Gianni Barbacetto.
MILANO - Nell’ambito di un ciclo di incontri sulla presenza della criminalità organizzata nel Nord Italia, si terrà sabato 30 gennaio al Circolo della Stampa una tavola rotonda che avrà per tema l’utilizzo strumentale delle cause per diffamazione e l’impatto che le richieste di risarcimento ad esse correlate hanno sulla libertà di stampa e sul diritto d’informazione.

Assieme a quella di Milena Gabanelli e Gianni Barbacetto, che porteranno la loro testimonianza diretta di giornalisti, la tavola rotonda vedrà la partecipazione dell'avvocato Caterina Malavenda, difensore di alcune delle principali testate giornalistiche nazionali, e di Alberto Nobili, procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Milano.

DIBATTITO - All’incontro, che sarà trasmesso in diretta su c6.tv, interverranno anche alcuni esponenti del mondo della politica e del giornalismo lombardo, tra cui Giulio Cavalli, Ludovico Gilberti e Mauro Giubellini. Il dibattito intorno all’opportunità che sia introdotto nell’ordinamento normativo italiano un più efficace sistema sanzionatorio dell’azione temeraria nelle cause per diffamazione è aperto da tempo ed è stato rilanciato proprio da Milena Gabanelli quando, nello scorso settembre, si era paventata l’ipotesi che la Rai sospendesse la copertura legale alla trasmissione Report. Le spese legali necessarie ad affrontare i procedimenti giudiziari sono infatti notoriamente ingenti e spesso tali da dissuadere editori e giornalisti dal perseverare nelle proprie inchieste, anche quando l’azione sia infondata e il fatto diffamatorio del tutto insussistente. Analogamente le richieste di risarcimento possono raggiungere cifre a sei zeri e indurre l’editore a desistere dal rendere pubbliche determinate notizie.

LITE TEMERARIA - Sebbene le modifiche all’art.96 del Codice di procedura civile, introdotte dalla recente legge del 18 giugno 2009, n. 69, promettano novità, nella quasi totalità dei casi la lite temeraria (l’azione giudiziale mossa senza fondamento, con dolo o colpa grave) viene punita con sanzioni d’importo trascurabile. Chi possa permettersi di sostenere il costo delle spese processuali – e fra costoro si annoverano in gran numero mafiosi e camorristi, i quali possono contare su ricche fonti di liquidità – ha dunque a disposizione un utile istituto che, nato per difendere l’onorabilità di ogni onesto cittadino, si trasforma in vero e proprio strumento d’intimidazione.

INFORMAZIONE E INTIMIDAZIONE - La questione, apparentemente tecnica, nasconde un problema di interesse generale: il diritto della collettività a ricevere una corretta e puntuale informazione, libera da indebiti condizionamenti. Nelle intenzioni degli organizzatori l’incontro ha dunque lo scopo di portare il problema all’attenzione di un pubblico che non sia solo quello degli addetti ai lavori, e della politica, affinché possa intervenire sul piano normativo.

L'APPUNTAMENTO - L’evento avrà luogo sabato 30 gennaio, alle ore 16, nella Sala Bracco delCircolo della Stampa di Milano, ed è organizzato dall’Associazione Culturale Balrog, in collaborazione con virgolaz.it, milanomafia.com e Susp-Student’s Union Scienze Politiche.
Il Circolo della Stampa è in Corso Venezia 16, a Milano (MM1 Linea Rossa, fermate Palestro o San Babila, o Bus 97).

Per informazioni: Circolo della Stampa: eventi@circolostampamilano.it, tel. 02.76022671 -Associazione Culturale Balrog: info@balrog.it, tel. 327.1534498.

"Sosteniamo la Costituzione" Un sabato di sit-in del popolo viola

Dal Quotidiano La Repubblica
del 29 gennaio 2010


ROMA - Sarà un sabato nel nome della Costituzione. Gli esponenti del No B-Day organizzano sit-in in decine di città italiane in difesa della Costituzione. A loro l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha voluto indirizzare un messaggio.

"Nella mia qualità di presidente dell'Associazione 'Salviamo la Costituzione: aggiornarla non demolirla', nata dal Comitato che promosse il referendum costituzionale del giugno 2006 - scrive Scalfaro- esprimo soddisfazione per le numerose iniziative e manifestazioni di sostegno alla Costituzione repubblicana e alla sua perdurante attualità, organizzate in un momento nel quale essa è nuovamente esposta sia al rischio di proposte di revisione non rispettose dei suoi valori e del suo impianto fondamentale, sia a una strisciante e quotidiana inosservanza dei suoi principi (prima di tutto quello dell'equilibrio tra i poteri costituzionali e dell'autonomia e indipendenza della funzione giurisdizionale). D'intesa con il direttivo di "Salviamo la Costituzione", che si è riunito a Roma il 26 gennaio, invito i comitati locali della nostra associazione a partecipare a queste iniziative.

Invitiamo, in particolare, a sostenere l'iniziativa, promossa autorevolmente dai presidenti emeriti della Corte costituzionale Valerio Onida e Gustavo Zagrebelsky sotto l'egida di un gruppo di associazioni e movimenti della società civile, per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare tendente a integrare la festa nazionale del 2 giugno con un riferimento esplicito alla Costituzione, così da ridefinirla come festa della Repubblica e della Costituzione.

E' un modo per sottolineare lo stretto legame, storico e istituzionale, tra i due momenti fondanti della nostra convivenza civile, e per ricordare che la Costituzione è e resta un sicuro punto di riferimento della grande maggioranza degli italiani, al di là delle divisioni politico-partitiche, come è stato confermato dal netto risultato del referendum del 25-26 giugno 2006 e da recenti sondaggi di opinione.

La Costituzione può naturalmente, come essa stessa prevede, essere aggiornata e modificata, in modo da adeguare gli strumenti della nostra democrazia al mutare della realtà storica, politica e sociale: ma ciò deve avvenire in coerenza con i suoi principi e i suoi valori, anzi al fine di meglio attuarli e inverarli, e senza stravolgere il suo impianto fondamentale, che è garanzia dei diritti di tutti e di ciascuno e della effettività della nostra democrazia.

Chiediamo infine -conclude l'ex presidente della Repubblica - ai nostri Comitati regionali e locali di valutare, in vista delle prossime elezioni regionali, l'opportunità di invitare tutti i candidati alla carica di presidente della Giunta regionale a sottoscrivere un documento col quale essi si impegnino - in caso di approvazione parlamentare di modifiche costituzionali che stravolgano i principi, i valori e l'impianto fondamentale della nostra Costituzione - a proporre al loro Consiglio regionale di esercitare la facoltà costituzionalmente prevista di promuovere il referendum previsto dall'art. 138 della Costituzione".

Ambrogio Mauri una vittima vera

Dalla Rivista L'Espresso
del 29 gennaio 2010

di Marco Travaglio
(Giornalista)


La prossima volta che i presidenti della Repubblica, del Senato e del Consiglio vorranno ricordare una vittima di Tangentopoli, si spera che ne ricordino una vera.

Non un politico corrotto e latitante, ma un imprenditore onesto che veniva escluso dagli appalti pubblici perché non pagava mazzette nella Milano da bere e da mangiare. Si chiamava Ambrogio Mauri, abitava a Desio, in Brianza. Nell'aprile del 1997 si uccise con un colpo di pistola al cuore per protestare contro il sistema delle tangenti, a cui si era sempre ribellato. Aveva 66 anni. Lasciò la moglie, tre figli e un'azienda che da mezzo secolo costruiva autobus e tram esportandoli in tutto il mondo, ma a Milano era regolarmente esclusa dalle gare dell'Atm. Aveva il brutto vizio di non ungere i partiti. Quando partì l'inchiesta Mani Pulite, che falcidiò anche i vertici dell'Atm, Mauri andò a testimoniare davanti al pm Antonio Di Pietro. Il quale poi, quando lesse della sua morte, si ricordò di lui e partecipò al suo funerale, disertato da tutte le autorità. "I dirigenti corrotti dell'Atm", ricorderà Di Pietro, "gli avevano fatto una serie di soprusi. Era una vittima del sistema e fu uno dei primi e dei pochissimi a collaborare spontaneamente. La testimonianza andò benissimo. Col tempo si creò un rapporto di stima e amicizia. Ci veniva a trovare in Procura, ci incoraggiava ad andare avanti. Ci diceva: meno male che c'è Mani Pulite, grazie al vostro pool sono tornato a credere nella giustizia. Si era illuso che potessimo ripulire l'Italia. Invece, dopo Tangentopoli, è scattata la vendetta". Nel 1996 Mauri fu escluso anche dalla gara bandita dall'Atm per la fornitura di cento autobus. Pochi mesi dopo scrisse poche parole su un biglietto: "Dopo Tangentopoli tutto è tornato come prima". E una lettera alla moglie Costanza: "Tu sei il mio primo e ultimo bene. Forse, se fossi stato più malleabile, le cose sarebbero andate diversamente e non ti avrei dato tutti questi problemi. Il mio suicidio è l'atto finale del mio amore". E si sparò. Anziché inviare un messaggio di cordoglio alla famiglia o partecipare ai funerali, durante le esequie i vertici dell'Atm convocarono una conferenza stampa per rivendicare l'"assoluta trasparenza" dell'ultima gara. I figli, che non avevano mai collegato il gesto paterno a quell'appalto, parlarono di "excusatio non petita". Ecco, la prossima volta che le verrà il trip di cambiare nome a un parco di Milano, la sindaca Letizia Moratti potrebbe dedicarlo ad Ambrogio Mauri. La prossima volta che Renato Schifani cercherà una "vittima sacrificale di Tangentopoli" da beatificare in Senato, potrebbe raccontare la storia di Ambrogio Mauri. La prossima volta che a Giorgio Napolitano scapperà la voglia scrivere alla vedova di un uomo trattato con "una durezza senza eguali", Giorgio Napolitano potrebbe rivolgerla a Costanza Mauri. Risparmierebbe pure sull'affrancatura: la signora non abita ad Hammamet, ma a Desio (Brianza, Italia).

Mafia, i 'pizzini' consegnati da Ciancimino