giovedì 4 febbraio 2010

PROTEZIONE SANITARIA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 febbraio 2010

di Antonio Massari
(Giornalista)


L’azienda di Tarantini salvata da un uomo molto vicino alla Protezione civile. E’ questo il lato interessante della parabola di Tecnohospital, la società di Gianpi Tarantini, l’uomo che portò Patrizia D'Addario da Silvio Berlusconi. “Gianpi” ha sempre tenuto fuori il premier dalla vicenda escort, sottolineando a più riprese che i soldi versati alle donne, per essere accondiscendenti con il premier, erano sempre stati versati, da lui stesso, all'insaputa di Berlusconi. La sua verità ha risparmiato al presidente del Consiglio parecchi imbarazzi, dopo averne creati altrettanti, per avergli presentato una donna che ha registrato Berlusconi fin dentro la camera da letto. Ma perchè Tarantini aveva tanta premura di presentare belle donne al premier? Tarantini, pochi mesi fa, dichiarò agli inquirenti che intendeva avvicinare la Protezione Civile: era quello – ha dichiarato – uno degli scopi per i quali aveva avvicinato Berlusconi. Oggi scopriamo che nella compravendita della società di Tarantini, un incrocio con la Protezione Civile - o meglio: con una persona considerata il “braccio destro” del suo capo, Guido Bertolaso - c'è. Seppure incidentalmente. La Tecnohospital, azienda di Tarantini, che commerciava protesi sanitarie, aveva fatto affari con tutta la Puglia, incassando milioni di euro dalla sanità pubblica. La stessa Tecnohospital è finita poi nel ciclone delle indagini, condotte dalla Procura di Bari, sulla corruzione nell'ambito della sanità pubblica, inchiesta che sta facendo tremare molti colletti bianchi della regione. Un'azienda che scotta, quindi, vista la mole di sospetti che la riguardano. Un'azienda che potrebbe avere parecchi problemi a restare sul mercato, considerata la pessima pubblicità ottenuta dalle vicende giudiziarie. Eppure c'è qualcuno che l'ha acquistata. Per 300 mila euro. Nonostante l'azienda abbia debiti per circa 6 milioni di euro.

L'acquirente si chiama Gian Luca Calvi, amministratore della società Myrmex spa, che si occupa dello stesso ramo – commercializzazione delle protesi – e lo fa ad alti livelli. Myrmex acquista la Tecnohospital (nel frattempo passata nelle mani della madre di Tarantini, Maria Giovanna Tattoli, - così recita il contratto, stipulato il 22 dicembre 2009, e protocollato il 12 gennaio 2010 – senza acquisirne i debiti, i crediti e le giacenze. Non si accolla quindi i sei milioni di debito. Tra i quali, peraltro, compaiono anche debiti della stessa Tecnohospital con la Myrmex. L'azienda della famiglia Tarantini resta comunque in vita e, almeno, può recuperare 300 mila euro in un momento di grossa crisi finanziaria. Un salvataggio perfettamente riuscito. Il fatto interessante, però, è che la ciambella sia partita proprio da Gian Luca Calvi, fratello di Gian Michele Calvi, presidente della Eucentre, organismo – senza scopo di lucro, si legge nella home page – fondata proprio dalla Protezione Civile. E soprattutto referente, per la protezione civile, del progetto C.A.S.E., a l'Aquila, per la ricostruzione post terremoto. Gian Michele Calvi è definito da molti, ormai, una sorta di braccio destro di Bertolaso.

Torniamo alla compravendita. Con una premessa necessaria: Myrmex e Tecnohospital si “conoscevano” da tempo. Myrmex s'impegna ad acquistare – è scritto nel contratto - “alcuni beni aziendali come immobili, mobili e le attrezzature, software, diritto di utilizzare l’immobile adibito a sede sociale”. I 300 mila euro saranno versati “quando il tribunale di Bari stabilirà con decreto di ammissione al concordato preventivo”. Il concordato preventivo è un passaggio giudiziario delle procedure fallimentari. Ulteriore segno che la società versa in gravi condizioni. Altro punto interessante del contratto è il seguente: la Myrmex, che acquista la società di Tarantini, è creditrice, proprio dalla Tecnohospital, di ben 1 milione e 603 mi-la euro. E il salvataggio dell'azienda – leggendo quest'ultimo particolare – si fa ancora più interessante. È vero che la Tecnohospital ha chiuso in questi anni contratti per milioni di euro con la pubblica amministrazione pugliese. Ed è vero che Tarantini dovrebbe incassare ancora parecchi di questi soldi. Ma è anche vero che la Myrmex non ne avrà diritto: l'azienda di Calvi, infatti, comprando per 300 mila euro, rinuncia sia ai debiti, sia ai crediti. In serata Gian Luca Calvi non ha voluto rispondere telefonicamente alle domande del Fatto nè sull’acquisto della società nè sulla parentela con Gian Michele.

“B. non vuole farsi processare”

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 febbraio 2010

di Caterina Perniconi e Sara Nicoli
(Giornaliste)


Approvato ieri alla Camera, tra le contestazioni dei deputati dell’Italia dei Valori, il provvedimento sul legittimo impedimento. Per due giorni l’aula di Montecitorio è stata impegnata a discutere l’ennesima legge ad personam. Il testo, infatti, consente al premier e ai ministri di “saltare” i processi, di rinvio in rinvio, fino a un massimo di 18 mesi, tempo entro il quale dovrà arrivare un lodo Alfano-bis per lo “scudo” alle alte cariche dello Stato. Con questa norma, quindi, Palazzo Chigi potrà “autocertificare” gli impegni istituzionali del presidente del Consiglio e il giudice dovrà prenderne atto e sospendere il processo. La tensione a Montecitorio è arrivata solo col voto finale al provvedimento, i cartelli con le scritte “casta di intoccabili” o “legittimo impedimento, legittima impunità” sui banchi dell’Idv, le palline di carta lanciate dai banchi della maggioranza. Con il leader del Pd Bersani ad accusare: il legittimo impedimento “è composto da tante norme non semplici, ma la gente capisce una cosa semplice: c'é di mezzo Berlusconi, un premier che non vuole farsi giudicare e tiene ferma l’Italia su questo punto in una folle guerra tra politica e giustizia”. E con il botta e risposta tra il capogruppo del Pdl, Fabrizio Cicchitto e Massimo D’Alema: “Lei, onorevole D’Alema - ha sottolineato l’esponente del centrodestra durante la dichiarazione di voto - ha meno bisogno di avvocati dell’onorevole Berlusconi, sia per un diverso atteggiamento nei suoi confronti di molti magistrati a partire da Di Pietro, sia perché nel passato lei si è potuto avvalere dell’immunità del Parlamento europeo e in quella sede del voto a suo favore dei parlamentari del centrodestra, che non sono garantisti a senso unico come lei”. D’Alema ha preso la parola prima del voto finale: “Non mi sono mai avvalso di alcuna immunità - ha replicato - sono stato indagato per otto anni dalla Procura della Repubblica di Venezia ad opera del giudice Nordio. Questo periodo di otto anni ricopre anche il periodo in cui sono stato presidente del Consiglio. Sono stato indagato, ho risposto alle domande del giudice, l’ho incontrato pur essendo stato segretario del maggior partito di Governo e poi presidente del Consiglio. Dopo otto anni sono stato prosciolto”. Ma per il Pdl un’udienza ogni tre giorni (computo di quelle programmate per il premier nei prossimi mesi) impediscono di governare . Non è impedito, però, chi come Matteoli, Castelli o Brunetta, è candidato a raddoppiare il suo incarico o magari a triplicarlo. Fino a ieri sera la due giorni di discussione si era svolta senza grandi scossoni: in Aula c’è chi parla al telefonino, chi gioca a poker sul pc o chi risponde addirittura ai messaggi su Facebook. La noia dei deputati per l’ennesima discussione pro premier è palpabile e anche il Partito democratico - che considera il legittimo impedimento il minore dei mali tra processo breve e immunità – discute senza enfasi le centinaia di emendamenti presentati per mettere in difficoltà l’approvazione del provvedimento. Fuori dal palazzo non si sentono più i mortaretti degli operai dell’Alcoa ma c’è una manifestazione del “popolo viola” che ha autoconvocato l’iniziativa via e-mail e sms, ricordando che “davanti a Montecitorio non puoi mancare , l’illegittimo impedimento sarà votato e a Berlusconi il processo sarà evitato”.

“Lo si deve a noi - tuona a fine mattinata dall’emiciclo il delfino di Casini, Roberto Rao - se del processo breve non si riparlerà fino a settembre; la mediazione dell'Udc sul legittimo impedimento è servita a questo”. Se fossero vere le parole di Rao varrebbe la pena di fare ai neo democristiani di Casini – che si sono astenuti dal voto sul legittimo impedimento - un monumento al valore. Ma non è così. Il processo breve non è stato affatto cancellato dai calendari dell’aula ma solamente rimandato, probabilmente a settembre, in cerca di una convergenza più ampia. E’ sottinteso che la riforma della Giustizia non è prioritaria come i processi del premier. L’incontro più delicato di ieri, però, è avvenuto lontano dai corridoi di Montecitorio, ovvero al Quirinale. Il ministro Alfano è salito al Colle più alto per sincerarsi che il Capo dello Stato, quando il legittimo impedimento avrà superato con successo anche il voto di palazzo Madama (ossia entro fine mese), non troverà nulla da eccepire e firmerà serenamente la promulgazione. Non si sa come abbia risposto Giorgio Napolitano, ma si sa, invece, che lunedì tre emendamenti della maggioranza che estendevano anche alle più alte cariche dello Stato (i presidenti delle Camere e, appunto, il presidente della Repubblica) sono stati ritirati. Napolitano, in sostanza, non avrebbe gradito che il Quirinale potesse essere coinvolto nel legittimo impedimento.

DELITTO PERFETTO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 febbraio 2010

di Bruno Tinti
(Ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)


Ieri la Camera ha votato l’ennesima legge scritta apposta per B.: il legittimo impedimento. In realtà si tratta di una nuova versione di una norma di procedura penale vecchia come il cucco (ma quanto è vecchio il cucco, dicevamo noi da bambini alla nonna che ci raccontava le favole?): tutti i Codici di procedura penale successivi a Torquemada hanno sempre previsto che “quando l’imputato non si presenta all’udienza e risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice deve rinviare il processo”. Ciò perché, siccome l’imputato ha diritto di difendersi nel processo che lo riguarda (non DAL processo, come hanno sempre fatto B&C e come teorizzato da Bersani e Letta, quello del Pd, non quello del Pdl), è ovvio che ha anche diritto di essere presente; e, se non gli riesce perché è caduto e si è rotto una gamba, celebrare il processo in sua assenza non si può. Anche questo tutte le Costituzioni successive a Gengis Khan lo hanno detto a chiare lettere. Le parole chiave del legittimo impedimento così com’è oggi sono: “Quando risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire”: sarà anche vero che ti sei rotto una gamba, però, cortesemente, fammi avere un certificato medico che lo provi; così io giudice rinvio il processo senza timore di essere stato preso per … i fondelli. E così si è fatto per alcune centinaia di anni.

Poi è arrivato l’iperimputato, l’imputato uguale agli altri ma diverso, l’imputato diverso dagli altri, insomma l’imputato politico; e per lui questo secolare legittimo impedimento non va più bene. Il fatto è, dicono B&C, che il politico è un imputato impedito per natura; che non vuol dire che è un politico impedito, anche se in realtà su questo si potrebbe concordare per molti, moltissimi di loro; vuol dire che la sua qualità di politico costituisce in sé e per sé un legittimo impedimento a presentarsi nei processi in cui è imputato. Il politico può andare in vacanza, al cinema, al ristorante, alle prime teatrali e cinematografiche, alle partite di calcio, di tennis e di qualsiasi altro sport gli piaccia (magari utilizzando gli aerei di Stato se si tratta di luoghi lontani o anche solo lontanucci); il politico può andare a feste organizzate da lui o per lui, cantare con fanciulle giovani, meno giovani e giovanissime, assoldare menestrelli e scrivere canzoni per loro; può fare tutto quello che vuole ma, ecco, presenziare e difendersi nel processo che lo riguarda, quello proprio no. È impeditoa farlo dalla sua natura di politico; e, quel che più conta, con la legge approvata dalla Camera, se passerà anche al Senato (e se il presidente della Repubblica la firmerà) è legittimamente impedito.

Tutto questo naturalmente è incostituzionale: che ci siano qualifiche personali e corrispondenti impegni professionali incompatibili con il processo penale e altre qualifiche e impegni che non lo sono, tranne casi da valutare volta per volta, è in evidente violazione dell’art. 3 della Costituzione. Per esempio, perché i ministri sì e i sottosegretari no? E poi, i presidenti delle regioni, per dire, forse hanno meno da fare del ministro delle Pari opportunità? E il suddetto ministro ha davvero un’incompatibilità ontologica con il processo che il grande chirurgo oncologo, in ospedale a salvare vite dalle 6 di mattina alle 10 di sera, invece non ha?; perché lui lo deve provare, come tutti, il legittimo impedimento. Per la verità uno dei promotori di questa splendida legge, l’onorevole Vietti (che sembrava appartenere all’opposizione, come il suo partito, l’Udc) lo ha pure detto, un po’ fra i denti: “Bè, anche se fosse, così guadagniamo tempo fino a quando il lodo Alfano costituzionale (altro fulgido esempio di riforma legislativa) sarà approvato; è l’uovo di Colombo”. Eccola rivelata la spudorata tecnica di B&C: emanare in serie leggi incostituzionali che comunque impediscano ai Tribunali italiani di processare B.; quando una cadrà sotto la mannaia della Corte costituzionale, ne sarà pronta subito un’altra; e quando anche questa cadrà, ancora un’altra; e via così fino alla soluzione naturale del problema: nessuno è eterno e nemmeno l’archetipo prototipo di razza superiore quale si considera B. Un’ultima riflessione. Uno che di diritto ne capisce, l’onorevole Pecorella, ha detto (Corriere della Sera, 3/2) “Spetta solo al popolo decidere chi deve governare e non a qualche magistrato”. Considerazione assolutamente condivisibile. A “qualche magistrato” spetta solo di stabilire se B. è o no un delinquente; poi, se il popolo decide di essere governato da un delinquente, fatti suoi. Il problema del nostro paese, in realtà, sta proprio qui: B. si è beccato numerose “assoluzioni” per prescrizione; che vuol dire che era colpevole ma che non poteva essere condannato perché era passato troppo tempo. Evidentemente il “popolo” di questo fatto, del fatto che B. aveva commesso reati, se ne è sovranamente (è proprio il caso di dirlo) sbattuto; e B. presidente del Consiglio era e presidente del Consiglio è rimasto. Sicché i magistrati con il diritto di governare di B. nulla “c’azzeccano”.

In realtà, quello che B&C (tra cui evidentemente va annoverato l’onorevole Pecorella) vogliono non è che B. continui a governare; quello lo sta facendo da molto tempo, nonostante tutto; e continuerà a farlo anche dopo la condanna per corruzione dell’avvocato Mills. Quello che vogliono è che non vi sia una sentenza che dica che B. ha commesso l’ennesimo reato. Ma, onorevole Pecorella,questochec’entraconlasovranità popolare?

QUELLE TESI DI CRAXI SU DI PIETRO AMATE DAL CORSERA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 febbraio 2010

di Peter Gomez
(Giornalista)


A ben vedere, finora, il mistero è soltanto uno: il Corriere della Sera. Perché, martedì 2 febbraio, il solitamente prudente quotidiano della borghesia milanese ha deciso di dare spazio in prima pagina a una vecchia fotografia del pm Antonio Di Pietro a cena con una serie di ufficiali dell’Arma e il numero tre del Sisde, Bruno Contrada? Perché tanta rilevanza a un articolo in cui sono riportate le tesi e le ricostruzioni di un avvocato, Mario Di Domenico, che da anni attacca Di Pietro, venendo puntualmente smentito nei tribunali? Con il leader del Pd, Bersani, pronto a difenderlo: “Solo un grosso polverone, perché la foto salta fuori solo adesso?”.

Non che la notizia del libro (non ancora terminato) scritto da Di Domenico contro Di Pietro dovesse essere nascosta, intendiamoci. Ma pubblicarla così senza riflettere e verificare punto per punto il contenuto delle accuse, vuol dire fare una precisa scelta politica. Anche perché quali siano stati i rapporti tra Di Pietro, gli altri magistrati del pool di Mani Pulite, e gli 007 lo dicono la storia, gli atti della Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copaco) e, ovviamente, la collezione del Corriere.

Il primo grande assalto all’indagine anticorruzione risale infatti già alla primavera del 1992 quando Bettino Craxi, non ancora indagato, si mette alla furiosa caccia di notizie sul magistrato, arrivando a sostenere in agosto di avere in mano contro di lui “un poker”, che si rivelerà però un flop. Il Copaco, nel 1996, ha ricostruito buona parte dell’accaduto. E ha fatto delle scoperte che rilette adesso appaiono interessanti: tutte o quasi le accuse di oggi (dal presunto ruolo americano nell’inchiesta Mani Pulite, fino supposti misteri sul passato del leader dell’Idv) erano dei cavalli di battaglia che il corrotto Craxi cavalcava anche grazie a documenti ricevuti da quegli 007 ora dipinti come dei complici di Di Pietro.

Per capire bisogna insomma tornare all’estate del ‘92. In quelle settimane,il presidente del Consiglio Giuliano Amato (Psi), è molto preoccupato. In luglio ha sollevato dall’incarico di direttore del Sismi, il generale Luigi Ramponi, futuro senatore di An, che nel 1995 spiegherà: “Volevano la mano libera”. Poi ha affrontato a muso duro il ministro Carlo Ripa di Meana rimproverandolo per il suo sostegno ai pm perché, come scriverà Ripa di Meana, “l’azione giudiziaria di Mani Pulite – come indicavano i servizi e il capo della polizia Vincenzo Parisi – era un pericolo per le istituzioni”.

A Palazzo Chigi infatti arrivano di continuo veline del Sisde, il servizio segreto civile in cui era arruolato Contrada, che monitora l’indagine assieme al secondo reparto della Guardia di finanza (gli 007 delle Fiamme Gialle). Un’attività “illegittima”, spiega il comitato, condotta spesso attraverso la cosiddetta “fonte Achille” che rimarrà per sempre anonima. Alcune di queste veline passano per le mani di Contrada che le riceve da un sottoposto. Leggendole è facile capire quali fossero i rapporti tra Di Pietro e i servizi. Loro erano gli spioni e lui lo spiato. A volte però nei documenti si trovano vere e proprie bufale. Contrada riceve, per esempio, note in cui viene dato per certo o un avviso di garanzia a Bobo Craxi, o il suo arresto. Mentre in una più credibile informativa datata 6 maggio si accenna invece a “una pista d’indagine appena aperta e concernente soggetti vicini all’onorevole Forlani”. Anche per questo, il Copaco , spiega che “vi sono state da più parti manovre per intromettersi nelle indagini, per conoscere il loro svolgimento [...] per esercitare un controllo illegittimo sui singoli magistrati e sulla loro vita, per costruire dossier che servivano a delegittimarli”. Specialisti in questo senso erano gli 007 del secondo reparto della Guardia di finanza che svolgevano “un complesso e intenso lavoro volto a raccogliere note informative sui magistrati (tra i quali il dottor Di Pietro, il dottor Colombo e altri)”. Nel 1994 questo materiale verrà poi in parte consegnato agli ispettori ministeriali di via Arenula da alcuni indagati. I documenti del Sisde, della Gdf più una serie di tabulati telefonici, verranno invece in parte usati da Craxi per costruire il suo “Poker” del ‘92 o una serie di veline anti Di Pietro poi scoperte in un un archivio dell’ex segretario del Psi. Dice il Comitato: “C’è una sinergia informativa tra le carte in possesso dell’ex presidente del Consiglio e questi documenti”. Su Di Pietro, poi, Craxi accumula “una serie cospicua di schede informative, idonee a gettare sospetti infamanti e a demolire l’immagine del magistrato. Esse riguardano l’intera carriera del dottor Di Pietro da quando era in polizia, le sue amicizie, una serie di vicende private in base alle quali vengono costruite accuse contro di lui”. Le stesse accuse, o quasi, che oggi il Corriere rilancia.

Incastrato Di Pietro: frequentava incensurati

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 4 febbraio 2010

di Marco Travaglio
(Giornalista)


Dopo 18 anni di indagini, finalmente l’hanno beccato: Di Pietro frequentava poliziotti, carabinieri, detective americani e persino un questore, Bruno Contrada, prima del suo arresto (si badi bene: prima, non dopo). Le prove che lo incastrano sono le foto di una cena con questa marmaglia il 15 dicembre 1992, foto che giustamente il Pompiere della Sera divenuto incendiario sbatte in prima pagina con gran dovizia di particolari: se Di Pietro avesse cenato con pregiudicati, piduisti, stallieri, corrotti, latitanti, escort sarebbe passato inosservato, anzi l’avrebbero beatificato con Craxi e il Banana. Ma frequentava incensurati, addirittura investigatori: uno scandalo. Il Giornale: “Di Pietro colto sul fatto: ora parli”. Libero: “Dossier Di Pietro. Le carte che spaventano Tonino”. Le foto, scattate dai carabinieri alla festa di Natale nella caserma del comando Legione di Roma davanti a un centinaio di reclute (luogo tipico per complottare lontano da occhi indiscreti), sono tratte da un libro che non esiste (l’editore Koinè dichiara al Giornale che “al momento c’è solo il contratto firmato e la bozza con molti omissis”) scritto da un ex dipietrista che ha denunciato 18 volte Di Pietro, ricavandone 18 archiviazioni che lo descrivono come un grafomane visionario. Dunque una fonte attendibile. Ce n’è abbastanza per riscrivere la storia di tutta Mani Pulite. I mejo segugi del bigoncio sono sguinzagliati alla bisogna. Feltri, reduce dai trionfi del caso Boffo, incalza: “Non sarà che Mani Pulite fu organizzata a tavolino per distruggere la Prima Repubblica, con annesso pentapartito, per assecondare interessi anche internazionali, cui non erano estranei gli Stati Uniti? Perché tutti i partiti finirono in galera e l’ex Pci finì al governo?”. A parte il fatto che dopo Mani Pulite al governo finì Berlusconi, il ragionamento fila: la Cia usa Di Pietro per demolire i partiti filoamericani e portare al governo l’ex Pci. Una mossa geniale che nemmeno il Kgb. Il pm fu poi ricompensato per gli alti servigi resi – rivela Il Giornale restando serio – “con un fermacarte con lo stemma dei servizi Usa”. Roba grossa. Ma non è finita: “Perché Di Pietro non avvertì Borrelli di essersi recato a cena con un capo dei servizi in odore di mafia?”. Giusto: il pm-medium avrebbe dovuto prevedere che Contrada sarebbe poi stato arrestato per mafia e avvertire il suo capo, che non aveva niente di meglio da fare che tenere la lista dei commensali dei suoi pm. E poi, interroga Feltri, “perché Tonino fu salvato dall’attentato e Borsellino no?”. Ecco: perché è ancora vivo? Si discolpi e confessi. A questo punto urge il parere di un esperto, infatti il Pompiere interpella il pregiudicato Enzo Carra: “E’ credibile che Di Pietro avesse rapporti coi servizi”. Il giornalista obietta che una normale cena con i carabinieri è un po’ pochino, ma Sherlock Carra estrae la pistola fumante: “Il fatto stesso che ne stiamo parlando dimostra che così normale non è…”. Un altro cane da trifole dall’olfatto fino, quello con le mèches, azzanna la preda su Libero. Prima scrive che il povero Arturo Parisi era nientemeno che “capo della Polizia”. Poi domanda abruciapelo: “Perché Gherardo Colombo non partecipò alla cena nell’ombra di una caserma?”. L’affare s’ingrossa. Di Pietro va a una cena e non ci porta Colombo. Avrà avuto qualcosa da nascondere, “nell’ombra di una caserma”, infatti lo nascose davanti a un centinaio di carabinieri. Ce n’è abbastanza per metterlo alle corde con dieci domande. Le ultime due del mèchato sono da ko: “9. Di Pietro, da magistrato, mantenne dei legami con un precedente mestiere? 10. Che mestiere?”. Qui l’occhiuto watchdog si tradisce e svela il suo maestro di giornalismo investigativo. Bernstein? Woodward? No, Totò con il vigile in piazza Duomo: “Noi vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare? Una semplice informazione”. E Totò con Fabrizi: “Mi dica un po’, lei è stato mai in qualche posto?”.

mercoledì 3 febbraio 2010

Urbanistica e affari nella Salerno di De Luca

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 3 febbraio 2010

di Enrico Fierro
(Giornalista)


Aprirà la campagna elettorale a Scampia, Gomorra, nel cuore dolente di Napoli, tra le Vele e le Case dei Puffi. Da lì inizierà la conquista della Campania di Vincenzo De Luca. “E non poteva essere diversamente, Vincenzo è un uomo che sa sfruttare come pochi i media. Ogni sua parola, ogni azione, tenderà a portarlo al centro della scena mediatica. Oggi in Campania si parla di lui, delle polemiche che la sua candidatura ha scatenato, non di Stefano Caldoro, il candidato della destra”. Marcello Ravveduto è un sociologo e conosce bene il sindaco di Salerno e il suo sistema di potere, “un populista che sa parlare alla gente comune e ai salotti, che sa conciliare relazioni importanti e contatti di massa. E' uno che piace anche alla destra più estrema”. Giugno 2006, De Luca ha spaccato il centrosinistra (Gianfranco Nappi, il segretario dei Ds che all'epoca si oppone alla sua candidatura, viene schiaffeggiato dai supporter del sindaco), annichilito la destra ed è ritornato alla guida della sua città, che aveva lasciato dopo due mandati e la conquista di uno scranno in Parlamento a Mario De Biase, un suo fedelissimo. A spoglio ultimato De Luca arriva in piazza Amendola dove migliaia di persone lo aspettano. Ha vinto col 56,5%. Il primo ad abbracciarlo è “Rafele 'o vichingo”, capo degli ultrà della Salernitana. I grandi elettori della destra si sono già congratulati pubblicamente. “Ho votato De Luca, del resto già al primo turno i nostri elettori avevano votato per lui”, dice Franco Russo, deputato di Forza Italia. Franco De Luca (non è parente), deputato del partito di Gianfranco Rotondi trattiene a stento le lacrime: “De Luca è il Sud che rialza la testa”. Nino Paravia, industriale e senatore di An: “Poche storie in questo voto c'è tanta destra”. Ecco perché oggi Gianni Lettieri, presidente di Confindustria Campania, può dire al Corriere del Mezzogiorno che “De Luca raccoglierà tanti voti anche a destra. E' un ottimo candidato, come sindaco ha dimostrato tanta capacità di spesa, rappresenta sicuramente la discontinuità rispetto ad una stagione politica fallimentare”. Lettieri è stato rinviato a giudizio insieme a De Luca per una vicenda di suoli e varianti al Prg. “Per me come per lui - risponde l'industriale che la destra aveva corteggiato come candidato alla regione e che corteggia ancora come futuro sindaco di Napoli - siamo di fronte al nulla”. La pensa esattamente allo stesso modo il segretario del Pd Pier Luigi Bersani: “De Luca indagato? E per cosa? Per aver difeso il posto di lavoro di 300 cassintegrati. Ha difeso l'interesse dei lavoratori”. Ormai è un mantra, che da Salerno a Roma i dirigenti del Pd si ripetono, alcuni con scarsa convinzione, per scacciare il fantasma della questione morale: paga per aver difeso i lavoratori. Le inchieste che hanno portato a processo De Luca sono tutte incentrate sulle varianti al Prg e sull'utilizzo delle aree della ex zona industriale. Sui suoli della Ideal Standard avevano deciso di costruire un grande parco acquatico, il più grande d'Europa. La fabbrica fallisce, 184 operai vanno a casa. Per Gabriella Nuzzi, il pm che inquisisce De Luca, l'ex sindaco De Biase, insieme con una lunga lista di tecnici e funzionari, la chiusura della fabbrica “è da inserire nell'ambito di una più complessa ed articolata strategia criminale funzionale all'acquisizione di aree per la realizzazione di illecite trasformazione del tessuto urbano e di speculazione immobiliare”. Nel 2001 il pentito di camorra Cosimo D'Andrea parla dell'interesse all'operazione dei clan casertani. “Si è mosso De Luca e i soldi si stanno prendendo iniquamente perché per regola non dovrebbero arrivare. Lì non vanno a fare l'acquario, ne va solo una minima parte, i lavori verranno iniziati e mai finiti”. Preveggenza di un pentito, la Gardaland dell'acqua non si farà mai, nonostante i nomi eccellenti che spuntano dietro l'affare. Commercialisti vicini a Emilio Gnutti, il finanziere bresciano di Unipol e Antonveneta, che a Salerno è già socio di Pierluigi Crudele. I suoi volano in città per l'affare parco e aprono la “It&S”, la sede è in un garage di via Fuorni. In un quartiere popolare a pochi passi dal carcere. Forse aveva ragione il pentito, perché il parco non si realizza, al suo posto viene progettata una centrale termoelettrica, nel frattempo De Luca e il sindaco De Biase vengono rinviati a giudizio per concussione e altri pesantissimi reati. Non hanno incassato tangenti, il loro scopo era quello di ottenere “un indiretto profitto da Energy Plus, la società incaricata di realizzare la centrale chiedendo in cambio lavori pubblici e segnalazione di ditte amiche”. Storie salernitane, dove chi tocca Piani regolatori e varianti rischia di bruciarsi le mani. “Ho il dubbio che il mio allontanamento dalla Campania - ha detto tempo fa il pm Gabriella Nuzzi - vada oltre la vicenda Salerno-Catanzaro. Durante il periodo in cui indagavo su De Luca avvennero gravi interferenze da parte dei vertici della Procura”. L'architetto Fausto Martino, assessore all'urbanistca nel 2003, era contrario allo stavolgimento del Prg e alle varianti. “De Luca e De Biase - si legge nelle carte dell'inchiesta - hanno costretto l'architetto Martino alle dimissioni, imponendogli quale condizione per il prosieguo del suo mandato, di sostenere o tollerare la scelta di non presentare al Consiglio comunale per la sua adozione il nuovo Piano regolatore della città, al precipuo scopo di impedire l'applicazione delle misure di salvaguardia previste dalla legge”.

IL MALE MINORE?

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 3 febbraio 2010

di Antonella Mascali e Sara Nicoli
(Giornaliste)


“Il male minore”. Solo un democristiano poteva spacciare per “senso dello Stato” un colpo così basso alla giustizia e al buonsenso. Ma proprio con queste due frasi ieri Pier Ferdinando Casini ha definito il legittimo impedimento, la leggina composta di soli tre articoli che consentirà al premier, ai ministri e alle più alte cariche dello Stato di non presenziare ai processi che li vedono coinvolti per 18 mesi. E’ una legge che serve solo a Berlusconi, a cui Casini ha garantito una sponda certa, anzi “un ponte tibetano”, come lui lo ha sempre chiamato, assumendosi la responsabilità di classificare il contenuto della legge come qualcosa da difendere “prima di tutto, senz’altro prima degli interessi personali”. Di lì, la “giustificazione politica” di un voto con la maggioranza che, altrimenti, giustificazione non avrebbe. E che appare ancora più ingiustificabile se considerato capace di “ rimuovere – sono sempre parole di Casini – il macigno che da 15 anni è l’alibi per non affrontare una vera riforma della giustizia”. Un’alchimia di parole che ha creato sgomento nell’Idv provocando la reazione, un po’ sopra le righe, di Francesco Barbato. Sull’onda di una rabbia fin troppo compressa, il parlamentare è sbottato bollando l’Udc come sigla per “Unione dei Casalesi”. “Mi pare davvero ipocrita l’atteggiamento dell’Udc che vuole giustificare” la legge “e pensa che si e’ cristiani solo andando a fare i ‘baciamani’ a papi e cardinali; mi sembrate il partito delle poltrone e delle polpette”. Fini ha stoppato il crescendo rossiniano di insulti, ma al di là del classico, pittoresco scontro verbale in aula, il dato politico della giornata di ieri resta lo stesso: l’Udc ha aiutato Berlusconi nella strada verso l’impunità, pur senza essere determinante. Il Cavaliere, ne siamo certi, saprà adeguatamente ricambiare, non appena se ne presenterà l’occasione.

Ma ieri alla Camera, dove l’iter della legge “ad premier” è andato avanti così spedito da consentire l’approvazione già oggi (alle 17, in diretta tv), si è anche marcata ulteriormente la distanza politica tra Pd e Udc. E malgrado il segretario Pd, Pier Luigi Bersani, con il consueto pragmatismo, abbia preferito non conferire al voto dei casiniani una valenza politica tale da ripercuotersi sulle alleanze già siglate in alcune regioni, la lacerazione c’è stata eccome. Lo ha spiegato, con la consueta chiarezza venata di salace ironia, il neo presidente Copasir, Massimo D’Alema: “Tra 18 mesi saremo di nuovo qui, visto che questa leggina non risolve nulla”. Quindi, rispondendo a Casini: “Se è un ponte, porta verso il nulla; tra 18 mesi Berlusconi sarà chiamato nuovamente in tribunale a rispondere di corruzione, a meno che noi qui non approveremo un’altra leggina o un altro imbroglio per aiutarlo’’. Ecco, appunto, un imbroglio. Che non cambia il senso politico della giornata, nè la realtà. E cioè che il legittimo impedimento è “un imbroglio, una sfida alla Corte costituzionale – è parola ancora di D’Alema – perché non c’è il minimo dubbio che stiamo riapprovando in un’altra forma, più furbesca, il lodo Alfano”. Oggi, dunque, il via libera definitivo, ma nel cuore della magistratura monta lo sdegno benché stavolta i magistrati debbano tenersi per sé quello che pensano perché è una legge che non tocca direttamente la funzionalità generale delle inchieste e dei processi. Molte toghe, fuori dalle dichiarazioni ufficiali, ragionano: perché la maggioranza trova sempre il tempo di far approvare leggi che servono al premier, ma non accoglie mai suggerimenti su riforme per la giustizia dei cittadini? Si danno anche la risposta: perché la giustizia efficiente non è un suo obiettivo. Anzi. L’indigestione da legittimo impedimento la esprime il presidente dell’Anm, Luca Palamara: “Non sta a noi giudicare il legittimo impedimento, è compito della politica, che deve assumersi le sue responsabilità e valutare, quando si fa una legge, se stia in una cornice costituzionale”. Nessuna dichiarazione ufficiale neppure dei consiglieri del Csm. Dietro l’ anonimato, però, alcuni si sono sbottonati. Due le correnti di pensiero, una, maggioritaria, che pensa sia il male minore se serve ad affossare il “disastroso” processo breve. L’altra è contraria perché ritiene che violi il principio dell’uguaglianza dei cittadini, sancito dall’articolo 3 della Costituzione. Ma la preoccupazione generale è sempre per il processo breve, tanto che ieri sera la sesta commissione del Csm ha deciso di voler redigere un nuovo parere perché quello negativo, “un’amnistia mascherata”, fornito a novembre, era sul vecchio testo. E quindi i vertici degli uffici giudiziari invieranno a Palazzo dei Marescialli nuovi dati basati sugli effetti che provocherebbe il processo breve allargato a tutti i reati, così come previsto dal testo approvato dal Senato.

“MI AVETE SCOPERTO: SONO JAMES TONINO BOND”

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 3 febbraio 2010

di Luca Telese
(Giornalista)


Senta, ma allora lo scriva… Se tutto questo è vero, se sono questo formidabile spione, vissuto in incognito per trent’anni, ma allora io sono il più grande agente segreto del Ventesimo secolo. Io non sono Mata Hari, sono Bond, James Tonino Bond!”. Ironico, sarcastico, ma anche terribilmente incazzato. Letteralmente, incazzato. Antonio Di Pietro ieri, era un fiume in piena. Il Corriere della Sera pubblica in prima pagina la foto di un pranzo del 1992 in cui lui compare – in un pranzo, in una tavola di sei persone, al fianco di Bruno Contrada, uno dei più famosi 007 italiani? Di un ufficiale – all’epoca numero tre del Sisde – che sarà arrestato solo nove giorni? La notizia diventa deflagrante perché si lega alle voci che circolano da anni, quella secondo cui l’ex pm avrebbe una seconda vita. Agente segreto, secondo qualcuno, addirittura uno degli uomini della Cia in Italia secondo una (auto)denuncia fatta dallo stesso Di Pietro: “Vogliono incastrarmi”. Insomma, in questo clima, e nell’umore in cui si trova, Di Pietro accetta di spiegare la sua verità e di ribattere, uno per uno, a tutti gli addebiti che gli fa uno dei suoi principali biografi (e critici) il giornalista Filippo Facci.

Onorevole Di Pietro, quando lei ha visto Il Corriere…

“Sono fuori dalla grazia di Dio”.

Vorrei farle un piccolo interrogatorio…

“Allora, se permette, le do qualche consiglio”.

Vorrei chiederle…

“Alt! Se è un interrogatorio, prima di iniziare mettiamo a verbale”.

Che cosa? Non le ho ancora chiesto nulla.

“Questo Di Domenico, ovvero l’uomo che Il Corriere considera attendibile a sostegno delle tesi fantastiche secondo cui io sarei un agente segreto, è un uomo che ha ricevuto ben 18 provvedimenti di diffida da parte dell’autorità giudiziaria! Diciotto, ha capito?”.

E cosa dicono questi provvedimenti?

“Che si tratta, cito testualmente, e le mando pure il fax, di un grafomane di pro-fes-sio-ne!”.

Lei lo ha denunciato?

“Denunciato? Gli hanno persino venduto all’asta la casa per pagare le spese processuali? Io le chiedo perché secondo lei il Corriere abbia fatto ricorso a una fonte così screditata”.

Lei stesso, però, ha preannunciato l’arrivo di queste accuse. Perché?

“Sì, perché sapevo che stava arrivando della spazzatura. Se dico che stanno arrivando dei veleni, mica questo significa che ci sia un qualche fondamento”.

I giornali pubblicano le notizie quando le valutano come tali.

“E allora io domando, pubblicamente. Quali sono le ragioni che spingono, ora, il Corriere della Sera, ad attingere a leggende metropolitane e testimonianze di gente screditata?”.

Cosa vuol dire?

“Che mi colpiscono a freddo. E che c’è un burattinaio che cura questa regìa”.

Non vorrà dire che De Bortoli è un burattinaio, non ci crede nemmeno lei.

“Allora c’è qualcuno che strumentalizza De Bortoli e Il Corriere contro di me, chiaro? Non è che sono obbligati a mettere in pagina tutto quello che passa”.

Quale sarebbe il movente?

“Si cerca di demolire politicamente e pubblicamente un soggetto non conforme ai poteri dominanti”.

Cioè lei.

“Mi scusi. Io giudico quello che leggo”.

Cosa intende dire?

“Ieri, sulla prima del Corriere della Sera, non si poteva leggere la notizia di Massimo Ciancimino, che racconta: la mafia investì i suoi soldi a Milano 2. Però c’era una mia foto del Natale del 1992, accompagnata da un pezzo che prova ad accreditare il tentativo di demolizione. Non c’era notizia, ha capito! Solo allusioni”.

Parliamo di questa benedetta foto, allora.

“Certo, non ho nulla da nascondere. Non ero mica in un bordello, circondato da veline, sa?”.

E dove si trovava, se lo ricorda?

“Ohhhh…. In una caserma dei carabinieri! Ha capito?”.

Ricorda i dettagli di quel giorno?

“Certo. Mi invitò il colonnello Tommaso Vitaliano, che oggi è uno stimato generale, non un latitante”.

E l’occasione quale era?

“Un evento tipico della Spectre… La cena degli auguri di Natale, con i suoi ufficiali”.

Nove giorni prima dell’arresto di Contrada.

“Esatto. Certo. Il problema, semmai, sarebbe se fosse stato nove giorni dopo! Che dice?”.

A quel tavolo è stato riconosciuto e identificato anche un agente della Kroll, agenzia legata ai servizi americani.

“Ho letto. Embè?”.

Le risulta?

“Senta, se lei vedesse tutti gli altri scatti, scoprirebbe che eravamo quasi cento, forse ottanta. Se le dico che con questo signore non credo di aver scambiato una parola mi crede?”.

Eravate il tavolo d’onore?

“Sì, ero al tavolo con quello che per me, e per tutti, era il Questore Contrada. Ma se anche avessi parlato con il signore della Kroll, non ci sarebbe niente da dirmi: non avevamo fatto nulla di male, né io né lui. Sarebbe un problema se fossi stato a una tavolata con Riina! Ma che paese è diventato, l’Italia”.

Senta, Di Pietro, tutto questo diventa singolare perché lei stesso denuncia il tentativo di darle della spia.

“C’era anche il colonnello Del Vecchio… c’erano ufficiali, sottufficiali, non era mica la mensa del Kgb. E nemmeno eravamo in un gradevole incontro di escort”.

Dicono che ci sono altre foto.

“Bene. Se me ne danno copia, le metto tutte sul sito e le commento una ad una”.

Tutto inizia dal fatto che lei si laurea bruciando le tappe…

“Lo conosco il teorema. Dicono: Di Pietro è stato aiutato, infiltrato, favorito per oscuri disegni. Mavvia”.

Facci scrive: lavorava, amministrava i condomini, e poi riesce a dare 32 esami in 21 mesi.

“Embè? Ma lo sanno come funziona l’università? Io ho seguito il piano di studi del corso di laurea, punto. Ci ho messo quattro anni esatti”.

I conti non tornano. O sbaglia lui, o sbaglia lei.

“Tornano, tornano… Non è che uno dà gli esami il primo giorno. La sessione dura sei mesi, a volte un anno… Mi sono fatto un mazzo così. Altro che titolo regalato!”.

Solo un anno prima era in Germania, a “Lucidare mestoli”, come scrive Facci. Poi torna in Italia e trova posto in una ditta legata al ministero della Difesa…

“Questa la devo raccontare. Ero uscito da scuola perito elettronico, specialista in comunicazioni…”.

Codici segreti?

“Mavaàà… Ha presente la famosa scuola Radio Elettra? L’unico codice con cui avevo dimestichezza era il molisano di Montenero di Bisaccia”.

Insomma, lei fa un concorso.

“ E mentre ero lì in Germania, a faticare, mi arriva una lettera di mia madre. Ci sono 2000 concorrenti, 36 posti…”.

Ma ricorda tutto così bene?

“Mi sono andato a rivedere le carte. Insomma, io come arrivo? Ultimo! E quindi non scelgo la sede. Niente Roma, mi mandano a Milano, prima legione aerea”.

A contatto con il servizio segreto dell’esercito in un sito militare, dicono…

“Ah, ah, ah… Lo sa cosa facevo? Il magazziniere. E poi l’ispettore”.

Ah, attività inquirente.

“Sì, certo. Il mio lavoro era verificare come e se, erano stati montati i pezzi che venivano caricati sulle bolle”.

Altra leggenda metropoli-tana che lei non ha mai smentito: Di Pietro era nella scorta di Dalla Chiesa.

“Ma per l’amor di dio! Ma quando, nel 1972? Nel 1973? Appena uscito da scuola? Magari”.

Quindi non è vero?

“Ma scusi, io mi metterei una medaglia al petto di essere stato al fianco, o di aver servito un uomo come Dalla Chiesa. Purtroppo non è vero, perché allora mi prenderei volentieri anche l’accusa di essere spione”.

Insomma: laurea normale. Facci ha trovato una testimone secondo cui lei vendeva anche gli appunti.

“Questa è una grande cazzata”.

Lo faceva anche Berlusconi.

“Guardi, se qualcuno capiva la mia grafia e il mio metodo glieli davo pure gratis. Ma questo cosa dimostrerebbe? Che facevo gli appunti per darmi una copertura? Ah, ah, ah…”.

Quindi nessun aiuto o aiutino.

“Ho fatto un sacco di cose di cui vado orgoglioso, mica solo quelle! Ho studiato di giorno e di notte, ho lavorato, ho vinto un concorso da segretario comunale prima, da magistrato poi. Altro che Cia, altro che Kgb. Un bel percorso per un contadinotto che già allora bisticciava con l’italiano”.

E poi c’è la famosa spedizione alle Seychelles, in cui lei da magistrato, va a caccia di latitanti…

“Quella è la ciliegina sulla torta. Siccome al film mancava Ursula Andres… ecco che vado a fare le operazioni sullo scenario di mare, con Ursula Andres al seguito. Ma questo, se non fosse tragico sarebbe uno scherzo”.

Quindi?

“Sa che le dico? Prima querelo tutti. Poi, prendo le carte processuali e ci faccio altri soldi”.

Come?

“Bè, appena leggono questo popò di romanzo, quelli ci fanno sopra un film. Gliel’ho detto, don Tonino Bond. Nel mio ruolo ci voglio Scamarcio”.