del 21 agosto 2009
di Pietro Orsatti
(Giornalista)
Al processo Mori-Obinu, il colonnello Riccio ricostruisce le fasi dell’accordo fra Provenzano e lo Stato. L’infiltrato Ilardo parlò di un contatto tra il numero due della Cupola e Dell’Utri: la nascita di Forza Italia interessava molto a Cosa nostra.
La storia racconta di un Bernardo Provenzano, negli anni dello stragismo di Cosa nostra, sempre più defilato e in disaccordo con Totò Riina. Talmente lontano dal padrone di quello che era diventata l’organizzazione mafiosa dopo la “mattanza” degli anni 70 e 80 da cercare in pezzi dello Stato una “relazione” strategica. E non è difficile addirittura ipotizzare una sua “collaborazione” nella cattura di Riina nel ’93. Queste ipotesi di una strategia di Binnu Provenzano in totale rottura con il capo della Cupola mafiosa si nascondono nelle pieghe di uno dei processi più clamorosi e contemporaneamente più invisibili degli ultimi decenni, quello al generale dei Ros (ed ex capo del Sismi) Mario Mori e al capitano Mario Obinu. Ad accusarli per il mancato arresto di Provenzano nel 1995 è stato un altro ufficiale dei carabinieri, il colonnello Michele Riccio. Al centro delle dichiarazioni di Riccio la famosa trattativa fra Stato e Cosa nostra, il famigerato “papello”, e il bagno di sangue delle stragi del ’92. E la testimonianza, e la morte, di un collaboratore, Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia. Affidato direttamente a Riccio del quale diventa confidente, Ilardo venne infiltrato nell’ambiente mafioso di provenienza. L’ex boss nisseno riuscì perfino ad avvicinare Bernardo Provenzano, ottenendo un appuntamento il 31 ottobre 1995 in una cascina a Mezzojuso. Nonostante Ilardo avvisasse dell’occasione unica non si presentò nessuno ad arrestare Binnu consentendone la fuga. «Informai il colonnello Mori - ha dichiarato al processo Riccio -. Lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché non me lo dimenticherei mai, non vidi nessun cenno di interesse dall’altra parte». Riccio era sul posto, avrebbe potuto intervenire immediatamente appena avuto il via libera dal capo dei Ros in Sicilia. «Mi disse che preferiva impegnare i propri strumenti, dei quali al momento era sprovvisto - prosegue Riccio nel suo racconto -. Noi eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire». L’ ufficiale ha parlato anche di un incontro a Roma fra il collaboratore e il colonnello. «Quando lo portai da Mori, Ilardo gli disse: “In certi fatti la mafia non c’entra, la responsabilità è delle istituzioni e voi lo sapete”. Io raggelai». E Binnu, sfuggito alla cattura, sparì per altri 11 anni. Dopo qualche mese Ilardo venne ucciso a Catania pochi giorni prima del suo ingresso “ufficiale” nel programma di protezione speciale per i collaboratori. Qualcuno sospetta grazie a una “spiata”. E Riccio, poi, ricorda come i nomi dei politici fatti da Ilardo venissero in seguito “stralciati” nella stesura del documento “Grande Oriente” proprio su richiesta di Mori. Uno fra tutti, quello di Marcello Dell’Utri. Ilardo aveva parlato esplicitamente di un contatto tra Provenzano e Dell’Utri, «l’uomo dell’entourage di Berlusconi», e di un «progetto politico», la nascita di Forza Italia, che interessava ai vertici della Cupola mafiosa. E motore di quel nuovo progetto politico, non a caso, era proprio l’allora capo di Publitalia. Riccio ha raccontato in aula nel 2002 di un incontro con l’avvocato Taormina e Marcello Dell’Utri: «Nello studio del professor Taormina mi venne detto che sarebbe stato positivo per il senatore Dell’Utri se nella mia deposizione avessi escluso che era emerso il suo nome nel corso della mia indagine siciliana. Io non risposi e rimasi sbalordito».
Dopo le dichiarazioni di Riccio che hanno aperto il processo a Mori e Obinu, oggi si aggiunge il nuovo dichiarante Massimo Ciancimino (figlio di Vito, il sindaco del “sacco di Palermo”), che a settembre testimonierà anche nel processo in secondo grado a Marcello Dell’Utri. «Ero presente - ha dichiarato Massimo Ciancimino ai magistrati - quando a mio padre venne consegnato il papello». Un documento di peso, e che Vito Ciancimino avrebbe definito come “non accettabile” nella sua interezza valutando che solo alcuni punti potevano essere discussi e divenire nodi di un’eventuale trattativa. Sempre secondo “Massimino” il documento venne comunque consegnato dal padre al capitano De Donno e al generale Mori. Non solo: don Vito, nel racconto del figlio, indicò con mappe catastali alla mano (e documenti relativi ad allacci dell’acqua, luce e gas) l’abitazione di Totò Riina. La stessa abitazione che dopo l’arresto del capo mafioso non venne perquisita permettendo di conseguenza non solo la fuga (o meglio il trasloco) della moglie di Riina e dei figli ma addirittura la totale rimozione di ogni documento e traccia. Operazione eseguita, come emerse in seguito dal racconto di alcuni pentiti, da Leoluca Bagarella. Per questa mancata perquisizione, Mori e il comandante “Ultimo” (l’ufficiale che eseguì la cattura del boss) vennero rinviati a giudizio e in seguito assolti ma la stranezza della circostanza, unita alla vicenda delle dichiarazioni di Riccio e Ciancimino e della mancata cattura di Provenzano, lascia troppi interrogativi aperti. Interrogativi che si amplificano ancora di più quando Massimo Ciancimino ricorda come don Vito «alla fine morì con la consapevolezza di essere stato scavalcato e che qualcuno avesse preso in mano la trattativa mantenendo certi accordi».
E torniamo a Provenzano, l’uomo della sommersione di Cosa nostra, colui che in molti ritengono abbia tradito e consegnato il suo capo, e amico fin dall’infanzia, Totò Riina. È sempre più pressante il sospetto che oltre alla trattativa del “papello”, quella delle richieste “non accettabili” avanzate da Totò Riina, contemporaneamente Binnu ne aprisse un’altra, più realistica e spregiudicata. Si smette di sparare, si buttano in cella tutti quelli che non vogliono deporre le armi e si fanno affari come “ai vecchi tempi”. A riaccendere i riflettori sull’anziano boss in carcere dal 2006 non sono solo le dichiarazioni di Riccio e Ciancimino jr ma anche le ultime rivelazioni emerse da un vecchio rapporto dei servizi segreti tedeschi, oggi ripreso dal dossier del Bka (la polizia criminale) sulla penetrazione delle mafie italiane in Germania e rilanciato in Italia dal quotidiano l’Unità. Secondo il documento, Provenzano aveva richiesto direttamente alla ’ndrangheta calabrese di acquistare una grossa quantità di esplosivo, poi utilizzato per la strage di via D’Amelio dove persero la vita Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. E l’acquisto avvenne proprio in Germania dove i clan calabresi erano penetrati da tempo. Il rapporto parla esplicitamente di «ingenti quantitativi di esplosivo ad alto potenziale di provenienza militare» ordinati dai clan di Palermo. Borsellino andava spesso a Francoforte all’epoca perché impegnato nelle indagini sull’assassinio del magistrato Rosario Livatino nel 1990, visto che risultava che i killer del magistrato avevano trovato rifugio e appoggi in Germania. Dopo uno dei suoi viaggi, per verificare anche una pista sulla strage di Capaci, Borsellino aveva dichiarato ad alcuni amici: «Il tritolo è arrivato anche per me, lunedì scorso». E mentre nessuno impediva che la strage avvenisse, addirittura evitando che venisse messo in via D’Amelio quel divieto di sosta richiesto da scorta e magistrato da mesi, Provenzano, da bravo “ragioniere” di Cosa nostra, pianificava l’acquisto di quintali di sintex. In silenzio, aspettando solo il momento giusto. Che arrivò, puntualmente, la domenica del 19 luglio 1992.
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