mercoledì 3 febbraio 2010

TRATTATIVA DELL’UTRI

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 3 febbraio 2010

di Giuseppe Lo Bianco
(Giornalista)


Trattativa mafia-Stato, atto secondo: a dicembre del ’92 esce di scena don Vito Ciancimino, arrestato dalla polizia (“fu una trappola dei carabinieri’’) e nell’aula bunker dell’Ucciardone di Palermo il figlio Massimo pronuncia il nome del suo sostituto, l’uomo chiamato a garantire l’equilibrio del sistema politico-affaristico-mafioso nel dopo stragi: il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri, con cui “il boss Provenzano, mi disse mio padre, aveva un rapporto diretto’’. Le prove? I progetti che il mese precedente don Vito, Binu e il misterioso signor Franco discutevano nei loro incontri per convogliare i voti di una Dc in disfacimento in una nuova formazione politica garantendo così continuità elettorale al sistema. E poi la mancata perquisizione del covo di Riina da parte del Ros, in occasione del suo arresto, che “fu un’idea di mio padre, una sorta di onore delle armi, per consentire alla famiglia di Riina di tornare a casa, e ai mafiosi di far sparire documenti compromettenti. Mio padre mi disse: sono le mie condizioni, le stanno attuando, mi hanno scaricato’’. Non ha deluso neanche ieri, Massimo Ciancimino, che nella sua seconda tornata di deposizioni ha ripercorso come una spy story le tappe della trattativa, ricostruita anche documentalmente con i pizzini recapitati da Binu a suo padre letti e analizzati in aula. Uno scenario che lui ha diviso in due parti, la “fase uno’’, con suo padre e Provenzano impegnati ad arginare la furia al tritolo del “capo dei capi”, e la “fase due’’, dopo la strage di via D’Amelio, quando si abbandona l’idea della resa dei latitanti e si punta alla cattura di Riina, sempre più deciso ad azionare il pedale stragista perché “pressato’’, dice il testimone, da un misterioso “architetto”, lo stesso che gli metteva in testa le “minchiate’’ stragiste. E nella fase due, secondo Massimo, si abbandonano anche i referenti istituzionali Mancino e Rognoni per avvertire dell’offerta di catturare Riina Luciano Violante “l’unico in grado di condizionare i magistrati, per salvare il patrimonio oggetto della misura di prevenzione. Nonostante fosse nemico, mio padre ne riconosceva la capacità’’. Secca la replica di Violante: “Il generale Mori mi disse che Ciancimino voleva parlarmi, chiesero di incontrarmi anche Cutolo e Vittorio Mangano – ha dettato alle agenzie – ma fra persone perbene si può mediare, altrimenti meglio evitare’’. In mezzo uno scenario in cui ogni attoreistituzionale sembra fare a gara per favorire i protagonisti dell’universo mafioso, dai salvacondotti concessi a Provenzano per garantire la “sommersione’’ di Cosa Nostra, “perché se non ci fosse stato lui, mi disse mio padre, sarebbe arrivato uno ancora più terribile’’, alla cassaforte di casa sua con dentro il “papello”, che i carabinieri non vollero aprire durante la perquisizione dell’Addaura (episodio su cui indaga la procura), al provvidenziale avvertimento, ricevuto da lui stesso da un emissario del signor Franco, che gli consigliò di mettere al sicuro i documenti del padre perchè di lì a poco sarebbe stato arrestato. Per questo, Ciancimino jr. portò in Svizzera le carte, finendo, al suo ritorno, in carcere. Fino all’interessamento di Dell’Utri e di Cuffaro (citati in un pizzino del 2000 come “il nostro senatore” e “il nostro presidente’’, con il primo a rispondere “è solo fango su di me e su Berlusconi”) per un provvedimento di clemenza per i detenuti mafiosi che avrebbe potuto agevolare don Vito. E se Dell’Utri in quel momento è un deputato e non un senatore, è lo stesso teste a chiarire che “Provenzano chiamava tutti senatori’’.

Una spiegazione che non convince il generale Mori che, a quel punto, lascia l’aula mormorando: “Questo è davvero troppo’’. Il generale assiste, invece, al racconto del successo maggiore della sua carriera fatto da Ciancimino jr. in chiave di spy story, con il padre intento a maneggiare i “pizzini” di Provenzano con guanti monouso immersi nel borotalco per non lasciare impronte, subito foto-copiati e poi archiviati. “A novembre del ’92 – dice Massimo – vengono richiesti ai carabinieri una serie tabulati di utenze telefoniche, gas, luce, acqua , e piantine catastali dell’area di Palermo dove stava Riina. De Donno mi consegnò questi tabulati e un grosso tubo giallo con le mappe della città di Palermo. La prima parte me la consegnò a Roma, la seconda lo portò a casa di mio padre

che scartò vari quartieri e si concentro nella zona che da Baida arriva fino a sotto via Leonardo da Vinci. Mi disse ‘va bene così’. Li fotocopiai, e mio padre mi disse di portarle a Palermo, con un biglietto di accompagnamento. Ho consegnato la lettera e la busta all’ing. Lo Verde, alias Provenzano. Questa documentazione viene restituita con le indicazioni, era cerchiata una zona ben precisa di Palermo, poi col pennarello erano evidenziate delle utenze telefoniche. Era il covo di Riina’’. Ma don Vito venne arrestato il 19 dicembre, e Massimo non fa in tempo a consegnare il tutto a De Donno. “In carcere mio padre mi telefonò con il cellulare di De Donno e mi disse di dare le mappe all’ufficiale. Io obbedii, poi mio padre capii che era stato giocato. Usato e scaricato. La trattativa aveva trovato un nuovo interlocutore’’.

Nessun commento:

Posta un commento