Dal Blog Uguale per Tutti
del 15 settembre 2009
di Michele Leoni
(Giudice del Tribunale di Forlì)
La norma del disegno di legge 1611 (che contiene il nuovo testo sulle intercettazioni telefoniche e che il Parlamento dovrebbe discutere in autunno), secondo la quale solo in presenza di “evidenti indizi di colpevolezza” si potrebbe procedere a intercettazioni, salvi i casi di reati particolarmente gravi (quelli di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ossia mafia, terrorismo, prostituzione minorile e altri) per i quali basterebbero sufficienti indizi di reato, ha sollevato obiezioni critiche piuttosto ovvie.
Anzitutto ci si è chiesti come lo stesso presupposto che sta alla base di una misura cautelare e anche di una sentenza di condanna, ossia gli evidenti (rectius, gravi) indizi di colpevolezza, possa essere, nel contempo, quello che consente l’inizio di un’attività di ricerca della prova.
In effetti è un nonsense. Se già vi è una persona gravemente indiziata, che bisogno c’è, ormai, di intercettarla?
E inoltre, occorre che vi sia già un indiziato grave per intercettare altre persone?
Secondo quale logica si potrebbe intercettare una persona non indiziata solo se vi è già una persona indiziata?
Quale principio si nasconderebbe dietro questa regola?
Non v’è traccia di un simile principio nel sistema penale, e tanto meno nella Costituzione. Non dovrebbe quindi essere così.
Qui già si annida un vizio di ragionevolezza.
Ma per capire meglio, è bene spostare la questione su un piano un po’ più tecnico.
Partiamo da una considerazione semplice. Come detto, l’ammissibilità delle intercettazioni viene graduata assumendo presupposti diversi, la colpevolezza (per i reati meno gravi) e il fatto-reato (per i reati più gravi). Ossia, presupposti eterogenei.
Sappiamo tutti che la colpevolezza è un dato soggettivo che riguarda la persona, il reato un dato ontologico che si identifica nel fatto.
La Corte Costituzionale, è bene ricordarlo, in una sentenza ormai storica (richiamata più volte dalla stessa Corte nella propria giurisprudenza sulle intercettazioni), la n. 34 del 1973, ha affermato che nell’art. 15 della Costituzione “trovano protezione due distinti interessi, quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale”.
Il bilanciamento, quindi, è fra tutela della privacy e necessità di reprimere reati, ossia fatti.
La stessa Corte Costituzionale, di recente (sentenza n. 455 del 2006), in relazione ad alcune norme di procedura penale (ammissione al patteggiamento, proroga delle indagini), ha poi ricordato che “il trattamento (processuale) più o meno rigoroso da riservare alle singole fattispecie criminose” deve essere “connesso all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale”.
Il sindacato di legittimità costituzionale, ha aggiunto la Corte, potrà qui intervenire “allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione”.
Bene. Va da sé che una rapina genera lo stesso allarme sociale a prescindere dal fatto che già si sappia chi potrebbe essere il colpevole o non lo si sappia.
Anzi, fino a quando un criminale resta ignoto, l’allarme sociale dovrebbe essere maggiore.
Com’è possibile allora agganciare il livello di allarme sociale destato dal reato a una circostanza estrinseca ed eventuale quale l’individuazione di un indiziato grave?
Significherebbe affermare che, prima di questa individuazione, l’allarme sociale era minore. Qui la logica va a farsi benedire.
Se il fatto reato è quello, l’allarme sociale che esso genera è sempre lo stesso.
Il risultato quindi è un altro vizio di ragionevolezza che si traduce in una lesione del principio di uguaglianza: regimi investigativi diversi a fronte dello stesso presupposto, ossia un fatto che desta un allarme sociale tipico e richiederebbe sempre la stessa tutela sociale.
Ma non è finita qui.
Veniamo ai procedimenti nei confronti di ignoti. Qui, chiaramente, non vi può essere, in radice, alcun indiziato.
La nuova normativa se la cava prevedendo che le intercettazioni possano essere autorizzate solo su richiesta della persona offesa e sulle utenze di questa.
Sorge quindi spontanea la domanda: che fare nel caso di procedimenti contro ignoti per reati dove, strutturalmente, non vi può essere persona offesa? Tipo lo spaccio di stupefacenti? La risposta è che non vi sarà alcuna possibilità di intercettazione.
E ancora, che fare nel caso di reati, tipo la corruzione, in cui persona offesa è lo Stato? Ossia tutti e nessuno?
La risposa è la stessa: non sarà possibile alcuna intercettazione.
Si profila quindi un ennesimo vizio di ragionevolezza sotto forma della disparità di trattamento.
Si potrà intercettare laddove l’allarme sociale sia inferiore rispetto ad altri casi in cui è più alto per il solo fatto che in questi ultimi non è concepibile l’identificazione di una persona offesa.
Per concludere, una considerazione di forte impatto emotivo.
Facciamo l’ipotesi del rapimento di un bambino da parte di un pedofilo o di un trafficante di organi. Art. 605 codice penale, per intendersi.
Le intercettazioni sarebbero l’unico strumento per potere salvare il bambino, ma non sarebbero possibili.
Non si potrebbe intercettare, ad esempio, il proprietario di un’auto sospetta che è stata vista circolare nei pressi del piccolo, o qualcuno che gli aveva riservato delle attenzioni inconsuete. Non si potrebbe inseguire alcuna traccia possibile.
Solo gli esercenti la potestà genitoriale potrebbero essere intercettati, dietro loro richiesta.
Ma nessuno, sapendolo in partenza, sarebbe tanto stupido da telefonare a loro. Morale, con le nuove norme il bambino sarebbe abbandonato a sé stesso.
Perché tutto questo? A vantaggio di quale interesse meritevole di maggior tutela?
del 15 settembre 2009
di Michele Leoni
(Giudice del Tribunale di Forlì)
La norma del disegno di legge 1611 (che contiene il nuovo testo sulle intercettazioni telefoniche e che il Parlamento dovrebbe discutere in autunno), secondo la quale solo in presenza di “evidenti indizi di colpevolezza” si potrebbe procedere a intercettazioni, salvi i casi di reati particolarmente gravi (quelli di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ossia mafia, terrorismo, prostituzione minorile e altri) per i quali basterebbero sufficienti indizi di reato, ha sollevato obiezioni critiche piuttosto ovvie.
Anzitutto ci si è chiesti come lo stesso presupposto che sta alla base di una misura cautelare e anche di una sentenza di condanna, ossia gli evidenti (rectius, gravi) indizi di colpevolezza, possa essere, nel contempo, quello che consente l’inizio di un’attività di ricerca della prova.
In effetti è un nonsense. Se già vi è una persona gravemente indiziata, che bisogno c’è, ormai, di intercettarla?
E inoltre, occorre che vi sia già un indiziato grave per intercettare altre persone?
Secondo quale logica si potrebbe intercettare una persona non indiziata solo se vi è già una persona indiziata?
Quale principio si nasconderebbe dietro questa regola?
Non v’è traccia di un simile principio nel sistema penale, e tanto meno nella Costituzione. Non dovrebbe quindi essere così.
Qui già si annida un vizio di ragionevolezza.
Ma per capire meglio, è bene spostare la questione su un piano un po’ più tecnico.
Partiamo da una considerazione semplice. Come detto, l’ammissibilità delle intercettazioni viene graduata assumendo presupposti diversi, la colpevolezza (per i reati meno gravi) e il fatto-reato (per i reati più gravi). Ossia, presupposti eterogenei.
Sappiamo tutti che la colpevolezza è un dato soggettivo che riguarda la persona, il reato un dato ontologico che si identifica nel fatto.
La Corte Costituzionale, è bene ricordarlo, in una sentenza ormai storica (richiamata più volte dalla stessa Corte nella propria giurisprudenza sulle intercettazioni), la n. 34 del 1973, ha affermato che nell’art. 15 della Costituzione “trovano protezione due distinti interessi, quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale”.
Il bilanciamento, quindi, è fra tutela della privacy e necessità di reprimere reati, ossia fatti.
La stessa Corte Costituzionale, di recente (sentenza n. 455 del 2006), in relazione ad alcune norme di procedura penale (ammissione al patteggiamento, proroga delle indagini), ha poi ricordato che “il trattamento (processuale) più o meno rigoroso da riservare alle singole fattispecie criminose” deve essere “connesso all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale”.
Il sindacato di legittimità costituzionale, ha aggiunto la Corte, potrà qui intervenire “allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione”.
Bene. Va da sé che una rapina genera lo stesso allarme sociale a prescindere dal fatto che già si sappia chi potrebbe essere il colpevole o non lo si sappia.
Anzi, fino a quando un criminale resta ignoto, l’allarme sociale dovrebbe essere maggiore.
Com’è possibile allora agganciare il livello di allarme sociale destato dal reato a una circostanza estrinseca ed eventuale quale l’individuazione di un indiziato grave?
Significherebbe affermare che, prima di questa individuazione, l’allarme sociale era minore. Qui la logica va a farsi benedire.
Se il fatto reato è quello, l’allarme sociale che esso genera è sempre lo stesso.
Il risultato quindi è un altro vizio di ragionevolezza che si traduce in una lesione del principio di uguaglianza: regimi investigativi diversi a fronte dello stesso presupposto, ossia un fatto che desta un allarme sociale tipico e richiederebbe sempre la stessa tutela sociale.
Ma non è finita qui.
Veniamo ai procedimenti nei confronti di ignoti. Qui, chiaramente, non vi può essere, in radice, alcun indiziato.
La nuova normativa se la cava prevedendo che le intercettazioni possano essere autorizzate solo su richiesta della persona offesa e sulle utenze di questa.
Sorge quindi spontanea la domanda: che fare nel caso di procedimenti contro ignoti per reati dove, strutturalmente, non vi può essere persona offesa? Tipo lo spaccio di stupefacenti? La risposta è che non vi sarà alcuna possibilità di intercettazione.
E ancora, che fare nel caso di reati, tipo la corruzione, in cui persona offesa è lo Stato? Ossia tutti e nessuno?
La risposa è la stessa: non sarà possibile alcuna intercettazione.
Si profila quindi un ennesimo vizio di ragionevolezza sotto forma della disparità di trattamento.
Si potrà intercettare laddove l’allarme sociale sia inferiore rispetto ad altri casi in cui è più alto per il solo fatto che in questi ultimi non è concepibile l’identificazione di una persona offesa.
Per concludere, una considerazione di forte impatto emotivo.
Facciamo l’ipotesi del rapimento di un bambino da parte di un pedofilo o di un trafficante di organi. Art. 605 codice penale, per intendersi.
Le intercettazioni sarebbero l’unico strumento per potere salvare il bambino, ma non sarebbero possibili.
Non si potrebbe intercettare, ad esempio, il proprietario di un’auto sospetta che è stata vista circolare nei pressi del piccolo, o qualcuno che gli aveva riservato delle attenzioni inconsuete. Non si potrebbe inseguire alcuna traccia possibile.
Solo gli esercenti la potestà genitoriale potrebbero essere intercettati, dietro loro richiesta.
Ma nessuno, sapendolo in partenza, sarebbe tanto stupido da telefonare a loro. Morale, con le nuove norme il bambino sarebbe abbandonato a sé stesso.
Perché tutto questo? A vantaggio di quale interesse meritevole di maggior tutela?
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