mercoledì 2 settembre 2009

Lodo Bernardo, un bavaglio alla Corte dei Conti

Dal Sito L'Antefatto
del 1 settembre 2009

di Sandra Amurri
(Giornalista)



Quasi in silenzio, senza suscitare alcun clamore, di fronte ad un’opinione pubblica sempre meno informata e, dunque, inconsapevole, nel Dl anti-crisi è passato un altro emendamento che riduce l’iniziativa della magistratura, questa volta, della Corte dei Conti.

Stiamo parlando del Lodo Bernardo che prende il nome dal suo promotore, l’ onorevole Pdl, Maurizio Bernardo del Pdl , che, subordinando l’avvio di una indagine ad una “specifica e precisa notizia di danno, impedisce alle procure regionali della Corte dei Conti di attivare indagini sui danni erariali in assenza di una denunzia formale che dovrebbe essere fatta dall’ amministrazione competente che subisce il danno, amministrata dalle persone che il danno l’hanno causato".

Comportando, così, di fatto, lo svuotamento della funzione del pubblico ministero, il cui potere di direttiva delle indagini viene in tal modo trasferito al Governo. A creare il danno erariale sono spesso i dirigenti, nominati dai politici-amministratori, e secondo il Lodo Bernardo le denunce le dovrebbero fare i politici-amministratori che hanno nominato i dirigenti. Sarebbe come dormire sonni tranquilli sapendo che a guardia del pollaio ci sono le volpi. Si potrebbe opporre che le denunce potrebbero farle i politici-amministratori che, dopo cinque anni, subentrino per avvenuto rinnovo del Consiglio Regionale, provinciale, regionale o comunale. Certamente, ma il reato di danno erariale arrecato allo Stato non sarebbe perseguibile in quanto prescritto, visto che la prescrizione cade dopo 5 anni.

Risultato: nessun controllo né di legalità né di merito né preventivo né successivo, e via libera al saccheggio “legalizzato” delle casse pubbliche. C’è chi sostiene che il Lodo Bernardo abbia un intento punitivo nei confronti della Corte dei Conti che, ha osato promuovere un’azione di risarcimento per danni erariali, per un ammontare di svariati milioni di euro nei confronti dell’ex Presidente della regione Sicilia, Cuffaro e dell’attuale Presidente Lombardo, per l’ingiustificata assunzione di oltre 25 giornalisti dell’ ufficio stampa. Cuffaro e Lombardo che ora potranno avvalersi di questa eccellente novità normativa. E c’è chi aggiunge che alla Corte dei Conti non sia stato perdonato di essersi messa di traverso di fronte alle ipotesi di scudo fiscale, di Tremonti, scudo fiscale, divenuto legge con il Dl anti-crisi.

Sta di fatto che il Lodo Bernardo sta già producendo i suoi effetti devastanti, molte amministrazioni, infatti, alla richiesta delle Procure della Corte dei Conti di acquisizione di atti o di note istruttorie, eccepiscono la nullità della richiesta davanti alla sezione giurisdizionale della Corte per mancanza della denuncia di danno erariale.

Carceri, giustizia e separazione delle carriere: la ricetta Perduca spiegata a La7

Dal Blog Toghe Rotte
del 1 settembre 2009

di Bruno Tinti
(Ex Procuratore della Repubblica Aggiunto di Torino)



Il 27 agosto il Telegiornale de La 7 ha ospitato, come è sua (apprezzabile) tradizione, il senatore Marco Perduca; come apprendo da Google, Perduca appartiene al gruppo radicale anche se è stato eletto nelle liste del PD. Digiuno come sono di questi meccanismi squisitamente politici, non capisco bene come una persona che si candida nelle liste di un partito che si oppone allo schieramento di maggioranza, una volta eletto possa cambiare idea e, folgorato come Paolo sulla via di Damasco, passi dalla parte del vecchio avversario; ma tant’è, così è andata.

L’argomento che il senatore Perduca ha trattato è stato quello carcerario, di cui dice di avere buona esperienza avendo passato l’estate, a quanto si è capito, a visitare le carceri italiane. E ha detto che queste carceri sono superaffollate perché ci sono circa 64.000 detenuti e solo circa 41.000 posti. Niente di nuovo, lo sappiamo da molti anni, in particolare dal luglio 2006, quando l’argomento è stato utilizzato come pretesto per un indulto calibrato sulla necessità di far evadere Previti dalla detenzione dorata nel suo mega appartamento di Piazza Farnese a Roma. Da allora, sorprendentemente (?), nulla è stato fatto per risolvere il problema; in particolare non è stato costruito alcun nuovo carcere, il che, come ognuno capisce, è una delle prime cose da fare per una situazione di questo tipo. Forse perché, in realtà, il senatore Perduca ha altre soluzioni in carniere. E, approfittando dell’ospitalità de La 7, le ha spiegate agli italiani.

Ecco, per risolvere il problema carcerario, secondo Perduca, ci va una riforma completa della giustizia e, in particolare, la separazione delle carriere (tra giudici e pubblici ministeri) e la discrezionalità dell’azione penale.

Come spesso succede ai nostri Soloni (Solone era un grande legislatore ateniese vissuto circa 500 anni prima di Cristo; speriamo che non si offenda per questo azzardato paragone), di spiegare in cosa consistano queste due epocali riforme non se ne parla; eppure, se uno non ha una qualche competenza giuridica, cosa voglia dire “separazione delle carriere” e “discrezionalità dell’azione penale” proprio non lo capisce. Sono sempre restato nel dubbio se la costante mancata spiegazione di una così profonda riforma costituzionale si debba all’ignoranza dei molti che ne parlano senza sapere bene quello che dicono; oppure se si tratti di una scelta voluta: perché, se i cittadini sapessero davvero cosa questa gente propone, la caccerebbe via alle prime elezioni disponibili.

Sia come sia, separazione delle carriere vuol dire che i giudici restano a fare i giudici e i pubblici ministeri, che adesso sono magistrati anche loro, diventano “avvocati della polizia” (la definizione è di Berlusconi). Questo significa che, oggi, i pubblici ministeri (che di mestiere fanno le indagini) sostengono l’accusa solo per quelli che ritengono colpevoli; poi il giudice deciderà se condannarli o no. Una sorta di doppio filtro: prima un magistrato PM che indaga solo quelli che ritiene colpevoli e che chiede l’assoluzione per quelli che ritiene innocenti; e poi un magistrato giudice che (di questi) condanna solo quelli che anche lui ritiene colpevoli e assolve quelli che ritiene innocenti. Domani, se passa questa riforma (che è una riforma costituzionale perché la Costituzione prevede appunto una cosa diversa) i pubblici ministeri faranno come qualsiasi avvocato: il loro cliente sarà lo Stato (la Polizia, i CC, la GdF); il loro mestiere sarà quello di difendere le tesi dello Stato davanti ai giudici. Il problema è che lo Stato non dà molte garanzie di imparzialità: sia in certi casi, quando il colpevole è un amico o un amico degli amici (pensiamo a Previti, allo stesso Berlusconi, agli imputati del processo Abu Omar); sia in certi altri, quando il colpevole (presunto) è un avversario politico che fa tanto comodo eliminare. Ecco, in questi casi, il pubblico ministero non avrà scelta: davanti al giudice non sosterrà la tesi giusta (o quella che lui, in piena indipendenza, crede tale) ma quella che gli verrà imposta dallo Stato. Con tanti saluti per l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

La discrezionalità dell’azione penale si posiziona nel medesimo filone: è uno strumento per selezionare i processi che si fanno e quelli che non si debbono fare. Con regolari scadenze, magari ogni anno, il Parlamento o un organo appositamente costruito dalla politica, stabilirà per quali reati si debbono fare i processi e quali invece possiamo lasciar perdere. Oggi non è così: la nostra Costituzione dice che l’azione penale è obbligatoria, cioè per ogni reato si deve fare un processo: che sia un furto in alloggio o il falso in bilancio di Berlusconi. Naturalmente tutto sta nel vedere per quali reati si stabilirebbe che si debbono fare i processi: e che la politica preveda che i reati che le sono abituali (corruzione, frode fiscale, falsi in bilancio, peculati etc.) debbano essere processati credo sia eventualità molto remota.

Adesso che i termini della questione dovrebbero esserci più familiari (speriamo), possiamo tornare alla ricetta Perduca. Ha detto dunque il senatore che, se si procederà alla separazione delle carriere e alla discrezionalità dell’azione penale, il problema carcerario sarà risolto.

Ora, sempre il senatore Perduca dovrebbe cortesemente spiegarci in che modo la separazione delle carriere dovrebbe consentire questo mirabolante risultato. Un PM “avvocato della Polizia”, in teoria, dovrebbe sostenere l’accusa in un numero di processi molto maggiore di quanto non faccia ora il PM-magistrato. Bene o male, qualche volta (tante volte) il PM-magistrato ritiene che le prove presentate dalla Polizia non siano sufficienti e chiede che l’imputato venga assolto; e, in genere, il giudice la pensa come lui. Oggi, in verità, molti extracomunitari, arrestati per uno dei vari reati previsti dalla legislazione in materia di immigrazione, vengono assolti e scarcerati (quindi in prigione non ci vanno) perché prima il PM e poi il giudice scoprono che le condizioni legali per procedere all’arresto e alla denuncia non c’erano. Un certo numero di presunti spacciatori vengono assolti e scarcerati perché le prove sull’effettivo spaccio della bustina sono carenti: attenzione, questo non vuol dire che non siano spacciatori, solo che la Polizia non è riuscita a fornire prove processualmente valide. E mica si può mandare uno in prigione perché “tanto si sa che spaccia droga”. Insomma, oggi il PM una certa scrematura la fa. Ma domani, quando il suo dovere sarà solo quello di sostenere le tesi della Polizia (ce lo ha detto Berlusconi, ricordatevelo), è ragionevole pensare che di condanne e di conseguenti detenuti ce ne saranno di più. Vero che sempre il giudice deve decidere, alla fine; ma insomma, se il lavoro del PM non lo influenzasse, in un modo o nell’altro, allora questo vorrebbe dire che il problema non esiste: il Pm non servirebbe a niente. Ma, se fosse così, perché discuterebbero (da anni) di separazione delle carriere? Che glie ne importerebbe di un PM che non fa danni? Dunque il PM danni (dal loro punto di vista) ne fa; ed è per questo che vogliono farlo fuori.

In ogni modo, mi pare ovvio che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con il problema carcerario; e, se proprio vogliamo trovare una relazione tra le due cose, in realtà il PM-magistrato produce meno condannati e quindi meno detenuti. E veniamo alla discrezionalità dell’azione penale. Qui un rapporto tra la riforma proposta dal senatore Perduca e il problema carcerario apparentemente c’è. Se l’azione penale non è obbligatoria, se ogni anno si fanno meno processi, se dunque ci sono meno condannati, in teoria si può sostenere che ci saranno meno detenuti e che le carceri saranno meno affollate. Solo che si tratta di una teoria sballata.

Capiamoci con un esempio. Tutti sappiamo che gli ospedali sono sovraffollati: non ci sono abbastanza letti per tutti i malati. Certo che, se stabiliamo per legge che alcuni malati non possono essere curati, allora il posto in ospedale diventa sufficiente per quelli che restano. Tutt’è a vedere se ci sta bene che la gente malata sia lasciata a morire sotto i ponti.

Ma poi c’è ancora da vedere quali sono i malati che decidiamo di non curare. Perché, certo, se stabiliamo di non curare l’influenza, le fratture, le ferite lacero contuse e insomma tutta la serie di malattie che danno origine alla stragrande maggioranza dei ricoveri ospedalieri; beh allora di posto in ospedale se ne fa. Ma se decidessimo di non curare gli infarti, i tumori di varia natura, le infezioni polmonari fulminanti, insomma le malattie più gravi ma numericamente meno incidenti, di posti se ne farebbero pochini. Ecco, qualcuno ha qualche dubbio sul fatto che nell’elenco dei reati per i quali non si dovrebbe fare il processo comparirebbero la corruzione, il falso in bilancio, la frode fiscale, il peculato etc?; e che invece si dovrebbe continuare a processare, proprio come si fa adesso, i furti, lo spaccio di droga, gli oltraggi a pubblico ufficiale, i reati degli extracomunitari e tutta la immensa quantità di illeciti che porta all’affollamento delle carceri? E, d’altra parte, pensate seriamente che una maggioranza che ha fatto della pretesa insicurezza sociale e della necessità di tutelare la collettività dai reati commessi da una folla di delinquenti extracomunitari e (bontà loro) anche di qualche italiano proporrebbe di non processare i ladri, gli spacciatori, quelli che violano le leggi sull’immigrazione e insomma la sterminata platea che ogni giorno affolla le aule di giustizia?

E allora, proprio come per gli ospedali del nostro esempio, quanti posti si farebbero disponibili a seguito del risparmio di processi dovuto a questa improrogabile riforma costituzionale? Ve lo dico io. L’85 % dei detenuti è composto da ladri, spacciatori di droga e extracomunitari che hanno violato le leggi sul’immigrazione. Il restante 15 % di assassini, rapinatori, violentatori e altri imputati o condannati per gravissimi delitti. Di falsificatori di bilancio, bancarottieri, corruttori, corrotti, evasori fiscali e gente di questo tipo ce ne sono poche decine. Ecco con la discrezionalità dell’azione penale sarebbero queste poche decine a non intasare le carceri. Gran risultato.

Adesso la domanda finale: ma il senatore Perduca lo sa cosa vuol dire separazione delle carriere e discrezionalità dell’azione penale?; oppure recita il mantra della fazione politica a cui appartiene? E, se lo sa, perché va a raccontare queste cose in televisione?

La strategia della menzogna

Dal Quotidiano La Repubblica
del 2 settembre 2009

di Ezio Mauro
(Direttore di La Repubblica)



POICHE' la sua struttura privata di disinformazione è momentaneamente impegnata ad uccidere mediaticamente il direttore di "Avvenire", colpevole di avergli rivolto qualche critica in pubblico (lanciando così un doppio avvertimento alla Chiesa perché si allinei e ai direttori dei giornali perché righino dritto, tenendosi alla larga da certe questioni e dai guai che possono derivarne) il Presidente del Consiglio si è occupato personalmente ieri di "Repubblica": e lo ha fatto durante il vertice europeo di Danzica per ricordare l'inizio della Seconda guerra mondiale, dimostrando che l'ossessione per il nostro giornale e le sue inchieste lo insegue dovunque vada, anche all'estero, e lo sovrasta persino durante gli impegni internazionali di governo, rivelando un'ansia che sta diventando angoscia.

L'opinione pubblica europea (ben più di quella italiana, che vive immersa nella realtà artefatta di una televisione al guinzaglio, dove si nascondono le notizie) conosce l'ultima mossa del Cavaliere, cioè la decisione di portare in tribunale le dieci domande che "Repubblica" gli rivolge da mesi. Presentata come attacco, e attacco finale, questa mossa è in realtà un tentativo disperato di difesa.

Non potendo rispondere a queste domande, se non con menzogne patenti, il Capo del governo chiede ai giudici di cancellarle, fermando il lavoro d'inchiesta che le ha prodotte. È il primo caso al mondo di un leader che ha paura delle domande, al punto da denunciarle in tribunale.

Poiché l'eco internazionale di questo attacco alla funzione della stampa in democrazia lo ha frastornato, aggiungendo ad una battaglia di verità contro le menzogne del potere una battaglia di libertà, per il diritto dei giornali ad indagare e il diritto dei cittadini a conoscere, ieri il Premier ha provato a cambiare gioco. Lui sarebbe pronto a rispondere anche subito se le domande non fossero "insolenti, offensive e diffamanti" e fossero poste in altro modo e soprattutto da un altro giornale. Perché "Repubblica" è "un super partito politico di un editore svizzero e con un direttore dichiaratamente evasore fiscale".

Anche se bisognerebbe avere rispetto per la disperazione del Primo Ministro, l'insolenza, la falsità e la faccia tosta di quest'uomo meritano una risposta.

Partiamo da Carlo De Benedetti, l'editore di "Repubblica": ha la cittadinanza svizzera, chiesta come ha spiegato per riconoscenza ad un Paese che ha ospitato lui e la sua famiglia durante le leggi razziali, ma non ha mai dismesso la cittadinanza italiana, cioè ha entrambi i passaporti, come gli consentono la legge e le convenzioni tra gli Stati. Soprattutto ha sempre mantenuto la residenza fiscale in Italia, dove paga le tasse. A questo punto e in questo quadro, cosa vuol dire "editore svizzero"? È un'allusione oscura? C'è qualcosa che non va? Si è meno editori se oltre a quello italiano si ha anche un passaporto svizzero? O è addirittura un insulto? Il Capo del governo può spiegare meglio, agli italiani, agli elvetici e già che ci siamo anche ai cittadini di Danzica che lo hanno ascoltato ieri?

E veniamo a me. Ho già spiegato pubblicamente, e i giornali lo hanno riportato, che non ho evaso in alcun modo le tasse nell'acquisto della mia casa che i giornali della destra tengono nel mirino: non solo non c'è stata evasione fiscale, ma ho pagato più di quanto la legge mi avrebbe permesso di pagare. Ho versato infatti all'erario tasse in più su 524 milioni di vecchie lire, e questo perché non mi sono avvalso di una norma (l'articolo 52 del D. P. R. 26 aprile 1986 numero 131, sull'imposta di registro) che, ai termini di legge, mi consentiva nel 2000 di realizzare un forte risparmio fiscale.

Capisco che il Premier non conosca le leggi, salvo quelle deformate a sua difesa o a suo privato e personale beneficio. Ma dovrebbe stare più attento nel pretendere che tutti siano come lui: un Capo del governo che ha praticato pubblicamente l'elogio dell'evasione fiscale, e poi si è premurato di darne plasticamente l'esempio più autorevole, con i quasi mille miliardi di lire in fondi neri transitati sul "Group B very discreet della Fininvest", sottratti naturalmente al fisco con danno per chi paga le tasse regolarmente, con i 21 miliardi a Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì, con i 91 miliardi trasformati in Cct e destinati a non si sa chi, con le risorse utilizzate poi da Cesare Previti per corrompere i giudici di Roma e conquistare fraudolentemente il controllo della Mondadori. Si potrebbe andare avanti, ma da questi primi esempi il quadro emerge chiaro.

Il Presidente del Consiglio ha detto dunque ancora una volta il falso, e come al solito ha infilato altre bugie annunciando che chi lo attacca perde copie (si rassicuri, "Repubblica" guadagna lettori) e ricostruendo a suo comodo l'estate delle minorenni e delle escort, negando infine di essere malato, come ha rivelato a maggio la moglie. Siamo felici per lui se si sente in forze ("Superman mi fa ridere"). Ma vorremmo chiedergli in conclusione, almeno per oggi: se è così forte, così sicuro, così robusto politicamente, perché non provare a dire almeno per una volta la verità agli italiani, da uno qualunque dei sei canali televisivi che controlla, se possibile con qualche vera domanda e qualche vero giornalista davanti? Perché far colpire con allusioni sessuali a nove colonne privati cittadini inermi come il direttore di "Avvenire", soltanto perché lo ha criticato? Perché lasciare il dubbio che siano pezzi oscuri di apparati di sicurezza che hanno fabbricato quella velina spacciata falsamente dai suoi giornali per documento paragiudiziario?

Se Dino Boffo salverà la pelle, dopo questo killeraggio, ciò accadrà perché la Chiesa si è sentita offesa dall'attacco contro di lui, e si è mossa da potenza a potenza. Ma la prossima preda, la prossima vittima (un magistrato che indaga, una testimone che parla, un giornalista che scrive, e fa domande) non avendo uno Stato straniero alle spalle, da chi sarà difeso? L'uomo politico passato alla storia come il più feroce nemico della stampa, Richard Nixon, non ha usato per difendersi un decimo dei mezzi che Berlusconi impiega contro i giornali considerati "nemici". Se vogliamo cercare un paragone, dobbiamo piuttosto ricorrere a Vladimir Putin, di cui non a caso il Premier è il più grande amico.

martedì 1 settembre 2009

Il caso Boffo, ovvero delle "informative" per disinformati.

Dal Blog Uguale per Tutti
del 1 settembre 2009



A parlare del caso Boffo si corre il rischio di fare il gioco di qualcuno che almeno l’obiettivo di spostare l’attenzione da magagne ben più significative l’ha sicuramente ottenuto.

Lo facciamo perché ci preme evidenziare ai lettori del blog che, anche questa volta, sono state dette, oltre che diverse e gravissime falsità (come l’avere spacciato una lettera anonima per una “informativa giudiziaria”), tante inesattezze; lo facciamo anche per segnalare alcuni aspetti della vicenda, finora non evidenziati, che destano ulteriori perplessità ed interrogativi.


Si è parlato di “rinvio a giudizio”, si è parlato di “patteggiamento”, si è parlato di “sentenza” (per tutti, si leggano il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale del 28 agosto e l’articolo a firma Gabriele Villa dello stesso giorno sulla stessa testata).

Da quel che emerge dal sedicente – diremo fra breve perché – “certificato generale del casellario giudiziale” di Boffo Dino pubblicato sul giornale di Berlusconi (Paolo?) e spacciato per “sentenza” risulta che non c’è stato alcun “rinvio a giudizio”, non c’è stato alcun “patteggiamento”, non c’è stata alcuna “sentenza”.

Prima di dire che cosa risulti dal sedicente “certificato generale”, si impone di conoscere la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone e di sapere cos’è il decreto penale di condanna.

Per quanto riguarda la prima, riportiamo il testo dell’art. 660 c.p.: Molestia o disturbo alle persone – “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.

Quanto al decreto penale di condanna, bisogna sapere che nel nostro sistema processuale penale esiste un procedimento speciale, adottabile per i reati meno gravi che possono in concreto essere puniti con la sola pena pecuniaria (multa per i delitti e arresto per le contravvenzioni), definito dal legislatore procedimento per decreto (disciplinato dagli artt. da 459 a 464 c.p.p.).

In sintesi, il procedimento funziona così:

- il Pubblico Ministero, trasmettendo al Giudice (per le indagini preliminari) il fascicolo delle indagini, gli chiede di condannare per un certo fatto ad una certa pena una certa persona, la quale non sa nulla di questa richiesta;

- il G.i.p., se ritiene che il fatto risulta dimostrato dagli atti trasmessigli dal P.M. e se ritiene corretta la qualificazione giuridica data al fatto dallo stesso P.M. e congrua la pena da questi richiesta, emette un provvedimento di condanna alla pena richiesta dal P.M. che assume la forma del decreto e che si chiama, appunto, decreto penale di condanna;

- una volta emesso dal G.i.p., il decreto viene notificato al condannato, che così ne viene a conoscenza;

- il condannato può proporre opposizione al decreto entro un certo termine dal giorno in cui il medesimo gli è stato notificato;

- se l’opposizione non è proposta, il decreto diviene irrevocabile ed esecutivo;

- se invece il condannato propone opposizione si svolge il giudizio ordinario (si procede, cioè, alla raccolta ex novo delle prove davanti al giudice del dibattimento che, all’esito, decide con sentenza) a meno che, con la stessa opposizione, il condannato non chieda il giudizio abbreviato (in tal caso si procede, nel contraddittorio tra le parti, ad un giudizio basato sugli atti delle indagini; con la sentenza, in caso di condanna, a fronte del risparmio legato al mancato svolgimento del dibattimento, la pena da infliggere è diminuita di un terzo) o il c.d. “patteggiamento” (l’interessato trova un accordo con il P.M. su una certa pena, che, evitandosi il giudizio, il legislatore consente possa essere ridotta fino ad un terzo rispetto a quella che sarebbe applicabile in via ordinaria; si chiede l’applicazione della pena concordata al giudice, il quale, se ritiene il tutto rispettoso della legge e congrua la pena richiesta, la applica con una sentenza).

Tanto premesso, dal sedicente “certificato” pubblicato su il Giornale risulta:

- che Boffo è stato condannato alla pena di € 516 di ammenda per avere commesso, nel gennaio 2002 a Terni, un fatto integrante la contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone);

- che la condanna è stata inflitta con un decreto penale emesso dal G.i.p. del Tribunale di Terni il 9 agosto 2004;

- che al decreto penale non è stata fatta opposizione e che esso, pertanto, è divenuto esecutivo in data 1 ottobre 2004;

- che prima ancora che il decreto divenisse esecutivo, precisamente in data 7 settembre 2004, l’ammenda di € 516 era già stata pagata.

Dal sedicente “certificato”, invece, non risulta in che cosa concretamente è consistito il comportamento del Boffo. Per saperlo occorrerebbe leggere il decreto, atto normalmente assai sintetico, dal quale comunque risulta il fatto concreto costituente l’oggetto dell’addebito. I decreti penali, peraltro, sono atti dei quali chiunque può chiedere il rilascio di copia.

Nessun rinvio a giudizio e nessun giudizio. Il rinvio a giudizio è un atto – che assume la forma del decreto – del procedimento penale ordinario. Lo emette, quando ci sono i presupposti, il Giudice dell’udienza preliminare (G.u.p.) a seguito di una richiesta del PM ed all’esito dell’udienza preliminare che si svolge nel contraddittorio tra le parti. L’udienza preliminare, peraltro, è prevista solo per i procedimenti che riguardano i reati più gravi. Per la contravvenzione punita dall’art. 660 NON è prevista l’udienza preliminare. Il giudizio ordinario, quindi, si svolge senza passare per l’udienza preliminare e, quindi, senza un atto di rinvio a giudizio del giudice ma con citazione diretta a giudizio da parte del P.M.. Ad ogni modo, nel caso Boffo, come visto, non si è seguito il procedimento ordinario ma, come di fatto accade in tutti i casi di questo tipo, il procedimento speciale per decreto.

Nessun patteggiamento. Come abbiamo visto, Boffo ha pagato l’ammenda inflittagli con il decreto penale; non ha fatto opposizione e non c’è stato, quindi, alcun patteggiamento.

Nessuna sentenza. Boffo, ribadiamo, è stato condannato con un decreto penale al quale non ha fatto opposizione. Pertanto, non si è giunti al giudizio e non c’è stata alcuna sentenza.

Va detto, a questo punto, che il decreto penale di condanna, al pari di una sentenza di condanna emessa all’esito di un giudizio, è comunque un atto con il quale si statuisce che l’imputato è colpevole del reato per il quale, con lo stesso decreto, lo si condanna.

E veniamo al sedicente “certificato generale del casellario giudiziale”.

Innanzi tutto, diversamente da quanto qualcuno ha scritto, il documento che è stato pubblicato non è il certificato del casellario giudiziale “di Terni”.

Il certificato del casellario giudiziale di un certo soggetto, infatti, è un documento che può essere formato presso qualsiasi ufficio giudiziario ed esso riporterà, se ce ne sono, tutte le condanne riportate da quel soggetto in Italia, qualunque sia l’ufficio giudiziario o gli uffici giudiziari che abbia o abbiano emesso le condanne. Esemplificando, se Tizio è stato condannato dal Tribunale di Terni, la condanna risulterà dal certificato del casellario giudiziale di Tizio formato presso qualsiasi ufficio giudiziario italiano.

Detto questo, il “certificato” in questione presenta qualche particolare o dettaglio che ci inducono a dubitare che effettivamente si tratti di un vero certificato del casellario giudiziale.

Vi è, innanzi tutto, una certa stranezza esterna del documento: il formato non ci sembra corrispondente a quello dei certificati che quotidianamente vediamo tra le carte del nostro lavoro. Molto molto sorprendente è lo stranissimo riferimento ad un sedicente “ufficio locale di …”, denominazione assolutamente sconosciuta all’organizzazione giudiziaria.

Vi è poi un’incongruenza interna al documento: il “certificato” reca, da un lato, l’intestazione “Procura della Repubblica” (in alto sotto lo stemma della Repubblica italiana) e, dall’altro, la sottoscrizione “Il Cancelliere” (in basso a destra). Come è noto, però, nelle Procure della Repubblica non ci sono cancellerie e non vi prestano servizio “cancellieri” ma, semmai, ci sono segreterie alle quali sono addetti segretari.

Infine, merita una considerazione la scelta processuale di Boffo di non proporre opposizione al decreto penale.

La contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. rientra tra quelle per le quali l’art. 162 bis c.p. consente il ricorso al beneficio dell’oblazione, ossia un meccanismo premiale che consente di estinguere il reato mediante il pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge. Insomma, il direttore dell’Avvenire, proponendo opposizione al decreto penale, avrebbe potuto chiedere di essere ammesso all’oblazione e, pagando la metà del massimo dell’ammenda stabilita dall’art. 660 c.p. – ossia, in concreto, metà della somma che ha effettivamente pagato –, estinguere il reato, sicché il procedimento si sarebbe concluso con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.

Se fosse stata percorsa questa strada, sul certificato del casellario giudiziale di Boffo Dino oggi risulterebbe “NULLA”. Sorprende che una persona sicuramente avveduta come il direttore dell’Avvenire, che pensiamo potrà essersi avvalso del consiglio dei migliori avvocati, non abbia fatto ricorso a tale possibilità.

Sostituitelo, per amor di Patria

Dal Blog Italia dei Valori
del 1 settembre 2009

di Antonio Di Pietro
(Parlamentare IDV)



Dopo la risposta di Silvio Berlusconi ai portavoce Ue "di stare zitti", avvenuta in seguito alla richiesta di spiegazioni sui respingimenti dei barconi di migranti attuati dall’Italia e da Malta, è seguita la minaccia di bloccare il Consiglio europeo come se fosse il motore del suo falciaerba ad Arcore.A questo punto ritengo che il Presidente del Consiglio abbia bisogno di una perizia psichiatrica per poter continuare a governare il Paese.Ormai Berlusconi è in guerra con il mondo intero: la Chiesa, l’Europa, i cittadini, la stampa estera e nazionale. Sta isolando l’Italia a livello internazionale, fatta eccezione per gli Stati a cui paga a suon di miliardi la propria amicizia, quali la Libia.L’idea che l’Ue si sta facendo dell’Italia è drammaticamente squallida e reca danni d’immagine sia alle imprese italiane all’estero, o che comunque con l’estero commerciano, sia ai cittadini italiani che ci vanno per una vacanza. Il comportamento di Silvio Berlusconi provoca danni economici al nostro Paese e lo esclude dagli importanti tavoli internazionali.Pertanto la maggioranza parlamentare si decida a ripensare alla leadership, l’opposizione saprà accontentarsi di un governo tecnico per amor di Patria. Tutto purchè si interrompa questo harakiri giornaliero ad opera di un Presidente del Consiglio che sembra affetto dai sintomi della paranoia.

L'officina dei veleni

Dal Quotidiano La Repubblica
del 1 settembre 2009

di Giuseppe D'Avanzo
(Giornalista)


DUNQUE la "nota informativa", pubblicata dal Brighella che dirige il Giornale del capo del governo, non è né una "nota" né un'"informativa" né tanto meno un atto giudiziario. È una "velina". Ora è ufficiale: nel fascicolo del Tribunale di Terni non c'è alcun riferimento a Dino Boffo, direttore dell'Avvenire, come a "un noto omosessuale". Lo dice il giudice di Terni: negli atti "non c'è assolutamente nessuna nota che riguardi le inclinazioni sessuali". 

Da qui - dalla menzogna del Giornale di Berlusconi - bisogna ripartire per comprendere il metodo e le minacce di un dispositivo politico che troverà - per ordine del potere che ci governa - nuovi bersagli contro cui esercitarsi, altri indiscutibili falsi da agitare per punire gli avversari politici o chi dissente. La storia è nota. Boffo osa criticare, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare l'Egoarca. Deve avere una lezione. Non c'è bisogno di olio di ricino, genere merceologico antiquato. Una bastonatura mediatica è ben più funesta di un lassativo. Può essere definitiva come un colpo di pistola. È quel che tocca al direttore dell'Avvenire: un colpo di pistola che lo tramortisce. Finisce in prima pagina del Giornale di Berlusconi descritto così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". 

C'è stata finora una regola accettata e condivisa nel pur rissoso giornalismo del nostro Paese diviso: spara duro, se vuoi, ma è legittimo farlo soltanto con notizie attendibili e fondate, confermate da testimonianze o documenti che reggano una verifica, pena il discredito pubblico, la squalifica di ogni reputazione professionale. Il collasso di questa regola di decenza può inaugurare una stagione critica. Per descriverla torna utile Brighella, antica maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta. Attaccabrighe, briccone, bugiardo, Brighella viene da briga, intrigo: "se il padrone promette di ricompensarlo bene, dirige gli imbrogli compiuti in scena". Il potere che ci governa immagina che i giornalisti debbano trasformarsi tutti in Brighella. Un Brighella in giro già c'è. Dirige il Giornale di Berlusconi. Si mette al lavoro e cucina l'aggressione punitiva per il dissidente. Gli hanno messo in mano un pezzo di carta anonimo, redatto nel gergo degli spioni e delle polizie. Chi glielo ha dato? Dov'è l'officina dei miasmi, dei falsi, dei dossier melmosi che il potere che ci governa promette di usare contro i non-conformi alla sua narrazione del Paese? Il foglietto che Brighella si ritrova sullo scrittoio è di quei frutti avvelenati. Non vale niente. È una diceria poliziesca. Il direttore del Giornale di Berlusconi la presenta ai lettori come una "nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore, alias il direttore dell'Avvenire, disposto dal gip del Tribunale di Terni". 

Quella "velina" diventa, nell'imbroglio di Brighella, un documento che gli consente di scrivere, lasciando credere al lettore di star leggendo un atto giudiziario: "Il Boffo è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconcie e offensive e di pedinamenti volti ad intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione". 

Disinformazione e "falso indiscutibile", in questa manovra, fanno un matrimonio d'amore. Il documento è un falso indiscutibile. È utile però a un lavoro di disinformazione. La disinformazione, metodo maestro della Russia sovietica, contrariamente alla menzogna, contiene una parte di verità (anche in questo caso: Boffo ha accettato una condanna per molestie), ma questa viene deliberatamente manipolata con abilità. A Brighella non importa nulla delle molestie. Vuole gridare al mondo: il direttore del giornale della Conferenza episcopale è un frocio! Chi ha sensibilità per i diritti civili, i movimenti gay afflitti dall'Italia omofoba di oggi discuteranno dell'uso dell'omosessualità come colpa, difetto, vergogna, addirittura come reato. Qui interessa l'uso del falso nel dispositivo politico che minaccia. Colto con le mani nel sacco dei rifiuti, quando diventa evidente che quella "nota informativa" è soltanto una "velina" di spione diventata lettera anonima ai vescovi e riesumata per la bastonatura, Brighella dice: "Non ho mai parlato di informative giudiziarie. Abbiamo un documento (ma è la sentenza di condanna per molestie). Il resto non conta. Non conta da chi l'abbiamo avuto, non conta se ci sono degli errori". Sincer come l'acqua dei fasoi dicono a Bergamo per dire falso, bugiardo. È quella schifezza presentata come "nota informativa"? Come documento? Addirittura come atto giudiziario? Non ne parliamo più? Non è accaduto nulla? È stupefacente che la menzogna di Brighella venga presa sul serio proprio da quell'autorevole giornalismo italiano che finora ha accettato e condiviso la regola che sia legittima anche la durezza, pure la brutalità se in presenza di fatti, notizie, documenti, testimonianze affidabili. È sorprendente che si legga sul Corriere della sera di Ferruccio de Bortoli: "(Il direttore del Giornale) non retrocede di un passo" e su la Stampa di Mario Calabresi: "Nessuna retromarcia (del direttore del Giornale) sulla vicenda, dunque". Nessuna retromarcia? 

Fingere di non capire, non valutare con severa attenzione quanto è accaduto oggi a Dino Boffo (domani a chi?), accettare di chiudere gli occhi dinanzi al metodo sovietico inaugurato dal potere che ci governa, con il lavoro di Brighella, ci rende tutti corresponsabili perché se chi diffonde una disinformazione è colpevole e chi le crede è uno sciocco, chi la tollera è un complice. Quella lucida aggressione, che trasforma il giornalismo in una pratica calunniosa senza regole, non può essere accettata con un'alzata di spalle né dall'informazione ancora indipendente né dalle istituzioni di controllo come il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir). Perché due cose ormai sono chiare in un affare che sempre più assume i contorni di una questione di libertà. Berlusconi pretende che l'industria delle notizie si trasformi o in organizzazione del silenzio (a questo pensa il Tg1 di Augusto Minzolini) o in macchina della calunnia (è il caso di Brighella). La macchina della calunnia si sta alimentando, in queste ore, con "veline" e dossier che servitori infedeli delle burocrazie della sicurezza le offrono. Per sollecitazione del potere o per desiderio di servire un padrone, non importa. È rilevante il loro uso politico. A questo proposito, dice Francesco Rutelli, presidente del Copasir: "Non ho ricevuto finora nessuna segnalazione su coinvolgimenti diretti o indiretti di persone legate ai servizi di informazione". Ieri Rutelli ha incontrato Gianni De Gennaro, direttore del Dipartimento per l'informazione e la sicurezza (Dis). Chi sa se ha avuto qualche "segnalazione". Comunque, pare opportuno concludere con un messaggio agli spioni al lavoro nella bottega dei miasmi: per favore, dopo aver cucinato le vostre schifezze, mandate un sms a Francesco Rutelli. Grazie.

Le denunce di Berlusconi? "Reazioni di un leader in difficoltà"

Dal Quotidiano La Repubblica
del 1 settembre 2009

di Enrico Franceschini
(Giornalista)


LONDRA - "Sono le reazioni di un leader in ansia, che si sente sempre più isolato e in difficoltà". Geoff Andrews, docente di storia italiana, autore di un libro sul nostro paese e commentatore del sito Open Democracy, commenta così la decisione di Silvio Berlusconi di denunciare "Repubblica" e altri giornali per diffamazione. 

Una parte della denuncia definisce diffamatorie le dieci domande presentate mesi fa dal nostro giornale al primo ministro: può una domanda essere considerata diffamante? 
"E' certamente assai insolito, perlomeno in una democrazia. Tanto più che quelle domanda sono state pubblicate per la prima volta all'inizio dell'estate e il premier italiano ha risposto con un lungo silenzio, ovvero ha scelto di non rispondere. Fare causa contro le domande sembra un tentativo di intimidire non solo "Repubblica" ma qualunque giornale dal porgli domande scomode, che è poi il compito della stampa in un paese democratico". 

L'altro aspetto della denuncia riguarda commenti e argomentazioni fatti da un giornale francese, citati in un articolo di "Repubblica". Come interpreta questo? 
"Si vede chiaramente il contrasto tra l'informazione in Italia, su cui Berlusconi esercita un vasto e quasi assoluto controllo, e quella all'estero, su cui ovviamente non può porre divieti o restrizioni. Ed ecco allora il ricorso alla giustizia per impedire che i giornali stranieri possano essere citati in Italia. E' un fatto grave, ma è anche la prova che Berlusconi si rende conto della pericolosità, per lui, della stampa e dell'opinione pubblica internazionale". 

"Incredibile. Con poche eccezioni, non se ne parla o se ne parla per minimizzare e difendere il premier. 
Sarebbe come se la Bbc e le tivù private britanniche non avessero raccontato lo scandalo dei rimborsi spese dei deputati che ha fatto tremare nei mesi scorsi il parlamento di Westminster. Cosa che non dovrebbe accadere in una democrazia". 
Ma se accade, come sta accadendo in Italia, che conseguenze potrebbero esserci? 
"Io credo che presto o tardi gli alleati di Berlusconi, o almeno alcuni di essi all'interno della coalizione di centro-destra, cominceranno a chiedersi se è legittimo e augurabile per il paese che sia consentita una situazione del genere. E prima o poi potrebbero esserci reazioni anche da parte degli alleati dell'Italia, dei suoi partner nell'Unione Europea, nella Nato, nel G8. Quando una democrazia zoppica, rallenta e preoccupa tutto l'impianto a cui è collegata, come del resto vari leader stranieri e perfino la Chiesa cattolica iniziano cautamente a segnalare". 

Allora Berlusconi potrebbe subire dei contraccolpi con questa azione legale? 
"Io penso che si tratti di una mossa politica, un colpo di coda che lascia trapelare segnali di crescente ansietà nel premier, sempre più toccato dalle critiche internazionali e con una sensazione di crescente isolamento anche in Italia, dove appare a molti dei suoi stessi alleati come una figura problematica".

«Siamo italiani, no al fumo verde» Prove cancellate per le Frecce

Dal Quotidiano Il Corriere della Sera
del 1 settembre 2009

di Lorenzo Fuccaro
(Giornalista)


TRIPOLI — «Shut down the engine, you have a delay». Per ben due volte il comandante delle Frecce Tricolori, Massimo Tammaro, che stava rullando sulla pista dell'aeroporto militare di Maitiga ha ricevuto dalla torre di controllo l'ordine di spegnere i motori degli Aermacchi. Con la terza comunicazione è giunto anche l'ordine di rientrare perché l'esercitazione era cancellata. Quella di ieri, sul cielo di Tripoli, doveva essere la prova generale della manifestazione acrobatica che la nostra pattuglia — che tutto il mondo ci invidia per la sua abilità — avrebbe dovuto fare per i festeggiamenti odierni in occasione dei 40 anni della rivoluzione verde che portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi. E il colore verde potrebbe essere all'origine della cancellazione. Da tempo, infatti, le autorità libiche chiedono che le Frecce scarichino scie di fumo verde durante le acrobazie previste per i festeggiamenti in onore dei 40 anni di potere del Raìs. Ma la risposta è sempre stata la stessa: un cortese ma fermo no. Anche ieri, durante il consueto briefing che precede un'esercitazione, Tammaro si è sentito fare la medesima richiesta. E anche ieri ha risposto: «Noi siamo italiani e abbiamo una disposizione ferrea. I fumi che possiamo scaricare sono bianchi o tricolori, come la nostra bellissima bandiera». 


Insomma, tutto lascia intendere che potrebbe essere questo diniego all'origine della decisione libica di sospendere i voli acrobatici. Anche se ufficialmente nessuno vi fa riferimento, nemmeno gli italiani. Lo stesso Tammaro, in una improvvisata conferenza stampa nella nave albergo che ospita gli uomini della pattuglia, spiega che la ragione è «tecnica» dopo essersi consultato con lo stato maggiore dell'aeronautica militare italiana, l'ambasciatore Francesco Tupiano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «In una zona della città, di fronte al mare, — dice l'ufficiale — è ancora in corso il vertice dei capi di Stato africani e quindi per motivi di sicurezza ci è stato comunicato che tutti i voli erano stati sospesi». Tutti i nostri, militari e politici, ne prendono atto. Ragioni di opportunità invitano ad accettare per buono quanto hanno sostenuto i libici perché è del tutto plausibile la loro tesi visto che sul lungomare, sotto una tensostruttura, la stessa che domenica ha ospitato la cena tra Gheddafi e Silvio Berlusconi, si svolge il vertice dei leader dell'Unione africana. 

Dal punto di vista diplomatico si vogliono evitare incidenti perché si sa quanto siano imprevedibili i dirigenti libici e quanto talvolta paiono capricciose se non addirittura eccessive le loro richieste. Ecco perché si fa finta di credere a questa versione e ci si dimentica che ieri mattina, proprio sulla stessa porzione di cielo prospiciente la zona del summit panafricano hanno volteggiato per una buona mezzora tre aerei leggeri di fabbricazione francese. I rapporti di buon vicinato e la possibilità di fare buoni affari consigliano quindi di essere prudenti. Ecco perché, a meno di impreviste novità, il programma messo a punto per lo show delle nostre Frecce resta inalterato e si compone di sette «figure», alcune come il giro della morte «a triangolone» ripetuto due volte. I nove Aermacchi concluderanno con un passaggio spettacolare che mette i brividi per la sua bellezza. In formazione «Alona con carrello estratto» scaricheranno una fumata tricolore sulle note del «Vincerò» cantate da Luciano Pavarotti.

La Cei: "Avvertimento mafioso"

Dal Quotidiano L'Unità
del 1 settembre 2009

di Marcella Ciarnelli
(Giornalista)


Lo sdegno di un autorevole esponente delle gerarchie ecclesiastiche. Le puntualizzazioni di un uomo che crede nel corso della giustizia che è segnato, innanzitutto, dalle parole scritte nei fascicoli e non dalle soffiate. La vicenda che ha coinvolto il direttore de l’Avvenire, Dino Boffo, si arricchisce di altre voci mentre le illazioni e le ricostruzioni “avvelenate” o di parte impegnano la scena di una brutta rappresentazione con una brutta trama. 

Monsignor Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del Consiglio Cei per gli Affari Giuridici, per commentare la storia venuta alla luce in questi giorni, ma cominciata nel mese di aprile quando a tutti i cardinali sembra sia stata fatta pervenire la lettera anonima con la velina e la sentenza su Boffo, cestinata da tutti, come ha confermato anche il cardinale Dionigi Tettamanzi, condanna un’iniziativa che lui non esita ad interpretare «da siciliano come un avvertimento mafioso» in particolare «nei confronti dei cardinali Ruini e Tettamanzi», ma anche «un affaraccio brutto», «inquietante», «spazzatura maleodorante». Ce n’è anche per chi si è prestato «ad un gioco che è offensivo della dignità delle persone, della libertà di stampa e anche di una certa professionalità. Non credo proprio si tratti di un autentico scoop». 

  Il Vescovo, uomo evidentemente esperto anche delle cose del mondo, ragiona su quelle che potranno essere le conseguenze di un caso come quello in cui è stato coinvolto il direttore de l’Avvenire che lui ipotizza possa anche decidere di dimettersi «per il bene della Chiesa e del giornale» anche se «in effetti in Italia chi si dimette è sempre ritenuto colpevole, ma non sempre è così». Feltri non fa una piega: «Fatti che riguardano la chiesa». Ma avverte monsignor Mogavero: «Bisogna tener ben presente il fatto che quando si entra nel piano della rappresaglia si sa dove si comincia ma non si sa dove va a finire, soprattutto perché esistono persone che poi in queste situazioni ci sguazzano. Certi signori si sono assunti la responsabilità morale di avere messo in moto un meccanismo che speriamo si fermi qui» anche se dal tono si capisce che lui per primo non crede a questa possibilità. E sulla rivendicata autonomia di Vittorio Feltri dal presidente del Consiglio che, al di là delle strategie amministrative, è il suo datore di lavoro, «nessuno nega autonomia a Feltri ma non sono disponibile a pensare che nessuno della proprietà del Giornale fosse al corrente di quanto stava per pubblicare. Saremmo fuori dal mondo se si sostenesse una cosa del genere. Può essere che non lo sapesse Berlusconi ma non la proprietà... ». 

  Anche il Gip di Terni, al di là del dovuto riserbo, ha voluto fare una puntualizzazione a proposito della velina usata dal Giornale come prova. Non esiste e non è mai esistita così come, ha affermato il dott. Pierluigi Panariello, nel fascicolo del procedimento non c’è «assolutamente alcuna nota che riguardi le inclinazioni sessuali» di Dino Boffo. Il giudice di Terni è ora chiamato a decidere sulle richieste di accesso agli atti presentate da molti giornalisti che in passato sono state già respinte. La strada per uscirne indicata dal vescovo di Mazara è di quelle che piacciono poco a Berlusconi. «Se il premier cerca un riavvicinamento con la chiesa deve semplicemente cambiare stile di vita, fare il politico e non il manager o l’uomo di spettacolo». Mentre l’Osservatore Romano rivendica come un merito quello di non essersi occupato delle vicende del Cavaliere l’Avvenire oggi scende in campo con tre pagine in difesa del direttore attaccato dal direttore del giornale di famiglia del Cavaliere e che sta vivendo la vicenda con «grande sofferenza non solo dal punto di vista professionale ma anche familiare». I vertici del Pd si riuniscono oggi per decidere sulla manifestazione in difesa della libertà di stampa. Anche il Parlamento sarà investito dalle opposizioni per ottenere chiarimenti «sull’informativa» dei veleni.

Santoro-Rai ai ferri corti Annozero, avvio in forse

Dal Quotidiano La Repubblica
del 1 settembre 2009

di Leandro Palestini
(Giornalista)


ROMA - Braccio di ferro tra Michele Santoro e la Rai per la ripresa di Annozero, che rischia di slittare a ottobre. "Non ci rinnovano i contratti. E siamo a venti giorni dalla partenza del programma. E' snervante, stiamo lavorando, ma senza certezze", rivela uno dei venti collaboratori della redazione che preferisce l'anonimato. Un boicottaggio? "Sembra che Berlusconi non voglia vedere sullo schermo la faccia di Marco Travaglio". Una cosa è certa: venerdì scorso Mauro Masi, direttore generale della Rai, si è incontrato con Michele Santoro alla presenza del nuovo direttore di RaiDue, Massimo Liofredi. Ma dall'incontro, franco se non ruvido, non è venuta fuori la soluzione del problema. Infatti oggi è previsto un nuovo round. 

"Non c'è un "caso Travaglio". I ritardi sui contratti di Annozero? Nessun problema. Io sono direttore da un mese, in agosto è tutto difficile, ma ne ho già parlato con Santoro", spiega Liofredi, direttore di RaiDue da fine luglio, precisando come sui collaboratori di Santoro (vedi Travaglio) lui non ha giurisdizione: "Michele Santoro è un direttore, dipende dal direttore generale Mauro Masi. RaiDue ospita soltanto il suo programma". 

E' possibile che un nuovo editto si abbatta su Annozero? "In tutte le vicissitudini giudiziarie con la Rai, Santoro ha sempre vinto. Non credo possano bloccare il suo programma", dichiara Giorgio Van Straten, consigliere Rai di area Pd, ricordando come "già nella passata edizione di Annozero quello di Travaglio era l'unico testo che doveva essere letto preventivamente dal direttore di rete, Antonio Marano. E, anche se ci sono state delle polemiche sugli interventi di Travaglio, alla fine l'unica sospensione di Mauro Masi ha colpito il vignettista Vauro". 

Intanto, Massimo Liofredi cambia pezzi importanti di RaiDue, attingendo dalla sua esperienza di capostruttura di Domenica in. Dal 21 settembre, dopo il Tg2 il pomeriggio della rete si aprirà con una fascia affidata a Monica Setta. "Un approfondimento sui temi della attualità politica ed economica. Con vari collegamenti esterni. 50 minuti in assoluta par condicio" garantisce la Setta. Poi, Italia sul 2 nuova formula: alla conduzione ci sarà Lorena Bianchetti, in coppia con Milo Infante, tra le vibrate le proteste della disarcionata conduttrice Francesca Senette.