mercoledì 9 settembre 2009

Gli ordini di guerra

Dal Quotidiano La Repubblica
del 9 settembre 2009

di Massimo Giannini
(Giornalista)



Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un'ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico "berlusconismo di lotta e di governo" a un vero e proprio "berlusconismo di guerra".

Il caso di Gianfranco Fini è l'ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di "fare squadra". Pensa così di convincere a "rientrare nei ranghi" (come da "consiglio non richiesto" di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce "la fase due del grande gioco al massacro" che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l'alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.

Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c'è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c'è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l'ha già persa. Non lo testimoniano solo l'assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l'imbarazzante difesa d'ufficio di pochi luogotenenti dell'ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal "Giornale". Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l'atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella "rivoluzione del predellino" che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del "partito unico", che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.

È lì che il presidente della Camera, nel definire "compiuta" la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c'era già la negazione del berlusconismo. E c'era già tutto ciò che l'impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl "con la schiena dritta". Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?

Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell'ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del "Secolo" e di "Farefuturo", hanno un bel recriminare, contro "un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti", o contro il disegno "di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato". Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, "una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell'antipolitica", o una grande forza plurale "che parli la lingua di Cameron e Sarkozy", "un grande partito dei moderati" ispirato ai "grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia".

Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d'area, purtroppo l'hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull'unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell'accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l'agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un'"altra destra" era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del "berlusconismo da combattimento". Oggi il Pdl è proprio quella "casermetta in cui qualcuno comanda" e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: "In Italia ormai non si tenta di demolire un'idea, ma colui che di quell'idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone... ". Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante "divisioni" ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un'"altra destra" possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l'ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.

La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il "buon politico" deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all'interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: "politica e testimonianza morale sono incompatibili".
L'unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la "testimonianza morale" dell'ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.

Nessun commento:

Posta un commento