martedì 29 settembre 2009

STRAGI, L’OMBRA DEL DEPISTAGGIO

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 29 settembre 2009

di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
(Giornalisti)



Sono tre segugi della lotta a Cosa nostra, tre poliziotti che hanno fatto la storia dell'antimafia, schierati in prima linea nel mitico gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, il reparto creato ad hoc all'inizio del 1993 per svelare il mistero delle stragi siciliane. Sono loro i nuovi indagati dalla Procura di Caltanissetta, che ora devono rispondere dell'accusa di aver imbastito, agli ordini del loro capo Arnaldo La Barbera, scomparso nel 2002, il più clamoroso depistaggio della storia delle indagini antimafia: quello sulla strage di via D'Amelio. Dei tre, due risultano già iscritti nel registro degli indagati: sono Vincenzo Ricciardi, 60 anni, originario di Benevento, oggi questore di Novara, e Salvatore La Barbera, 48 anni, milanese, dirigente della Criminalpol a Roma. Il terzo sta per essere identificato.

Il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e i pm Domenico Gozzo, Nicolò Marino, Amedeo Bertone e Stefano Luciani, titolari del fascicolo, ipotizzano per i tre lo stesso reato: concorso in calunnia. Secondo la ricostruzione della Procura, sarebbero stati loro a confezionare il meccanismo perfetto della falsa pista che negli ultimi 17 anni ha ingannato i magistrati inquirenti e anche i giudicanti, fino a reggere persino in Cassazione, dopo tre processi e nove gradi di giudizio: sentenze che i pm nisseni si apprestano a rimettere in discussione, sollecitando la revisione del processo Borsellino-bis, nel quale sarebbero stati condannati all'ergastolo alcuni “presunti innocenti”.

In un clima di costante allarme, nel timore che l'indagine possa essere “monitorata” da pezzi deviati dello Stato, l'inchiesta sull'uccisione del giudice Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta sta per entrare, dunque, nella sua fase più “calda”: l'esame delle presunte irregolarità commesse dalla polizia di Stato, un passaggio che rischia di provocare una frattura istituzionale senza precedenti.

Nè Salvatore La Barbera, nè Ricciardi si sentono adesso di rilasciare dichiarazioni sul loro coinvolgimento nell'inchiesta nissena. La Barbera ha tagliato corto: “Non ho nulla da dire. Parlerò, quando sarà il momento, con i magistrati”. Il questore di Novara, cercato tramite il suo capo di gabinetto, non ha ritenuto opportuno intervenire. Anche lo “storico” legale del defunto prefetto Arnaldo La Barbera, l'avvocato Carlo Biondi, il penalista che lo difese nel processo per la sanguinosa irruzione alla scuola “Diaz” durante il G8 di Genova, al quale è stata chiesta una replica tramite la sua segretaria, non si è poi fatto vivo. Un riserbo, d’altra parte, più che comprensibile in un momento così delicato e difficile.

L'ipotesi dei pm di Caltanissetta è che i poliziotti, obbedendo alle direttive del loro capo, avrebbero messo in piedi un articolato “aggiustamento” dell'indagine sulla strage di via D'Amelio, centrandola sul falso pentimento di Vincenzo Scarantino, l'operaio che si autoaccusò del furto dell'auto-bomba, e che oggi viene sbugiardato dal neo-pentito Gaspare Spatuzza.

Ricciardi e Salvatore La Barbera sono considerati grandi esperti di polizia giudiziaria con una carriera prestigiosa alle spalle. Capo della mobile ad Agrigento, della scientifica a Firenze, della polizia di frontiera a Malpensa, poi questore di Lecco e oggi di Novara, Ricciardi ha trascorso tutta la sua vita professionale nella polizia giudiziaria, così come Salvatore La Barbera, inviato come vice-capo dell'Interpol a Lione, dopo il periodo palermitano delle indagini sulle stragi. Entrambi hanno ricevuto numerosi attestati ed encomi. Ad accusarli, oggi, sono gli stessi testimoni sulla base dei quali la Cassazione ha ritenuto credibile la “pista Scarantino”: Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Quest'ultimo, ex compagno di cella di Scarantino, ha recentemente confessato di avere subito minacce e pressioni da parte dei funzionari di polizia indagati.

Secondo i due balordi, che dopo il pentimento di Spatuzza hanno quindi ammesso di aver partecipato al depistaggio, il “regista” dell'intera manovra sarebbe stato il prefetto Arnaldo La Barbera, considerato un asso della lotta alla mafia. Ora sia Candura, uno dei complici di Scarantino, che Andriotta, accusano i funzionari di polizia di aver loro estorto le dichiarazioni che hanno portato l'inchiesta di via D'Amelio su un falso binario . I pm nisseni di allora, l'ex procuratore Giovanni Tinebra, l'aggiunto Paolo Giordano, e i sostituti Carmelo Petralia e Fausto Cardella, interrogati dai colleghi di oggi, hanno confermato che il “dominus” di quella indagine era appunto Arnaldo La Barbera. Grazie anche, sostengono a Caltanissetta, ad un Csm inspiegabilmente distratto, che ha lasciato le prime investigazioni sulle stragi del 1992, di fatto, in balia della polizia, assegnando quell'anno alla Procura di Caltanissetta magistrati non palermitani, per nulla esperti di mafia, solo perchè “emotivamente non coinvolti” . Lo ha confermato, sia pure a denti stretti, per il rapporto di stima che l’ha sempre legata al questore deceduto, anche Ilda Boccassini, l'unica di quel gruppo che aveva una competenza specifica su fatti di mafia, dal momento che a Milano si era già occupata dell'inchiesta Duomo Connection. Ilda la “rossa”, in realtà, era venuta in Sicilia per seguire le indagini sulla strage di Capaci e sulla morte di Giovanni Falcone. Quando le fu assegnato anche il fascicolo di via D'Amelio, in un primo tempo, avallò la pista Candura-Andriotta, poi si dissociò apertamente con una lettera nella quale prendeva le distanze da Scarantino. Interrogata nei giorni scorsi dai pm di Caltanissetta, Boccassini ha sollevato dubbi sul rigore deontologico dei colleghi di allora, facendo riferimento ad una lettera ritrovata agli atti in cui lei stessa, poco prima di abbandonare la procura nissena, raccomandava al procuratore Tinebra di vigilare affinchè i suoi sostituti verbalizzassero i pentiti “nel rispetto delle norme processuali”.

Contro i poliziotti sotto inchiesta, oggi i magistrati procedono con i piedi di piombo, consapevoli che le accuse provengono dagli stessi soggetti che diciassette anni fa furono protagonisti del depistaggio.

Ma perchè Arnaldo La Barbera, investigatore di grande esperienza, avrebbe dovuto imbastire un così perverso canovaccio? Due sono le ipotesi, formulate sinora sia pure con cautela, dai pm di Caltanissetta. La prima è la cosiddetta “ragion di Stato”: la fretta, in un momento di forte offensiva mafiosa e di concomitante incertezza istituzionale, di trovare un colpevole in tempi brevi per rassicurare l’opinione pubblica e rafforzare la credibilità dello Stato. In questo caso, ipotizzano gli inquirenti, La Barbera e i suoi uomini avrebbero attribuito ad un ignaro Scarantino le informazioni sul furto dell’autobomba raccolte sul territorio attraverso una rete di anonimi confidenti: notizie che i poliziotti sapevano essere fondate, ma senza possibilità di un rapido sviluppo investigativo. E per capire come un superpoliziotto del calibro di La Barbera abbia potuto consapevolmente “consegnare” all'opinione pubblica e alla giustizia un falso stragista come Scarantino, reclutato nel mondo sommerso dei piccoli criminali di borgata , i pm stanno valutando le ultime rivelazioni di Gioacchino Genchi, il super esperto di informatica che fu tra i protagonisti di quella stagione investigativa.

Interrogato recentemente a Caltanissetta, Genchi avrebbe fornito il ritratto inedito di un La Barbera psicologicamente fragile ed esageratamente bisognoso di riconoscimenti professionali. Poco prima di lasciare per sempre le indagini, Genchi si sarebbe dissociato dai metodi del futuro questore durante un drammatico colloquio notturno, nel quale l'informatico avrebbe comunicato tutte le sue riserve al superpoliziotto che, commosso fino alle lacrime, avrebbe confessato al giovane collega il suo bruciante desiderio di carriera, per compensare una vita privata che fin lì non gli aveva offerto molto.

La seconda ipotesi, formulata dai pm nisseni, sulle cause del depistaggio di La Barbera e della sua squadra, è il dolo, e apre scenari inquietanti. E' un'ipotesi che teorizza la volontà di orientare consapevolmente magistrati e investigatori verso un obiettivo “minimalista”, tutto puntato in direzione della manovalanza criminale, per distrarli dalle indagini sui mandanti occulti, che in quei mesi avevano già preso corpo. Si tratta della stessa convinzione più volte manifestata da Genchi che, ai pm nisseni , però, adesso avrebbe fornito nuovi elementi, tuttora top secret.

Quella del dolo, cioè del depistaggio teso a “salvare” i mandanti a volto coperto della strage di via D'Amelio, è un'ipotesi che conduce dritto ai misteri dei servizi segreti: un filone d’inchiesta recentemente arricchito dalle dichiarazioni di una decina di collaboratori che hanno parlato dell'esistenza di una struttura supersegreta, collegata alle istituzioni, in grado di fornire input a Cosa Nostra, per spingerla ad eseguire una serie di “operazioni eversive” a Palermo: le stragi di Capaci e Via D'Amelio, il fallito attentato dell’Addaura, l’omicidio del piccolo Claudio Domino e quello dell’agente di polizia Nino Agostino, della moglie Ida Castelluccio e del giovane collaboratore del Sisde Emanuele Piazza. Un personaggio misterioso dei servizi compare anche nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino sulla cosiddetta trattativa tra mafia e Stato, parallela all’eccidio di via D’Amelio, supervisionata da un misterioso 007 (un certo “Carlo” o “Franco”), e decisiva per imprimere un’accelerazione al ribaltone istituzionale che avrebbe condotto alla Seconda Repubblica.

Nessun commento:

Posta un commento