lunedì 17 agosto 2009

Salvatore Borsellino: «Mafia e Stato hanno ucciso mio fratello»

Dal Corriere.com
del 17 agosto 2009

di Mario Cagnetta
(Giornalista)

Salvatore Borsellino racconta al Corriere Canadese tutte le nuove scoperte sulla strage di via D'Amelio
Dopo tanti anni, un po' di verità sta venendo a galla sulla strage di via D'Amelio. Una strage che già allora era apparsa molto più complessa da capire rispetto a quella di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone assieme alla sua scorta.

Ora, per spiegare la morte di Paolo Borsellino si parla di servizi segreti deviati, dello Stato italiano che non solo cerca di scendere a patti con Cosa Nostra comandata da Totò Riina ma lascia anche da solo il magistrato che con Falcone più aveva contribuito alla lotta contro la mafia, emettendo così la sua definitiva condanna a morte. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dopo anni di silenzio ha deciso di parlare e ora ci racconta la sua verità.

Dottor Borsellino dopo strage di Capaci, suo fratello Paolo capì di avere le ore contate. Che cosa stava accadendo intorno a lui?
«In quel periodo non era soltanto Paolo ad aver capito di avere le ore contate. Uccidere Falcone senza uccidere Paolo equivaleva a fare un lavoro a metà. Paolo, infatti, se lasciato vivo, avrebbe continuato a fare quello che aveva fatto insieme con Falcone: ovvero combattere in tutte le maniere la criminalità organizzata. Lo avrebbe fatto da solo o contando sull'aiuto di pochi perché in fondo lo Stato ha sempre delegato ai magistrati certi compiti e certe responsabilità che, invece, avrebbe dovuto assumersi in prima persona».

La strage, però, arrivò a neanche sessanta giorni da quella di Capaci. Come mai una così brusca accelerata per liberarsi di un uomo che sarebbe dovuto morire comunque?
«Quello che nessuno si aspettava, e forse nemmeno Paolo se non negli ultimi giorni, era che la strage di via D'Amelio avrebbe seguito a così breve distanza di tempo quella di Capaci. Del resto, numerosi mafiosi avevano giudicato troppo prematuro questo passo e lo avevano fatto presente direttamente a Riina. Ma Riina rispose che la strage si doveva fare subito perché era stata promessa a qualcuno».

Il capo dell'ufficio istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto, disse che Falcone morì nel gennaio del 1988 quando nominarono Antonino Meli come suo sostituto. Mi dica quando cominciò a morire Paolo Borsellino?
«Mio fratello iniziò a morire il primo luglio del 1992 dopo l'incontro che ebbe con il ministro della Giustizia di allora Nicola Mancino. Nonostante quest'ultimo continui a negare pervicacemente, lì deve essere stata proposta quella trattativa tra lo Stato e la mafia alla quale Paolo si deve essere opposto nella maniera più assoluta. E a questo punto non restava che quella soluzione e cioè uccidere Paolo ed eliminarlo in fretta».

Che cosa avrebbe potuto fare un magistrato sia pur influente come lui, per fermare una trattativa tra Stato e mafia?
«Poco. Ma di sicuro avrebbe portato quella trattativa agli occhi dell'opinione pubblica come aveva fatto dopo che si era trasferito a Marsala e aveva denunciato il colpo di spugna dello Stato nei confronti della mafia. In quell'occasione affermò che si stava distruggendo il pool antimafia. A seguito dell'intervista a L'Unità e a La Repubblica venne deferito al Csm che però non ebbe il coraggio di prendere dei provvedimenti disciplinari».

Suo fratello capiva molto bene i giochi sotterranei della mafia e della politica. Come spiega allora i tentativi di nominarlo capo della Superprocura antimafia e la candidatura a presidente della Repubblica? Non crede che esporre la sua figura servisse soltanto ad indebolirlo fino a renderlo un bersaglio da eliminare?
«L'idea è che certi coinvolgimenti non servissero altro che ad aumentare il rischio intorno alla sua persona. Non tanto per la candidatura alla presidenza della Repubblica che poteva lusingarlo. Ma per la nomina a capo della Superprocura antimafia. Era chiaro, infatti, che questo portava la mafia a vendicarsi. Mio fratello rimproverò all'allora ministro Scotti di non avergli preannunciato nulla di quello che stava accadendo. Ricordo anche che gli telefonai e che mi rispose confermandomi la sua disponibilità ad accettare quella carica a patto però che le misure di sicurezza intorno alla sua persona cambiassero radicalmente».

A distanza di anni ci può spiegare perché alcuni magistrati di allora hanno denigrato due eroi come Falcone e Borsellino?
«Ricordo che Paolo chiamò giuda un esponente del Csm. Questo giudice era Vincenzo Geraci, che aveva fatto credere a Caponnetto e Falcone che fossero stati raggiunti i voti necessari per poter nominare Falcone come successore di Caponnetto. In seguito le cose andarono diversamente e lo stesso Geraci votò contro Falcone, favorendo l'elezione di Meli che ostacolò l'attività di Giovanni e portò allo smembramento del pool. Falcone decise allora di andare a lavorare al ministero di Giustizia. Cosa che si rivelò positiva perché riuscì a sfruttare anche questo campo di battaglia e fece applicare il meccanismo di rotazione anche all'interno della Cassazione. Ciò significò l'esclusione dell'"l'ammazzasentenze" Corrado Carnevale dal maxiprocesso, che venne affidato a un'altra sezione. E le condanne emesse in primo grado vennero confermate. Questo provocò la reazione selvaggia della mafia con l'uccisione di Salvo Lima, di uno dei cugini Salvo».

La congiura di certi giudici in quale misura spaventava suo fratello? Di cosa aveva paura?
«Quello che Paolo poteva temere sta venendo fuori adesso in maniera lampante con la deposizione fatta da due magistrati che facevano parte del suo staff a Marsala. Questi colleghi nel '92 lo andarono a trovare e lo trovarono distrutto. Mio fratello piangendo gli disse di essere stato tradito da un amico. Questi erano i reali pericoli all'interno della magistratura. Probabilmente un amico, forse un magistrato, ha causato direttamente l'accelerazione della strage di via D'Amelio».

Su questo ci sono anche delle deposizioni di alcuni pentiti. Giusto?
«Un collaboratore di giustizia, che si chiama Pulci, ha anche raccontato che all'interno delle cosche tutti sapevano che mio fratello si era confidato con un uomo delle istituzioni. Era l'uomo sbagliato perché avvertì le cosche mafiose e, come disse testualmente Pulci, la mafia "fu avvisata di fare la strage"».

Le stragi di mafia sono sempre state piene di misteri. Quando fu ucciso il generale Dalla Chiesa fu aperta la cassaforte nel suo appartamento. A Falcone fu manomesso e cancellato il suo diario sul computer. E a suo fratello sparì l'agenda rossa. Quale legame accomuna tutti questi fatti?
«Mio fratello aveva segnato sull'agenda rossa tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e tutte le valutazioni e le indagini sulla strage di Capaci della quale sosteneva a ragione di essere un testimone. Per questo motivo si aspettava di essere sentito dai magistrati. Ma non fu mai sentito da nessuno e venne ucciso prima che potesse farlo».

Anche qui tante prove, tante indizi, addirittura un uomo che viene visto allontanarsi con la borsa. Ma alla fine non è rimasto nulla, soltanto misteri e domande alle quali non è stata ancora data una risposta. Perché?
«La cosa terribile di tutta questa storia è che nonostante esistano le prove fotografiche della persona che ha sottratto la borsa dalla macchina, non si è mai riusciti ad arrivare alla fase dibattimentale di un processo. Questi processi, evidentemente, non dovevano andare avanti».

Paolo Borsellino a un certo punto disse anche alle persone più care «di aver capito tutto». Che cosa aveva capito?
«Quello che aveva capito lo ha lasciato detto nell'intervista a Fabrizio Calvi e a Jean Pierre Moscardo, un video mai trasmesso in Italia e che ora è possibile trovare su Internet. Mio fratello disse che erano in atto dei contatti tra la mafia e la politica e tra Cosa Nostra e alcuni imprenditori del Nord per portare avanti certe strategie per entrare nel mondo finanziario e in quello della politica. Lui lo lasciò detto in una frase che disse anche mia madre. "Sto vedendo la mafia in diretta". È chiaro che non parlava della mafia che aveva sempre combattuto, ma di qualche altra cosa: cioè la commistione tra mafia, politica, istituzioni e servizi segreti. Stava vedendo qualcosa di nuovo e lo aveva capito dopo le dichiarazioni di Gaspare Mutolo, che gli stava parlando di Signorino e di Contrada. Deve essere stato terribile per lui incontrare Contrada e Parisi proprio pochi minuti dopo che Mutolo gli aveva raccontato tutto questo».

Ora si parla di Castel Utveggio come del luogo dove materialmente è partito il comando per far esplodere l'auto parcheggiata in via D'Amelio. Lì c'era un ente che fungeva da copertura per i servizi segreti e da dove sono partite delle telefonate durante i giorni precedenti alla strage e forse anche subito dopo. Dopo tanti anni è questa la pista giusta?
«Sono tre anni che continuo a parlare del Castel Utveggio. Ora finalmente ci sono dei giudici seri a Caltanisetta e a Palermo e poi ci sono le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di Vito. Il fatto che parli solo ora non deve sorprendere perché più volte ha sostenuto che certe domande prima nessuno gliele aveva mai fatte. E oggi tutto questo è finito anche sui giornali e finalmente si comincia a parlare di quello che avvenne a Castell Utveggio in quei giorni».

Lei però non ha mai avuto dubbi e ha sempre confidato su quella pista seguendo le intuizioni di Gioacchino Genchi, che per primo indicò quel posto come il punto cardine di tutta la strage di via D'Amelio.
«Oggi tutti parlano e ricordano, come ha fatto Ayala su Mancino. E i giudici ex colleghi di Paolo dopo tanti anni di silenzi vanno a deporre a Caltanisetta. Da mesi si parla di trattativa tra lo Stato e la mafia e si dà per scontato che ci sia stata. Si parla di Castel Utveggio in cui c'era un centro del Sisde. Da lì, come ha dimostrato Gioacchino Genchi, ci fu una telefonata che raggiunse una barca nel golfo di Palermo dove c'era Bruno Contrada con altri funzionari del Sisde. Poi lo stesso Contrada fece una telefonata, forse al Castello Utveggio o forse al centro dei servizi di via Roma, per chiedere che cosa era successo. Lì gli venne comunicato che era morto Paolo Borsellino. Tutto questo accadde 140 secondi dopo la strage. Ed è davvero strano perché io, che ero suo fratello, ebbi la certezza della sua morte soltanto cinque ore dopo».

Teme che la morte di suo fratello possa essere strumentalizzata per portare a compimento progetti di tutt'altro genere anziché per ristabilire la verità storica e fare veramente giustizia sul ruolo dei colpevoli e dei mandanti?
«Spesso mi chiedo da cosa nasca tutto questo interesse. Prima c'era gente che non ricordava e che ora ricorda e altri che prima non parlavano che adesso parlano. Sicuramente è in atto la fine di un ciclo di equilibri nati dopo la fine del '92. Questo forse porterà a un equilibrio nuovo. Che stia cambiando qualcosa lo dimostra anche quello che sta accadendo al presidente del Consiglio. Improvvisamente spuntano registrazioni, foto e sembra quasi che qualcuno abbia deciso che si deve cambiare qualcosa. Genchi dice sempre "chi di servizi ferisce, di servizi perisce". E mi trova pienamente d'accordo. Qualcuno sta mettendo sul tappeto degli elementi per destabilizzare questo equilibrio e crearne uno nuovo. Purtroppo non mi aspetto che le cose migliorino. Dopo Andreotti alla guida dell'Italia è arrivato Berlusconi e dopo Berlusconi non può arrivare che qualcosa di peggio».

Paolo Borselino in un discorso definì la lotta alla mafia come un movimento culturale e morale che deve abituare tutti «a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Che cosa manca all'Italia per sentire il fresco profumo di libertà?
«La gente, in Italia, si trova meglio a stare nel puzzo del compromesso e della indifferenza piuttosto che sentire il fresco profumo di libertà. Forse siamo una Paese fatto di gente abituata a tenere la testa per terra con qualcuno sopra che ce la schiaccia. Siamo un Paese schiavo di un potere che facendo strage della nostra Costituzione, che sta distruggendo l'indipendenza dei poteri e che sta togliendo ai magistrati e alle forze dell'ordine i mezzi per poter esercitare le loro funzioni. Siamo uno Stato che con lo scudo fiscale sta facendo del puro e semplice riciclaggio di Stato con la garanzia dell'anonimità. Che cos'altro le devo dire?».

Mi dica come vede il futuro...
«Dobbiamo aspettarci che gli avvenimenti precipitino. Spero che almeno all'interno di questi avvenimenti si riuscirà ad avere un barlume di verità. Perché solo così si guadagnerà qualcosa. E magari verrà fatta giustizia di tutti questi morti, compreso mio fratello sul quale da troppi anni è calato un silenzio davvero insopportabile».

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