del 15 novembre 2009
di Sandra Amurri
(Giornalista)
Carlo Azeglio Ciampi, nella prefazione, definisce “militante” l’impegno di Umberto Ambrosoli, autore di “Qualunque cosa succeda” (Sironi editore), avvocato penalista, figlio di Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona, ucciso da un sicario nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 1979. Libro che oggi alle 17.30, sarà presentato a Porto Sant’Elpidio a Villa Baruchello nella VI edizione del Premio letterario nazionale “Paolo Volponi”: “Letteratura e impegno civile” iniziato ieri a Urbino, sua città natale, che si svolgerà fino al 17 in diversi luoghi della provincia di Fermo e che vede tra i finalisti “Lotta di classe” (Einaudi) di Ascanio Celestini, “Cristi polverizzati” (Le lettere) di Luigi Di Ruscio e “Il contagio” (Monda-dori) di Walter Siti. Storie, quelle di Ambrosoli e Volponi, di uomini incollati al presente e uniti da una visione ideale molto forte. Persone che hanno affermato, in ambiti e con modalità diverse, la propria libertà con se stessi restando ciò che erano, e con gli altri rifiutando i compromessi, i ricatti della politica. La scelta, dunque, di presentare al Premio Volponi, un libro di rara intensità, convincente e commovente, scritto da un figlio affinché i suoi figli comprendano “quale esperienza eccezionale sia essere uomini, cittadini, genitori e costruire con la propria vita la società in cui si desidera vivere”, rafforza quella definizione di “militanza”.
Militanza che per Umberto è vivere “sentendosi parte di un bene comune facendo il proprio dovere” sottolineando, senza mai scadere nella retorica, che “Altri avevano rifiutato quell’incarico come una grana da schivare” che suo padre “accettò con senso di responsabilità senza combattere nessuna guerra santa” perché “ciascuno di noi ha la possibilità di dare il meglio… Che si tratti della famiglia, della propria città, dell’azienda nella quale lavora o dell’interesse generale del paese è solo una questione di opportunità di scelte”. “E che ritroviamo negli scritti di Volponi in quel rispetto del paesaggio che si fa abitare, nella descrizione della fabbrica come luogo disumano denso di umanità, che nasce dalla passione per l’umanità anche un po’ folle di cui i suoi personaggi sono densi. E nella sua consapevolezza che non tutto è perduto: “Il nostro è un paese sgangherato ma non è ancora morto. E anche nella cultura, nella letteratura, perché non siamo tutto e soltanto nella televisione , tutto e soltanto nella plastica. C’è ancora molto che freme, frigge, farnetica”. E’ il credere che l’esempio educhi e che di esempi l’oggi, così ricco e diseguale, sia maledettamente povero. “Muovendo lo sguardo da quei giorni all’oggi, mi sembra che l’unica vera differenza stia in una maggiore sfrontatezza” osserva Umberto Ambrosoli nel praticare un’illegalità diffusa a cui c’è un solo rimedio: “Il rispetto delle regole, che vuol dire che la collettività ci sta a cuore, che riconosciamo la sua supremazia, anche rispetto a ciascuno di noi. La storia di papà dimostra che una scelta c’è sempre. E’ l’essere soli che può renderla tragica, ma certo non impraticabile né errata”. Il suo libro è una lezione civica di alto valore, ci insegna a recuperare il significato delle parole che restituisce autenticità ai sentimenti: “Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo” scrive Ambrosoli alla moglie con consapevolezza di ciò che lo attende. Madre che Umberto ringrazia per aver permesso al padre “di essere se stesso fino in fondo, che è stata, ed è, capace di essere sempre al suo fianco”. In quell’eroismo straordinariamente normale: “Siamo abituati a un’immagine di eroismo fatta di persone che gridano, che si mettono alla guida di un plotone o che compiono cose mirabolanti. Mio padre, invece, è la dimostrazione che anche nella tranquillità della vita borghese si può essere chiamati ad essere eroi “imparando ad essere liberi senza prevedere deroghe per se stessi, a non essere moralisti che dicono di no agli altri”, per dirla con Pasolini a cui Volponi scrive dal 1954 al 1975 (lettere raccolte nel volume inedito “Scrivo a te come guardandomi allo specchio” a cura di Daniele Fioretti, presentato ieri ad Urbino), ma donne e uomini morali che dicono no solo a se stessi.
Riassunto nello struggente augurio che Umberto rivolge a Giorgio, Annina e Martino: “Ai miei figli che nel sangue hanno una ragione in più per fermarsi innanzi ai bivi che li attendono: che vivano fino in fondo la libertà di decidere chi essere”.
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