domenica 25 ottobre 2009

INTERCETTAZIONI ECCO PERCHÈ LA MAFIA NON LE VUOLE

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 25 ottobre 2009

di Antonio Ingroia
(Procuratore della Repubblica Aggiunto di Palermo)


LA CAMPAGNA di (dis-)informazione che ha occupato i mass media e il dibattito pubblico degli ultimi anni ha convinto molti italiani che le intercettazioni sono uno strumento pericoloso ed insidioso, usato in modo liberticida da una magistratura inquirente che tiene di fatto tutti i cittadini sotto controllo. Prevalgono slogan e semplificazioni, di cui sono esempi lampanti l’affermazione tranchant di un politico di lungo corso come l’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella il quale, nel dicembre 2007, ha dichiarato che “Le intercettazioni sono un’emergenza civile”, e le dichiarazioni, non meno drastiche, di un famoso giornalista come Bruno Vespa, il quale, nel corso di un dibattito televisivo piuttosto concitato, ha affermato che “Le intercettazioni sono una schifezza” (sic!).

In tanti pontificano, ma pochi sanno veramente qualcosa sulla pratica attuale delle intercettazioni. Quali siano le intercettazioni oggi rese possibili dalle più moderne tecnologie e che tipo di intercettazione venga usata in prevalenza. E quel che è forse peggio, nessuno sa alcunché circa i risultati delle intercettazioni negli anni. Pochi sanno che è proprio grazie alle intercettazioni che si è fatta la storia giudiziaria del nostro Paese. Ed altrettanto pochi sono quelli che sanno quanto dobbiamo alle intercettazioni: quanti delitti impediti e stragi evitate, quanti assassini individuati e arrestati, quanti cittadini salvati, quante armi recuperate, quanta droga sequestrata. Ma anche quante corruzioni scoperte! […] Bisogna raccontare la storia delle intercettazioni, che è anche la nostra storia.

[…] Pochi sanno che perfino i più importanti processi di mafia, apparentemente fondati solo

sulle chiamate in correità dei collaboranti, sono nati grazie ad alcune fortunate intercettazioni. Prendiamo proprio il maxi-processo, il

più importante processo di

mafia, che non è enfatico definire “storico”, sia per i suoi effetti di (parziale) disgregazione dell’organizzazione mafiosa, sia per il suo esito e cioè la condanna definitiva di gran parte dei 475 imputati decretata dalla Corte di Cassazione il 30 gennaio 1992, sentenza contro la quale Cosa Nostra nella primavera-estate del ’92 reagì con la più violenta strategia stragista della sua storia. Tutti sanno che i pilastri sui quali si fondava l’impianto di quel processo erano le rivelazioni dei pentiti della ‘prima generazione ’ ed in particolare quelle di Tommaso Buscetta. Ma pochi si chiedono come nacque la collaborazione di Buscetta: fu il frutto di un certosino lavoro di investigazione che ebbe come suo epilogo, prima, l’arresto di Buscetta in Brasile, e poi la sua estradizione dall’estero e la sua collaborazione. Ma ancor prima, l’attività investigativa si era concentrata su Buscetta anche in virtù di una fortunata ed importante intercettazione telefonica che ne fece cogliere ancor meglio lo spessore criminale e il ruolo nevralgico in Cosa Nostra, nel pieno della guerra di mafia scatenata dai corleonesi di Riina e Provenzano nei primi anni ’80.

È il 1981, in piena guerra di mafia, quando i poliziotti mettono sotto controllo Ignazio Lo Presti, ingegnere palermitano con parentele eccellenti, essendo sposato con una cugina di Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori siciliani, ricchissimi imprenditori e uomini d’onore, grandi elettori della Dc, che verranno poi inquisiti ed arrestati da Falcone. Ed è proprio durante l’intercettazione del telefono di Lo Presti che vengono ascoltate alcune telefonate intercontinentali, che sono delle vere e proprie richieste di soccorso, Sos che partono da Palermo, da Lo Presti, per conto dei cugini Salvo, e giungono oltreoceano, in Brasile.

All’altro capo del filo c’è un uomo che viene chiamato convenzionalmente ‘Roberto’, ma che si scopre essere in realtà proprio Buscetta, al quale viene caldamente chiesto di tornare in Sicilia. La guerra di mafia impazza e bisogna schierarsi. Solo lui, col suo carisma - gli dicono - può fermare la furia omicida dei corleonesi. Buscetta capisce che non è aria per lui, che la guerra è persa, che i corleonesi, i più sanguinari e “tragediatori” di tutti, hanno ormai cambiato il volto di Cosa Nostra e prevarranno. Perciò, rifiuta la proposta di tornare e di mettersi a capo di coloro i quali sono destinati a diventare ‘i perdenti’, le famiglie mafiose facenti capo a Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e così via. Ma quella telefonata è come un flash, un improvviso fascio di luce che investe Buscetta, ne evidenzia l’importanza ed il ruolo, ne contrassegna la localizzazione. Ecco allora che gli investigatori moltiplicano gli sforzi per arrestarlo, alla fine riuscendovi. Ed è da quell’arresto che inizia tutto. Il terremoto giudiziario da cui nascerà tutto quel che venne dopo […].

Chi sa di mafia ricorda certamente che fra le pietre miliari dell’antimafia giudiziaria c’è il ‘processo dei 114’, che mise alla sbarra per la prima volta Luciano Leggio, la primula rossa di Corleone, il primo capo storico dei corleonesi. Un processo dalla storia insanguinata, fondato sul famoso ‘rapporto giudiziario dei 114’ firmato dall’allora capitano dei carabinieri Giuseppe Russo, poi ucciso il 20 agosto 1977 a Ficuzza, una borgata a due passi da Corleone, e successivamente istruito dal giudice Cesare Terranova, anch’egli ucciso dalla mafia a Palermo il 25 settembre 1979. E su cosa si fondava quell’istruttoria, se non su un mosaico probatorio costituito prevalentemente da intercettazioni telefoniche, accompagnate da notizie processualmente inutilizzabili come quelle di derivazione confidenziale, ed elementi di contorno quali - ad esempio - il frutto dei causali controlli nei confronti di alcuni mafiosi risultati effettivamente in rapporto di frequentazione con altri soggetti sospettati di appartenere alla medesima ‘consorteria criminale’ (così veniva definita nella prosa dei vecchi rapporti di polizia).

E perfino fin dalle prime battute dell’indagine sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro avvenuta a Palermo il 16 settembre 1970, registrazioni e intercettazioni furono al centro dell’attenzione degli investigatori, così come lo sono tuttora, più di trent’anni dopo, nel processo attualmente in corso davanti alla corte d’assise di Palermo a carico di Totò Riina, l’erede di Leggio. Si favoleggia di un’intercettazione mai trascritta e mai più ritrovata (distrutta da qualcuno?), di una telefonata proveniente da Parigi con la quale Vito Guarrasi, uno degli uomini più potenti di Palermo, avrebbe incaricato Antonino Buttafuoco, commercialista palermitano sospettato di essere emissario dei rapitori, di verificare presso la famiglia De Mauro cosa avesse scoperto il giornalista. Così come, ancora oggi, è al centro di accurati approfondimenti, anche tecnici, la registrazione dell’ultimo discorso pubblico di Enrico Mattei a Gagliano Castelferrato, un paesino in provincia di Enna. Un nastro scoperto da Mauro De Mauro che - ricordano i familiari - il giornalista ascoltava e riascoltava ossessivamente col suo registratore per cogliere meglio una frase pronunciata da qualcuno, che stava sul palco con Mattei, e che era stato registrata accidentalmente ed a sua insaputa. Una sorta di intercettazione ambientale involontaria ed ante litteram, che De Mauro riteneva costituisse la chiave per svelare il giallo del disastro aereo di Bascapè ove si è ormai accertato che Mattei venne ucciso. Un’intercettazione su cui oggi si è riaccesa l’attenzione, perché ritenuta la possibile chiave anche del sequestro e poi della soppressione di De Mauro, motivo per cui è ripartita la caccia all’originale della registrazione, mentre si fanno sofisticate perizie per “ripulire” la traccia sonora contenuta nelle copie che di quell’intercettazione circolano.

L’elenco sarebbe lunghissimo. Le intercettazioni casuali hanno spesso svolto un ruolo fondamentale in tante importanti inchieste. Mi riferisco alle conversazioni intercettate nei confronti di soggetti mai sottoposti a intercettazione diretta, ma colti in conversazione con personaggi già oggetto di indagine e perciò sotto controllo, le ‘intercettazioni indirette’ che hanno tante volte consentito di scoprire reati, individuare criminali, prevenire delitti. Nel processo a Bruno Contrada (poi condannato in via definitiva a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa), si è accertato ad esempio che nel 1983 l’imputato, quando era capo di gabinetto dell’alto commissario antimafia, intratteneva rapporti con Nino Salvo, il potente esattore legato alla mafia, che in quel periodo era oggetto delle indagini di Falcone, che ne disporrà poi l’arresto e che rimase piuttosto interdetto per il fatto che Contrada non gli avesse mai fatto menzione di quei contatti telefonici come sarebbe stato suo dovere. E dell’esistenza di tali rapporti Contrada-Salvo Falcone prima, e i giudici del processo Contrada poi, ebbero notizia e prova soltanto per effetto di un’intercettazione casuale e diretta di una conversazione registrata sull’utenza telefonica in uso a Nino Salvo, allora messo sotto controllo su provvedimento di Falcone […].

E che dire delle intercettazioni ambientali? È noto che si tratta di uno dei più preziosi strumenti per indagare sulle organizzazioni segrete, segretezza che va violata per cogliere notizie dall’interno del sodalizio criminale. Una buona microspia, piazzata nel luogo giusto, può fare sfracelli più di qualsiasi altro mezzo di prova. Bastano capacità investigative e un pizzico di fortuna. Cose che non mancarono alle giubbe rosse canadesi che, un giorno del lontano 1976, riusciti ad infiltrarsi nel clan mafioso dell’italo-americano Paul Violi, imbottirono di microspie la sua latteria, intercettando così preziosissime conversazioni, di grande utilità per ricostruire le dinamiche e le organizzazioni criminali operanti in Québec, ma che rivelarono anche i traffici illeciti e gli stretti legami fra la criminalità di Montreal e boss siciliani di spessore come i Cuntrera e i Caruana. Non solo. Perché quelle intercettazioni svelarono anche la struttura di Cosa Nostra della provincia di Agrigento, in anticipo rispetto alle rivelazioni di Buscetta, sicché, quando finalmente vennero conosciute dal pool dell’ufficio istruzione di Palermo, furono utilizzate a conferma delle risultanze istruttorie del maxiprocesso […].

Nulla sapremmo oggi della strage di Capaci, dove il 23 maggio 1992 perse la vita Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e i poliziotti di scorta, se non vi fosse stata un’intercettazione chiave. Tutti sanno quanto determinanti furono le rivelazioni sulla dinamica della strage fatte da Santino Di Matteo, uno dei componenti del commando che uccise Falcone sistemando il tritolo in un cunicolo sottostante l’autostrada, ma nessuno ricorda che quella rivelazione fu il frutto di un lungo lavorio investigativo che trovò i suoi primi risultati importanti proprio in un’intercettazione, ambientale questa volta. Fu un altro collaboratore di giustizia, Pino Marchese, il primo pentito dei corleonesi, ad aprire uno spiraglio di verità indicando come soggetti specialmente pericolosi Antonino Gioè e Gioacchino La Barbera, due mafiosi all’epoca poco noti. Il suo ‘suggerimento’ venne subito accolto e si avviò una massiccia attività di indagine su quei due uomini: intercettazioni telefoniche, pedinamenti, microspie nei locali da loro frequentati, attività di osservazione, ventiquattr’ore su ventiquattro. Si arrivò così al covo di via Ughetti, appartamento che, opportunamente microfonato, consentì l’ascolto e la registrazione della conversazione in cui i due fecero esplicito riferimento alla strage di Capaci, chiamata appunto l’attentatone, facendo intendere il loro personale e diretto coinvolgimento nella strage. Fu così che quell’intercettazione indirizzò le energie investigative su un gruppo di soggetti, quelli più vicini a Gioè e La Barbera. Da lì nacque un’imponente operazione di polizia che si concluse con l’arresto di tanti mafiosi, fra cui proprio i due protagonisti del colloquio. Ciascuno di loro ebbe poi una reazione diversa. Gioè, roso dai

sensi di colpa verso Cosa Nostra per essersi fatto cogliere nell’atto di commentare la strage e

preoccupato del suo futuro, decise di farla finita e si tolse la vita in carcere (e i dubbi talvolta emersi su quel suicidio non hanno poi trovato conferma). La Barbera, subito dopo il “pentimento” di Di Matteo, iniziò anch’egli a collaborare ed aiutò così in modo decisivo a individuare e punire gli esecutori della strage. Del resto, lo stesso Santino Di Matteo, che fu il primo ad autoaccusarsi della strage, venne arrestato soprattutto sulla base dell’esito di quell’attività d’intercettazione, cosa che poi lo indusse a collaborare.

Riepilogando, tutto parte dall’intercettazione di via Ughetti, cui seguono la collaborazione di Santino Di Matteo, quella di La Barbera, fino a quella di Giovanni Brusca, colui il quale premette il pulsante del telecomando che azionò l’ordigno esplosivo di Capaci. Anche in questo caso, dunque, ancora una volta un’intercettazione ha fatto da sasso che ha scatenato una valanga. La valanga di collaborazioni sulla strage di Capaci da cui sono derivati arresti a centinaia, decine di processi, miriadi di ergastoli e condanne, sequestri e confische di interi patrimoni per svariati milioni di euro.

Le intercettazioni hanno avuto ruolo decisivo anche nella rivelazione di relazioni imbarazzanti sul delicato crinale dei rapporti collusivi fra mafia e politica, mafia e affari, mafia e istituzioni, sullo scivoloso terreno della contiguità mafiosa, livello al quale non sempre giungono le rivelazioni dei collaboratori, non al corrente delle relazioni più riservate che i capimafia preferiscono tenere per sé e non comunicare all’interno dell’organizzazione criminale se non quando indispensabile. Talune intercettazioni acquisite in processi come

quelli al senatore Marcello Dell’Utri e al

senatore Salvatore Cuffaro ne sono eloquenti esemplificazioni. Fra tutte, una delle più storiche è rimasta quella in cui Vittorio

Mangano, il famoso stalliere di Arcore, parla di cavalli che devono essergli recapitati presso un hotel. Si tratta dell’intercettazione ricordata nella famosa intervista rilasciata nelle sue ultime settimane di vita da Paolo Borsellino, il quale, dopo aver definito Mangano “una delle teste di ponte dell’organizzazione mafiosa nel nord Italia”, ed aver evidenziato che nelle telefonate intercettate col termine “cavalli” si alludeva a partite di eroina, commentò ironicamente “se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo o comunque al maneggio, non certamente dentro l’albergo”.

Per aiutare il lettore vorrei anche rammentargli che il Vittorio Mangano di cui parlava Borsellino in questa intervista è lo stesso mafioso definito eroe da Marcello Dell’Utri e perfino dallo stesso Presidente Berlusconi. Per non parlare delle intercettazioni degli anni ’80, acquisite nel processo Dell’Utri, relative a conversazioni telefoniche fra quest’ultimo e il mafioso Gaetano Cinà, o quando lo stesso Dell’Utri parla di Vittorio Mangano con Silvio Berlusconi. Ed ancora altre intercettazioni, di epoca più recente, fra cui quelle delle conversazioni telefoniche intrattenute dallo stesso Dell’Utri, ora con un collaboratore di giustizia per incontrarlo e - secondo l’accusa - per influire sulle sue dichiarazioni nel suo processo, ora con la sorella del trafficante di droga Vito Roberto Palazzolo che gli chiede un intervento per aiutarlo in alcuni problemi giudiziari. Il che dimostra che è un falso luogo comune presentare i più noti processi per fatti di mafia nei confronti di personaggi pubblici come fondati sulle sole dichiarazioni accusatorie di collaboratori di giustizia, in quanto molto del materiale probatorio è costituito invece da intercettazioni, il cui materiale d’accusa proviene dalla stessa voce dell’accusato , dalle sue stesse parole.

Non parliamo, poi, delle intercettazioni nei processi per reati finanziari o contro la pubblica amministrazione, materie nelle quali è oggi estremamente difficile disporre di prove testimoniali, sicché solo le intercettazioni consentono salti di qualità alle possibilità di approfondimento investigativo. Dalla famosa microspia del bar Mandara che registrava le conversazioni fra magistrati del processo Squillante a quelle più recenti fra Gianpiero Fiorani e il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio che hanno determinato le dimissioni di quest’ultimo, fino alle indagini su Calciopoli, Unipol, i ‘furbetti del quartierino’ e così via.

Non c’è indagine di rilievo su questo terreno, ormai, che non abbia nelle intercettazioni, telefoniche o ambientali, la parte più consistente della sua piattaforma probatoria. E pur senza confondere le intercettazioni vere e proprie con la mera acquisizione dei dati di traffico telefonico, i cosiddetti “tabulati” delle chiamate in entrata ed in uscita di una certa utenza telefonica, non si può tuttavia trascurare l’apporto conoscitivo, tutt’altro che indifferente, che questo tipo di ulteriore opportunità investigativa ha fornito a tantissime indagini di prim’ordine, da quelle per fatti di criminalità organizzata, mafiosa, terroristica e comune, a quelle per altri delitti.

Di recente sono tornati alla ribalta i tanti, troppi misteri attorno alla strage di via D’Amelio, ove un’autobomba della mafia (e probabilmente non solo mafia) fece saltare in aria Paolo Borsellino con i suoi agenti di scorta sotto casa dell’anziana madre che era andato a trovare. Ebbene, le piste principali battute in questi anni hanno a che fare proprio con tabulati ed intercettazioni. Dai tabulati sono emersi strani contatti con il Cerisdi, un centro studi che ha sede su Monte Pellegrino, la montagna che sovrasta Palermo, luogo ove sembra si trovasse una sorta di base operativa del Sisde, da dove si è perfino ipotizzato che potesse essere stato azionato il telecomando dell’autobomba di via D’Amelio, e tali contatti coinvolgevano anche un uomo legato alla mafia, dipendente di una società telefonica, a sua volta sospettato di avere messo illecitamente sotto controllo le utenze telefoniche in uso a Borsellino e ai suoi familiari, ed avere perciò intercettato le telefonate con le quali Borsellino aveva preannunziato alla madre la sua visita in via D’Amelio nel pomeriggio di quella maledetta domenica 19 luglio 1992. Per non parlare delle altre strane triangolazioni telefoniche fra personaggi, luoghi, ambienti, sospettati di essere coinvolti nella determinazione, organizzazione ed esecuzione della strage. Certo, è un peccato che proprio ora, che si sono aperti nuovi squarci di luce su una vicenda rimasta troppo a lungo nell’oscurità dei depistaggi, della verità occultata e della giustizia negata, non sia possibile acquisire i dati del traffico telefonico di quelle utenze che appaiono oggi di interesse investigativo, perché la normativa che tutela la privacy dei cittadini lo impedisce.

Peraltro, accanto alla storia delle grandi indagini, che hanno appassionato l’intero Paese e che tanti italiani conoscono, non va poi dimenticata l’utilità delle intercettazioni nella giustizia ordinaria, quella più vicina alla vita quotidiana del cittadino. Rievocando la mia esperienza personale, ricordo una miriade di casi giudiziari che hanno trovato soluzione grazie a intercettazioni telefoniche. Fra gli altri, c’è un caso di omicidio apparentemente irrisolto che mi è rimasto ben impresso, probabilmente perché capitatomi agli inizi della carriera, Pubblico Ministero alle prime armi nell’ufficio di Marsala il cui procuratore capo era Paolo Borsellino. Caso difficile e destinato ad affollare gli archivi giudiziari dei tanti omicidi senza colpevoli, specie nella terra dell’omertà e dell’impunità. Le modalità del delitto dicevano poco. La vittima, un benzinaio, era stato ucciso da un ignoto assassino che lo aveva atteso quando l’uomo si era recato, come ogni mattina, sul posto di lavoro per aprire la sua pompa di benzina e gli aveva sparato con un fucile. Un classico agguato che poteva far pensare ad un omicidio di mafia, magari destinato all’archiviazione. Diversamente dal solito, però, nella perquisizione nella pompa di benzina fu trovato qualcosa di interessante e inconsueto. Un biglietto, ove la vittima aveva annotato qualcosa in modo criptato, una sorta di crittogramma dalla cui decifrazione si ricavò una frase agghiacciante: “se mi uccidono è stato…” con l’indicazione di un cognome. Nel frattempo, una fonte anonima segnalò alla polizia una relazione extraconiugale fra la moglie della vittima ed un uomo che portava il cognome cripticamente indicato nel biglietto. Questi elementi consentirono di mettere sotto controllo il telefono della vedova e di intercettare una conversazione fra i due amanti clandestini dal tenore inequivocabile. Non so quale sia stato l’esito del processo perché io poi mi trasferii alla Procura di Palermo seguendovi Paolo Borsellino che, nel frattempo, vi era stato nominato procuratore aggiunto della direzione distrettuale antimafia, ma è certo che solo quell’intercettazione aprì uno spiraglio di luce su una vicenda buia e senza verità.

Detto per inciso, se il disegno di legge governativo oggi all’esame del Parlamento, fosse stato disciplina vigente all’epoca dei fatti, quell’intercettazione sarebbe stata impossibile, perché mancavano, prima dell’intercettazione, gli “evidenti indizi di colpevolezza” a carico dei due sospettati che il progetto di riforma prevede quale presupposto indefettibile per l’ammissibilità dell’intercettazione. Quello spiraglio di luce non si sarebbe mai aperto. Quanti altri ne rimarranno chiusi per sempre nel prossimo futuro? […]

E ricordo anche un altro episodio di quel mio primo periodo a Marsala, straordinario apprendistato al fianco di un fuoriclasse come Paolo Borsellino, il mio maestro. Si trattava di un’indagine per voto di scambio con l’incriminazione di un (allora) importante politico locale. Altri tempi, tempi in cui Mani Pulite era ancora lontana, lontana la debolezza della politica e la reazione popolare che accompagnò quella stagione. Erano le prime avvisaglie del disvelamento di un sistema che ancora una volta emerse spontaneamente dai “loro” discorsi, dalle conversazioni di faccendieri ed uomini politici. Roba da fare rizzare i capelli nell’Italia di quei tempi (che in seguito ne avrebbe viste molte di più e di peggio) tanto che Borsellino mi disse: “è roba da fare tremare i polsi, ma è il nostro dovere e bisogna andare sino in fondo!”. E così facemmo. Il principio cardine della nostra carta costituzionale, che fa tutti i cittadini eguali di fronte alla legge, anche quella penale, ce lo imponeva e così facemmo. Fu quella la nostra bussola, anche negli anni a seguire. È forse questo il vero problema? È forse per questo che da anni ormai, anno per anno, si succedono leggi che finiscono per (o meglio hanno proprio la finalità di) indebolire l’azione della magistratura, come il disegno di legge di controriforma delle intercettazioni? È forse per questo che ci si impegna ad estendere le zone di impunità, come le leggi che hanno ampliato prerogative ed immunità parlamentari e istituzionali, o quelle che hanno ristretto tempi e per l’acquisizione delle prove (intercettazioni e collaboratori) e per la chiusura dei processi (diminuendo i tempi per la prescrizione dei reati ed allungando i tempi del processo)? Voi che ne dite?

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