sabato 17 ottobre 2009

I calzini del giudice

Dal Quotidiano La Repubblica
del 17 ottobre 2009

di Livio Pepino
(Componente del Consiglio Superiore della Magistratura)


Caro direttore, la storia non è nuova.

Per la maggioranza di governo, per il suo leader e peri suoi cortigiani giustizia è sinonimo di utilità: «E giusto non ciò che rispettale regole ma ciò che conviene».

Così, ci si sorprende se le decisioni giudiziarie non sono oggetto di private trattative e non realizzano scambi di favori (che si vorrebbero richiesti finanche dal capo dello Stato).

Ma oggi si è fatto un passo ulteriore sulla via della barbarie. Il giudice indisponibile a considerare le sentenze merce di scambio o ossequio al potente viene indicato come bersaglio (con numero telefonico e indirizzo di abitazione) su un quotidiano della famiglia del premier e i suoi spostamenti quotidiani vengono ripresi da giornalisti (sic!) di una televisione di proprietà del premier (che ne accompagnano la diffusione con commenti sarcastici sul suo passeggiare da solo, sul suo aspettare il turno dal barbiere e sul colore dei suoi calzini).

Non conosco il giudice Mesiano, come non conosco gran parte degli 8.000 magistrati italiani.

Non so se coltivi stranezze e non mi interessano la foggia e le caratteristiche dei suoi indumenti.

Non mi appassionano le sue conversazioni al ristorante (captate da un anonimo avvocato più attento ai discorsi dei vicini che alla compagnia dei propri familiari e dotato di una memoria a scoppio ritardato).

Ma ho lettole 142 pagine della sentenza con cui quel giudice (l’oscuro giudice Mesiano, privo di scorte e uso – cosa incomprensibile ai cortigiani del premier – ad aspettare rispettosamente il turno dal barbiere ...) ha motivato la condanna della Fininvest a risarcire la Cir per i danni «a lei cagionati dalla corruzione del giudice Vittorio Metta».

Sono motivazioni rigorose e oneste.

Non sta a me discuterne la maggiore o minor fondatezza.

Su di esse si pronuncerà, come previsto dal nostro sistema, la corte di appello.

Ma non può sfuggire ai cittadini onesti il senso della operazione messa in atto nei confronti del suo estensore: da un lato, delegittimare la sentenza e renderla non credibile, dall’altro intimidire i giudici che in futuro dovranno occuparsi di controversie analoghe.

Il messaggio è chiaro: il magistrato non può – non deve – emettere decisioni sgradite. Altrimenti è un nemico (silenzioso o protagonista che sia ...).

Gli altri – anche se corrotti – possono stare tranquilli: non conosceremo mai il colore dei calzini del giudice Metta e degli intermediari della sua corruzione, né saremo informati delle loro passeggiate, dello shampoo preferito dal loro barbiere, del loro indirizzo di casa, del loro numero telefonico.

Guai a considerare ciò che accade (solo) una circoscritta sgradevolezza di alcuni cortigiani troppo solerti!

La storia insegna a quali rischi siamo esposti.

Non è inutile ricordare la situazione dell’età dell’imperatore Commodo, descritta dallo storico E. Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano: «L’attuazione delle leggi era diventata venale e arbitraria» e «un criminale benestante poteva non solo ottenere l’annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva».

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