martedì 8 settembre 2009

Contro l'ex delfino i bagliori del fuoco amico

Dal Quotidiano La Repubblica
del 8 settembre 2009

di Filippo Ceccarelli
(Giornalista)


FRANCESCO Storace, che conosce i suoi polli e ha un modo piuttosto sbrigativo di leggere i fatti della politica e di anticiparne le brutali ripercussioni sul potere, ha detto ieri: "È cominciata l'operazione per far fuori Fini". Non è detto che vada in porto, in genere sono partite lente e complicate.

Ma certo vale quel che vale, e quindi molto poco, l'assai tardiva messa a punto del principale usufruttuario di quell'impresa. Il presidente Berlusconi non sapeva, "com'è ovvio", dell'articolone anti-Fini sul Giornale; e quanto alla stima e vicinanza espressa soltanto in serata al presidente della Camera, beh, l'esperienza insegna che non di rado la retorica delle formule nasconde l'esatto contrario di ciò che viene detto.

Da che mondo è mondo, ogni sovrano assoluto - e il Cavaliere lo è - si concede il graziosissimo lusso di incoraggiare o prendere le distanze a seconda delle convenienze. La chiacchiere, come si dice, stanno a zero e nei rapporti personali fra i potenti contano solo i fatti - e a volte nemmeno quelli.

Con tale premessa si può stare sicuri che, anche stavolta, il messaggio è arrivato a destinazione. Nella migliore delle ipotesi, Fini può e anzi deve velocemente rientrare "nei ranghi". Nella peggiore, esposta da Storace, si è dato inizio a una defenestrazione "dai ranghi" del Pdl. Mentre l'esito intermedio prevede un realistico dispiegamento di forze, atmosfere e obiettivi al centro del quale è oggi in palio non solo il rango, ma lo stesso futuro politico di Gianfranco Fini, antico alleato divenuto un serio pericolo per il berlusconismo reale e applicato.

La novità del caso è che in questa categoria si può comprendere non solo la Lega e l'intera entità che faceva riferimento a Forza Italia, con i due coordinatori del Pdl Bondi e Verdini, ma ormai anche la maggior parte degli ex colonnelli di An. Dagli arzigogoli di La Russa alla freddezza di Gasparri, dal tiepido argomentare di Alemanno al mutismo di Matteoli, per la prima volta si è capito quanto poco Fini possa contare su quelli che per un quindicennio, in verità, ha tenuto sotto come tacchini.

E sembra adesso, la loro, quasi una reazione psicologica e liberatoria, la fine di una lunga tutela. Tutti ieri si sono più o meno debolmente concentrati sulle accuse di Feltri, dimenticando Bossi che del loro ex leader aveva detto, lo stesso giorno: "Quello è matto". E anche qui, più delle parole, che nulla pesano quando sono formali, reticenti e insincere, pesano i silenzi.

Ma soprattutto pesa, a pensarci bene, quel senso di inconfessabile ineluttabilità, quella specie di conclusione annunciata, quel destino sfuggente, ma sufficientemente chiaro, che già s'indovinava al congresso fondativo del pdl, quando Fini fece da perfetto guastafeste al trionfo del Cavaliere. O forse prima ancora, nell'inverno del 2007, allorché per ragioni rimaste misteriose, eppure elettoralmente comprensibili, comunque si fece rientrare le più accese paturnie anti-berlusconiane - "siamo alle comiche finali", "ho menato come un fabbro" - e senza tante storie aderì al progetto del predellino.

Ecco. In una vita pubblica in cui da tempo le idee e i progetti lasciano un po' il tempo che trovano, un po' si fatica a entrare nella disputa se l'attuale presidente della Camera sia di destra o meno; se abbia tradito qualcuno o qualcosa in nome di qualche cos'altro. Certo il ruolo istituzionale ne preserva l'azione. Ma per chi delle istituzioni ha un'idea tutta privata e personale l'impressione, o il sospetto è che nel gioco incessante del potere, Quirinale o non Quirinale alle viste, è che Fini sia infine entrato nel Pdl proprio per controllare il potere del Cavaliere, per impedirgli di costruire una creatura a sua immagine e somiglianza. Per fargli, in definitiva, più male.

S'intende: non sono dinamiche che si vanno a certificare dal notaio; e gli stessi giornale ne scrivono con beneficio d'inventario, seppure onestamente. Eppure la guerra sorda che s'intravede nel campo del Pdl ha tutta l'aria di essere iniziata in questa tubolenta fine d'estate.

Quel che la segna fin d'ora è l'ampiezza del contenzioso che dai temi sensibili dell'immigrazione si sposta di continuo sul versante ora della laicità dello Stato ora del controllo della comunicazione. Senza per questo tralasciare le questioni ormai quasi prevalenti che investono la coerenza personale, gli stili di vita, i comportamenti anche minuti dei leader, dei loro collaboratori e famigliari.

Tutto, insomma, compresa forse l'idea di patria e la politica estera. Fini è certo - lo dice lui stesso - "in minoranza". Ma è difficile, in tale condizione, pensare a un Berlusconi pronto a dividere con lui il potere. Così come negli spazi fisici, palchi, tribune, podi e prosceni televisivi, il Cavaliere non tollera di avere alcuno alle spalle; così è impossibile che accetti anche solo la più remota possibilità che Fini sia una possibile alternativa, tanto più se biologica. E tutto in fondo è ancora pronto a perdonargli, ma non quel che all'ex leader di An sfuggì prima dell'ennesima riconciliazione: "Tanto con me dovrà fare i conti. Non è eterno e io ho vent'anni di meno".

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