del 28 gennaio 2010
di Marco Lillo
(Giornalista)
Le dimissioni sono un atto dovuto quando si è indagati per peculato e truffa aggravata e ora pure per induzione a rilasciare dichiarazioni mendaci, come è accaduto al sindaco di Bologna Flavio Delbono. Il Fatto Quotidiano non ha mai fatto sconti ai politici di centrosinistra pugliesi e abruzzesi coinvolti nei due scandali scaturiti dalle spese allegre nella sanità. Siamo stati i primi a chiedere le dimissioni del governatore del Lazio, Piero Mar-razzo, che pur non essendo indagato si è posto in una condizione oggettiva di ricattabilità infilandosi in una storia di sesso, bugie e videotape incompatibile con la sua carica. Ma non si può continuare a far finta di niente di fronte alla sconcertante disparità di trattamento tra destra e sinistra.
L’applicazione di standard morali che potremmo definire “anglosassoni” ha comportato una vera e propria decimazione della classe politica di sinistra che ha governato città importanti come Roma, Bologna, Pescara e Bari. Mentre premier, ministri e sottosegretari, sindaci e presidenti - per non dire di parlamentari, Marcello Dell’Utri su tutti - accusati di colpe ben più gravi resistono attaccati alle loro poltrone. Proprio alla luce delle dimissioni del sindaco bolognese del Pd per una vicenda di poche centinaia di euro val la pena di rileggere le accuse pendenti contro i principali esponenti del centrodestra. A partire dal suo leader.
Silvio Berlusconi è sotto processo per corruzione del testimone David Mills (già condannato per lo stesso reato), è indagato per frode fiscale e appropriazione indebita per la vicenda Mediatrade. Inoltre il Cavaliere è imputato per accuse fiscali anche nel processo per la compravendita dei diritti tv negli anni passati. Il Cavaliere avrebbe gonfiato per anni i costi di acquisto dei film per creare fondi esteri che servivano a risparmiare le tasse e a nascondere gli utili ai piccoli soci di minoranza di Mediaset, società quotata in Borsa. Quando le sue malefatte sono state scoperte, secondo i giudici, avrebbe pagato il superteste che poteva incastrarlo per nascondere la verità. Di fronte ad accuse così gravi il premier resta saldamente al suo posto e anzi, continua a sfornare leggi ad personam per mettersi al riparo dalle conseguenze penali di indagini e processi.
Non va meglio sul fronte privato. Il Cavaliere, come Marrazzo e Delbono, si è posto in una posizione di oggettiva ricattabilità nell’autunno del 2008 quando cercava disperatamente di tacitare con una parte in una fiction un’attrice che minacciava di raccontare tutto con il megafono e un’altra che “stava diventando pericolosa”. Eppure Delbono e Marrazzo sono nella polvere mentre lui continua imperterrito a proporre candidature alle ragazze che hanno frequentato le sue feste.
Di fronte a cotanto modello, i ministri hanno imparato subito la lezione. L’allievo migliore è certamente Raffaele Fitto. Il ministro per i Rapporti con le regioni, è stato rinviato a giudizio per corruzione e illecito finanziamento ai partiti in concorso con l’editore di Libero e del Riformista Giampaolo Angelucci (il pm contestava anche l’associazione a delinquere e la concussione ma il gip per queste accuse lo ha prosciolto). Fitto è sotto processo per una presunta tangente di 500 mila euro che avrebbe incassato quando era presidente della Puglia dall’imprenditore sanitario con il vizietto dell’editoria. Angelucci avrebbe versato i soldi (in parte usando la società editrice di Libero) al partito di Fitto, “La Puglia prima di tutto” (proprio quello famoso in tutto il mondo per avere candidato Patrizia D’Addario dopo essere stata a letto con il premier). Secondo l’accusa, Angelucci avrebbe foraggiato Fitto per ottenere un appalto da 198 milioni di euro per la gestione di undici cliniche. È interessante notare che Fitto è sotto processo anche per abuso d’ufficio e peculato, per l’uso dei fondi regionali, proprio come Delbono. Invece di dimettersi da ministro, Fitto, avrebbe cercato (secondo quello che racconta un suo amico magistrato al telefono) di colpire con l’aiuto del collega Angelino Alfano - mediante un’ispezione e il blocco della promozione - il pm che aveva osato indagarlo. Per questa vicenda, Fitto e il ministro della Giustizia sono stati indagati dal Tribunale dei ministri, Il Fatto Quotidiano ne ha parlato il 24 settembre ma poi non se n’è più saputo nulla. Ancora peggiore la situazione di Nicola Cosentino. Il sottosegretario all’Economia, se non fosse parlamentare, sarebbe in carcere con l’accusa gravissima di concorso esterno in associazione camorristica. Una decina di pentiti parlano dei suoi rapporti ultraventennali con il clan dei Casalesi. Recentemente è arrivata una seconda richiesta di arresto che il gip Raffaele Piccirillo ha rigettato per corruzione in relazione alla raccolta dei rifiuti in Campania.
Anche Roberto Formigoni, pur non essendo mai stato indagato, è stato pesantemente coinvolto nell’inchiesta milanese sullo scandalo Oil for food. Il regime di Saddam Hussein prendeva mazzette da un’impresa genovese che era stata segnalata con un fax dal presidente della regione Lombardia. Il suo collaboratore Marco Mazzarino De Petro, intestatario di una barca assieme al leader ciellino del Pdl lombardo, è stato condannato a due anni per questa vicenda. Le tangenti, infatti, sarebbero finite in parte (900 mila) sui conti degli iracheni e in parte (700 mila) su quelli della Candonly, una società vicina a Comunione e Liberazione e all’uomo di Formigoni. Il presidente della Lombardia, però, non ha chiesto scusa di avere favorito una lobby che include un dittatore e un corruttore condannato in primo grado. Ha attaccato a testa bassa i pm colpevoli di avere fatto un’indagine “illegale e costosa che si regge sul nulla”. Altro che dimissioni.
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