del 20 gennaio 2010
di Daniele Martini
(Giornalista)
Quando 15 anni fa la prima nave attraccò alle banchine del porto di Gioia Tauro, dissero che quella era una giornata storica per il riscatto della Calabria. Mai previsione si è rivelata più azzardata. Le navi sono continuate ad arrivare a centinaia, ma la rinascita non c’è stata e dopo aver macinato record di traffico e utili, ora anche il porto è investito da una crisi durissima. Da “volano per la crescita”, come allora pronosticava con fiducia e orgoglio il sindaco, Aldo Alessio, lo scalo sta diventando l’ennesimo problema per la Calabria, un problema nel problema dell’arretratezza del sud, a 3 chilometri da Rosarno e dal suo inferno razzista.
ILPORTOELETASSE.Dalpunto di vista dell’ingegneria marittima, il porto è una struttura valida, con 1 milione e 600 mila metri quadrati di superficie e 25 gru distribuite su quasi 3 chilometri e mezzo di banchine profonde fino a 18 metri. Ma dietro la robusta rete metallica eretta a difesa anche simbolica dei moli dalle infiltrazioni della ‘Ndrangheta, c’è il nulla. Sullo scalo ora si abbatte la crisi mondiale dei trasporti marittimi e pure il governo ci mette il carico da novanta. A differenza di tutti gli altri governi del mondo che si danno da fare per arginare le conseguenze del calo dei traffici riducendo o congelando le tariffe, in agosto l’esecutivo di Silvio Berlusconi ha aumentato di colpo, fino al 50 per cento, le tasse portuali e di ancoraggio, con una scelta che sta logorando soprattutto le banchine di Gioia Tauro. Dicono che è stata data attuazione a decisioni vecchie, ma l’associazione di categoria, Assologistica, considera assolutamente “incoerente” il provvedimento.
Da alcuni mesi le navi hanno cambiato rotta e invece di dirigersi su Gioia Tauro, puntano verso altri approdi più convenienti, da Algeciras a Fos-Marsiglia e sugli scali nuovi delMaghreb,daTangeriaPortSaid. Perfino la Maersk, il colosso mondiale che pure è azionista del porto calabrese con il 33 per cento, da mesi preferisce indirizzare altrove lesueportacontainer.Menonavisignifica meno lavoro e quindi cassaintegrazione. La Contship, l’azienda che ha avuto dallo Stato la concessione delle banchine per mezzo secolo, proprio in questi giorni sta avviando le “procedure”, come si dice in gergo, per 400 lavoratori del porto, un terzo del totale. Una mossa forse inevitabile, ma dagli effetti potenzialmente devastanti: lì la cassa è come una bomba ad orologeria innescata su una polveriera, in un momento in cui gli animi ribollono, mentre ancora non si sono spenti i fuochi della guerra tra bianchi e neri a Rosarno.
LE ARANCE. Come in una beffa tragica, quegli scontri sono stati favoriti anche dall’attività del porto di Gioia Tauro. Le navi scaricano proprio qui i fusti pieni di quel succo d’arancia brasiliano dal prezzo così basso che le arance locali stanno andando fuori mercato nonostante lo sfruttamento degli schiavi immigrati per la raccolta. Così il porto, per la cui costruzione negli anni Sessanta furono distrutti chilometri e chilometri di alberi d’arancio e ulivi, a distanza di mezzo secolo si accanisce di nuovo contro le coltivazioni della zona, ponendo le premesse per la loro definitiva marginalizzazione. Un disastro totale.
LE POTENZIALITÀ. Eppure sulla carta lo scalo di Gioia Tauro avrebbe tutti i requisiti per diventare davvero un’opportunità per la Calabria. Per almeno due motivi. Il primo è che quelle banchine sono un gioiello, a dispetto di tutte le polemiche che ne accompagnarono la realizzazione alimentate dal fatto che il governo democristiano di allora le aveva caparbiamente volute a supporto del Quinto centro siderurgico, mai realizzato. Il secondo motivo è logistico: Gioia Tauro è al centro del Mediterraneo, a metà della rotta tra Suez e Gibilterra, l’approdo ideale per le navi portacontainer, soprattutto quelle provenienti dal Far East, per le quali è vantaggioso fermarsi e scaricare sulla punta sud dell’Italia risparmiandoalcunigiornisullerotteper Anversa, Rotterdam e Amburgo. Rispetto a Malta, all’incirca nella stessa posizione – ma è una piccola isola – Gioia ha il vantaggio di avere alle spalle aree enormi per lo stoccaggio dei container e di trovarsi sulla terraferma. In teoria le merci in arrivo potrebbero facilmente proseguire via treno, camion oppure di nuovo su altre navi più piccole verso i mercati ricchi e popolosi del nord e dell’Europa centrale, mentre per quelli del sud Italia sisperava in uno sviluppo economico che non c’è stato. Si sperava pure che le banchine avrebbero favorito la nascita di un’industria di trasformazione agricola che invece non c’è stata. Di tutte le opportunità economiche offerte dal porto ne ha funzionato una sola: quella che i tecnici chiamano “il transhipment”, cioè l’approdo delle enormi navi giramondo, lo scarico dei container e il ricarico su navi più piccole verso altri porti del Mediterraneo. Con il transhipment il porto di Gioia è stato per anni una macchina da utili per la società che lo ha in gestione, ma per la Calabria è stato come una vincita alla lotteria che nessuno si è premurato di riscuotere.
FINANZIAMENTI PUBBLICI. Ora anche il transhipment vacilla, mentre le 57 industrie (soprattutto del nord) che si erano affacciate a Gioia Tauro facendo finta d’interessarsi ai vantaggi delle banchine, dopo aver succhiato finanziamenti pubblici (almeno 750 milioni di euro in totale) e tirato su i capannoni nel retroporto, da un bel pezzo hanno fatto quasi tutte fagotto, portandosi via anche il miraggio dei 2mila posti promessi. Neanche i trasporti connessi allo scalo sono decollati. I camionisti, se possono, stanno alla larga da Gioia e dall’autostrada Salerno-Reggio Calabria, mentre il raccordo ferroviario funziona poco e male rendendo difficoltoso il collegamentoconl’areadellostoccaggio e la linea tirrenica, che pure sono a un passo. Anche l’esperimento della zona franca lanciato sette anni fa è evaporato, dopo essere finito al centro di una guerricciola di competenzetraAutoritàportualee Asi, l’ente di sviluppo della regione Calabria. Perfino il rigassificatore di Sorgenia (gruppo De Benedetti), che tutti a parole vorrebbero e la cui presenza alimenterebbe un traffico di navi metaniere, più che speranze accende contrasti. Accanto ad esso dovrebbe sorgere una “piastra del freddo” che sfruttando le tecnologie collegate al trattamento del gas consentirebbe la conservazione dei prodotti agricoli favorendo la nascita di un nucleo industriale di trasformazione. Anchelacollocazionedellapiastra, però, è finita nel fuoco delle scaramucce tra Autorità portuale e Asi. Nonostante in tutto il mondo rigassificatori e piastre stanno uno accanto all’altra, a Gioia la prima stesura del progetto li collocava a 2 chilometri di distanza, in un’area di pertinenza dell’Autorità.
Ci sono voluti mesi per riavvicinarli e l’invio da Roma di un commissario, Rodolfo De Dominicis. Alla fine hanno trovato un accordo. Reggerà?
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