sabato 7 novembre 2009

STRAGI, QUEL POLITICO CHE SUSSURRAVA ALLA MAFIA

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 7 novembre 2009

di Peter Gomez
(Giornalista)


Chi è “l’uomo politico di Milano” che soffiava a Cosa nostra gli indirizzi dove vivevano i collaboratori di giustizia? Esiste davvero? Oppure sui verbali delle procure di Firenze e di Caltanissetta sono finite, in mezzo a tante notizie precise, anche chiacchiere di mafia, voci incontrollate impossibili da verificare?

Sono molte le domande a cui cercano di rispondere i magistrati e gli investigatori dopo la riapertura delle indagini sulle stragi del 1992-93. E una delle più importanti ruota proprio intorno a questa ombra, a questo personaggio senza volto che ormai da 13 anni i detective tentano d’identificare con certezza. Il primo a parlare di lui è stato, nell’ormai lontano 1996, Pietro Romeo, un ex rapinatore di Tir, nato e cresciuto nel quartiere palermitano di Brancaccio, che nel febbraio del ‘94 entrò a far parte del “gruppo di fuoco” creato da Giuseppe e Filippo Graviano: i due giovani boss che avevano deciso di far guerra allo Stato. Romeo, collabora subito dopo l’arresto e permette di scoprire quasi 150 chili di esplosivo nascosti nel palermitano. Poi si mette a parlare dell’ultimo grande fallito attentato di Cosa nostra: la bomba che a metà aprile del ‘94, quando i fratelli Graviano erano ormai da tre mesi in carcere, doveva far saltare per aria lo storico pentito Salvatore “Totuccio” Contorno, un tempo conosciuto come “Coriolano della foresta”.

È al quel punto – come Il Fatto quotidiano è in grado di rivelare – che Romeo tira in ballo l’uomo del mistero: il traditore della Repubblica che passava informazioni alla mafia. L’ex rapinatore di Tir spiega che a parlargliene era stato un altro dei killer di Brancaccio, Francesco Giuliano, in Cosa nostra soprannominato “olivetti”. Secondo le confidenze di Giuliano, infatti, Giuseppe Graviano era in contatto con questo signore di Milano: un politico che sosteneva di poter sapere dove vivevano sotto falsa identità pentiti come Contorno, Giovanni Drago e Giuseppe Marchese. Tre big dell’organizzazione che con le loro dichiarazioni avevano messo la mafia alle corde.

Per mesi gli investigatori cercano conferme. Anche se affermazioni di questo tipo non possono avere valore di prova la pista sembra buona. Come Cosa nostra sia arrivata a scoprire che Contorno viveva a Formello vicino Roma non è infatti troppo chiaro. È certo invece che in quel periodo le parole di Contorno – salvato prima da un guasto all’innesco della bomba e poi dalla casuale scoperta dell’esplosivo a lui destinato – potevano dare fastidio a molti. Non solo alla mafia, che aveva deciso di ucciderlo da un pezzo, visto che la sua testimonianza era uno dei cardini del maxi-processo degli anni Ottanta. Anche ai presunti e allora quasi insospettabili amici dei clan palermitani. Ma per capire il ragionamento degli investigatori bisogna tornare con la moviola della memoria ai convulsi mesi del 1993-94. Già nel luglio del ‘93 si era consegnato ai carabinieri un boss di prima grandezza, il reggente della famiglia di Porta Nuova, Salvatore Cancemi. E dopo le titubanze iniziali Cancemi aveva parlato della strage di Capaci, dove era morto il giudice Giovanni Falcone. Poi aveva tirato in ballo il premier e Marcello Dell’Utri raccontando la storia del suo migliore amico, l’ex fattore di Arcore, Vittorio Mangano. Un uomo d’onore che, secondo Cancemi, nei primi anni Settanta era solito ospitare a villa San Martino pure Contorno, all’epoca latitante .

Insomma se “Coriolano della foresta”, un ex killer abilissimo con le armi che si era deciso a collaborare proprio con Falcone per vendicarsi degli odiati corleonesi, avesse confermato le accuse di Cancemi sarebbero stati grossi guai per molti. Ma Totuccio, ascoltato dopo di lui, aveva negato tutto. Così Cancemi, piuttosto sorpreso, aveva finito per ipotizzare che il Contorno di cui gli aveva parlato Mangano fosse un certo Peppuccio, un mafioso di secondo piano, nei primi anni Settanta impiegato in un’enoteca milanese controllata dal celebre Luciano Liggio.

La prima indagine su Berlusconi e Dell’Utri, nel ‘94 condotta dalla procura di Caltanissetta, aveva subìto un importante rallentamento. Ma il dubbio che Contorno avesse mentito era rimasto. E tempo dopo dopo, era diventato quasi una certezza, quando Totuccio era stato arrestato per traffico di droga. Contorno a quel punto si era corretto: aveva sostenuto di non aver parlato di Berlusconi, come di altri personaggi importanti, per paura. Ma ormai era tardi perché lo si potesse considerare processualmente attendibile.

Insomma nel 1996-97 ce ne era abbastanza perché gli investigatori si chiedessero quali erano state le vere cause del fallito attentato a Formello e soprattutto se davvero “un uomo politico di Milano” avesse dato a Giuseppe Graviano l’indirizzo di Contorno. Allora le indagini si erano rivolte verso un candidato (non eletto) di Forza Italia alle europee del ‘94. Erano emersi dei suoi contatti con la mafia, ma niente più. Oggi, invece, le parole dell’ultimo pentito di Brancaccio, Gaspare Spatuzza, aprono scenari nuovi. E la soluzione del giallo sembra vicina. Tanto vicina, da poterla quasi toccare.

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