del 13 gennaio 2010
di Massimo Giannini
(Giornalista)
La "fase due" del governo, che contemplava la "rivoluzione fiscale" e le "grandi riforme nell'interesse del Paese", corre sullo stesso binario dal quale si è mossa la terza legislatura berlusconiana. All'indomani del trionfo del 13 aprile 2008 il primo atto dell'esecutivo fu il Lodo Alfano. Oggi, venti mesi dopo, il primo atto della "ripartenza" è un decreto legge che sospende i processi del presidente del Consiglio. Nella parabola del Cavaliere non esiste un nuovo inizio, ma solo un eterno ritorno. Oggi, il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare quella che, ad un parziale e sommarissimo esame, appare come l'ennesima "ghedinata", benché concepita molto meglio delle precedenti.
Il provvedimento ha una tortuosa discendenza giuridica. Congelerà i procedimenti penali nei quali il pm abbia chiesto e ottenuto, durante il dibattimento, "contestazioni suppletive" a carico dell'imputato (Berlusconi rientra nella fattispecie, avendone subite sia nel processo Mills che in quello sui diritti tv Mediaset). La norma "sospensiva", studiata come sempre dagli avvocati-parlamentari del premier, si renderebbe necessaria per consentire allo stesso imputato, sottoposto ai nuovi addebiti, di scegliere il rito abbreviato (che in base al codice attuale gli sarebbe permesso solo nella fase precedente, cioè nell'udienza preliminare). Il tutto, sulla base di un principio di "parità" di trattamento del cittadino di fronte alla legge fissato dalla Corte costituzionale in una sentenza pubblicata giusto il 14 dicembre scorso, passata inosservata ma foriera di effetti "straordinari" (nel senso letterale, cioè "non ordinari").
È sulla base di questa sentenza, infatti, che Berlusconi può sperare in un via libera al decreto da parte del presidente della Repubblica. Volendo seguire le sue false promesse di riconciliazione disseminate in queste ultime settimane, verrebbe da chiedere al premier perché non ha anticipato a Giorgio Napolitano l'intenzione di presentare questo provvedimento nel suo incontro al Quirinale di due sere fa. Oppure, volendo seguire le sue eversive minacce di strumentalizzazione formulate in questi ultimi mesi, si potrebbe chiedere al premier perché oggi gli torna utile la pronuncia di quel "covo di comunisti" rinchiusi nel palazzo della Consulta, e se anche quella costituzionale, stavolta, si possa definire "giustizia a orologeria". Ma mettiamo da parte la correttezza istituzionale e la coerenza personale, che è materia indisponibile nel presidente del Consiglio.
Mai come in questo caso, di fronte ad una vicenda così delicata, ci rimettiamo alla saggezza del Capo dello Stato. Al suo ruolo di custode delle regole e di garante delle istituzioni. Sta a lui valutare se una misura "straordinaria" come questa (sia pure finalizzata a colmare una lacuna dell'ordinamento vigente già rilevata dalla Consulta) possieda effettivamente i requisiti di "necessità e urgenza" richiesti dalla Costituzione. Sta a lui giudicare se una sospensione dei processi, che consenta all'imputato di esercitare anche in fase dibattimentale il diritto al rito abbreviato, si possa raggiungere anche attraverso la semplice "fisiologia" della procedura penale (cioè le decisioni dei singoli giudici, attraverso le istanze di remissione), oppure attraverso il ricorso alla legislazione ordinaria (cioè le decisioni del Parlamento, attraverso un disegno di legge).
Ma di questo provvedimento, nel frattempo, possiamo denunciare senz'altro la rovinosa conseguenza politica. Ancora una volta, il Paese e il Parlamento sono paralizzati dalla permanente ossessione giudiziaria del presidente del Consiglio. Le istituzioni sono ostaggio della sua costante emergenza processuale. In questo clima (come dimostra il surreale annuncio sulle tasse e su due sole aliquote Irpef) per il governo non esiste un'altra "agenda". Non esistono altre "priorità". Soprattutto, non esistono "riforme". Com'è logico e giusto, di fronte all'ennesima forzatura del Cavaliere il Pd chiude tutte le porte al confronto. Anche quelle poche che erano state aperte, con troppa fretta e troppa approssimazione.
Bersani, legittimamente, aveva detto: discutiamo di tutto, a patto che il premier rinunci alle leggi "ad personam". È successo l'esatto contrario, ed ora l'opposizione annuncia l'ostruzionismo, com'è suo dovere in una democrazia degna di questo nome. Così finisce il gigantesco equivoco del "dialogo", che in realtà era solo una colossale trappola. Così svaniscono i propositi gandhiani del premier. A prenderla sullo scherzo, torna in mente un vecchio film di Massimo Troisi: pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma nell'Italia berlusconiana, ormai, non c'è proprio niente da ridere.
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