del 7 gennaio 2010
di Nicola Saracino
(Magistrato)
E’ d’attualità il dibattito sulla reintroduzione dell’autorizzazione a procedere, abrogata nel 1993.
Alla base del ripensamento campeggia l’idea secondo cui l’eliminazione dello sbarramento all’azione giudiziaria nei confronti dei parlamentari irrompeva in un momento storico di estrema debolezza della politica posta in una condizione di “minorata difesa”dall’onda emozionale collegata alla tangentopoli dei primi anni ‘90.
L’abbandono di quello scudo avrebbe alterato l’equilibrio costituzionale tra diversi poteri ed ordini con la conseguenza che la politica risulta costantemente condizionata dalle inchieste giudiziarie.
In contrario si obietta che l’istituto nacque in un contesto storico particolare come quello post fascista, assolvendo al compito di tutelare le minoranze parlamentari da intenti persecutori; in questo solco s’inserisce la tesi estrema che ipotizza l’incostituzionalità del ripristino del testo originario dell’art. 68 Cost.
Quest’ultimo orientamento sembra porre sullo stesso piano istituti diversi.
Infatti la tutela delle minoranze, la cui libertà d’azione politica sarebbe frustrata se fosse ammessa la persecuzione dei “dissidenti”, si realizza attraverso il diverso istituto dell’immunità che esclude in radice la punibilità del parlamentare per i voti dati o per le opinioni espresse nell’esercizio delle proprie funzioni.
L’immunità non ha subito alcuna modifica e vive nella Costituzione così com’era nata nel 1948.
L’autorizzazione a procedere, invece, realizza una condizione di procedibilità subordinando l’accertamento giudiziario nei confronti di un parlamentare al benestare della maggioranza dei componenti della camera di appartenenza.
Come si nota è alquanto contraddittorio intendere l’autorizzazione a procedere alla stregua di uno strumento di tutela delle minoranze visto che la relativa concessione, o il diniego, sono prerogative proprie della maggioranza parlamentare, caratteristica che spicca ancor più in un sistema maggioritario.
La giustificazione tradizionale dell’istituto intravedeva l’eventualità di un intento persecutorio nell’attività della magistratura verso il parlamentare coinvolto strumentalmente in grane giudiziarie.
A seguire questa impostazione se ne devono trarre conseguenze preoccupanti: nel non breve periodo in cui è stata in vigore, l’autorizzazione a procedere è stata negata nella stragrande maggioranza dei casi, relegando al rango di rare eccezioni le ipotesi nelle quali poteva, secondo il Parlamento, ravvisarsi l’imparzialità dell’autorità giudiziaria procedente.
E’ una cornice logica di un quadro in ogni caso a tinte fosche quella che scorge sistematicamente il “fumus persecutionis” nell’attività della magistratura; è, soprattutto, un quadro incompiuto quello che lascia indenni da conseguenze negative magistrati animati da poco nobili intenti persecutori verso i parlamentari, essendo innegabile, se l’ipotesi fosse seria, l’abuso d’ufficio posto in essere dall’autorità giudiziaria.
Se lo scopo dichiarato dai fautori della rinascita dell’autorizzazione a procedere è quello di restituire serenità ai rapporti tra politica e giustizia si tratta, allora, di abbandonare il manicheismo per donare all’istituto una veste laica, razionalmente accettabile e maggiormente rispettosa di tutte le funzioni pubbliche coinvolte in un fenomeno di reciproca interferenza.
Soccorre, allo scopo, la spiegazione “strutturale” dell’autorizzazione a procedere, elemento di demarcazione degli ambiti di autonomia del potere politico dall’ordine giudiziario, a sua volta indipendente dal primo.
In quest’ottica negare l’autorizzazione a procedere non significa tacciare di malafede l’operato della magistratura ma, più semplicemente, affermare la preminenza dell’interesse politico alla continuità della funzione parlamentare turbata dall’accertamento giudiziario annunciato dalla richiesta di autorizzazione a procedere. Scelta politica consentita dal principio della separazione dei poteri, opzione della quale il Parlamento risponde al Popolo nel cui nome la stessa giustizia è amministrata.
Si rispetta, solo in questo modo, l’equilibrio tra i rispettivi ambiti senza il reciproco discredito delle istituzioni coinvolte.
Se questa prospettiva non è ingannevole, risulta priva di senso la proposta di conferire alla Corte Costituzionale il compito di decidere sulla richiesta di autorizzazione a procedere; abbandonata la visione“conflittuale” dell’istituto, infatti, diviene superfluo il ricorso alla figura di un arbitro la cui decisione, come si può prevedere, non sarebbe comunque sottratta al rischio di letture in chiave politica.
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