venerdì 13 novembre 2009

CHIESA: SULLA MAFIA SERVE “MENO DISIMPEGNO”

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 13 novembre 2009

di Marco Politi
(Giornalista)


Uscirà fra qualche settimana l’atteso documento dei vescovi su “Chiesa e Mezzogiorno”, che tra i suoi focus contiene una riflessione seria sulla criminalità organizzata. All’assemblea dell’episcopato ad Assisi il dibattito è stato estremamente partecipato. Reduce dalla discussione, monsignor Paglia di Terni descrive parecchi vescovi del sud animati da grande preoccupazione per l’espandersi della criminalità organizzata, vescovi che chiedono “severità, condanna, attenzione costante al fenomeno” e mettono in guardia dagli atteggiamenti pseudoreligiosi di tanti padrini.

Monsignor Crociata, segretario della Cei, ha preannunciato che chi fa parte delle organizzazioni criminali “è già fuori dalla Comunione, anche se si ammanta di religiosità”. Quanto poi nella realtà quotidiana funzioni questa scomunica automatica rimane un punto interrogativo. Molto, forse troppo, dipende dai singoli parroci sul territorio. Importante, comunque, è l’indicazione di principio. Il cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, definisce i malavitosi “negazione del cristianesimo”, e ricorda che non possono prendere la Comunione né fare i padrini di battesimo. A un suo parroco ha suggerito di non celebrare i funerali in chiesa per un camorrista.

Celebre resta il grido di Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993, quando rivolto ai mafiosi esclamò “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio”. Ma qualche anno prima, a Palermo, Papa Wojtyla aveva sottaciuto all’ultimo momento in un suo discorso un riferimento, che suonava condanna diretta della gestione Ciancimino (sebbene poi da parte vaticana si ribadisse che nei discorsi papali vale il testo scritto anche non pronunciato). Sintomi di zig zag nella condotta di Santa Madre Chiesa. D’altronde a Palermo nel dopoguerra il cardinale Ruffini sosteneva la non esistenza della mafia e solo con l’avvento del cardinale Pappalardo negli anni Settanta si sentiranno dal pulpito arcivescovile parole inequivocabili contro il fenomeno mafioso. Al di là delle scomuniche, l’episcopato ha cominciato a porsi seriamente da anni (magari senza molti clamori e con la differenziazione tra presuli attenti e presuli più inerti o scoraggiati) il problema di un contrasto di lungo respiro nei confronti del crimine organizzato. Spiega un monsignore che ha letto la bozza del documento su Chiesa e Mezzogiorno: “Due sono i fronti principali su cui operare. L’educazione alla legalità, compito pastorale di clero e vescovi, riprendendo il documento della Cei del 1991 che aveva esattamente questo titolo. E, sul versante delle autorità politiche e amministrative, un impegno preciso a favorire posti di lavoro, perché altrimenti si sbandano intere generazioni, e nella fragilità sociale si espande l’infiltrazione criminale”.

Giuseppe Savagnone, professore di Storia della filosofia a Palermo e responsabile della Cultura in diocesi, delinea la necessità di un salto di qualità nel modo di agire dei parroci nei quartieri di città e nelle campagne. Serve una svolta: “Una pastorale che cambi profondamente stile e promuova un’educazione costante alla socialità, alla legalità, alla cittadinanza. In questa prospettiva gli uomini di chiesa devono agire per superare la religione individualistica, quel tanto di religiosità popolare ambigua, quelle manifestazioni di spiritualità strettamente personale, in cui si ignora la dimensione della comunità e del “bene comune”. Un tipo di religiosità, ammantata di tradizione, in cui i “padrini giungono a circondarsi di un’aura di sacralità”. Come non ricordare, in proposito, i preti che “assistono” clandestinamente feroci latitanti o riservano onori nei riti popolari ai clan mafiosi. Né si possono ignorare i vescovi che tacciono per “non entrare in politica” e così avallano manovre elettorali oscure. E’ urgente, dice Savagnone, che dai discorsi nobili fatti ai piani alti della chiesa si arrivi ad un’evangelizzazione quotidiana dal basso che educhi al rispetto delle regole e stimoli la responsabilità sociale.

A Napoli nel febbraio scorso settanta vescovi del sud si sono riuniti per fare il punto della situazione. Monsignor Superbo , vescovo di Potenza, nelle sue conclusioni, non si è limitato ai fatti criminali eclatanti. Ha denunciato apertamente l’assistenzialismo endemico. Senza ambiguità, ha scandito, bisogna opporsi a quella “mafiosità di comportamenti” che concede i diritti come favori. “Anche se non uccide”, ha detto con immagine efficace, “sfigura” l’individuo, ne mortifica la dignità, alimenta l’illegalità.

Non sono dunque le analisi che mancano. Con gli anni, documenti interessanti sono stati redatti in Puglia, Sicilia, Calabria, Basilicata. Consapevoli che il lavoro costituisce una leva fondamentale per arrestare il degrado sociale e civiledelle regioni meridionali, i vescovi del sud hanno creato il Progetto Policoro per finanziare e far decollare cooperative e iniziative economiche, che aggreghino e diano reddito. Monsignor Bregantini, già vescovo di Locri, è sempre stato convinto che “non basta la coscienza del male, se le istituzioni (ecclesiali, politiche e sociali) non sanno dare risposte adeguate”. Perciò molti vescovi chiedono che nelle aree mafiose lo Stato sia presente e credibile. Ciò che urge, lo ripetono in tanti, è una “svolta dal disimpegno” che caratterizza tutt’ora troppi ecclesiastici nelle parrocchie e nelle diocesi. Serve, ammette un prete siciliano, una “resistenza continua, fatta di cose concrete come quelle di don Puglisi: e non a caso l’hanno ammazzato”.

Nessun commento:

Posta un commento