mercoledì 30 dicembre 2009

La retorica degli pseudoriformisti

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 30 dicembre 2009

di Gianfranco Pasquino
(Professore Universitario)


In questi tempi cupi abbiamo una quasi certezza: i politici italiani sono diventati tutti riformisti, pardon, riformatori. In verità, chi ha un po’ di memoria storica sa che la retorica delle riforme istituzionali cominciò trent’anni fa con il lancio della Grande Riforma ad opera di Bettino Craxi che, poi, si adoperò attivamente, e con successo, per fare fallire la prima Commissione per le Riforme istituzionali. Qualcuno sa anche che se, nella famosa frase di Che Guevara, “Il dovere di ciascun rivoluzionario è di fare la rivoluzione”, logicamente, il dovere di ciascun riformista è fare le riforme. Ma, per definizione, le riforme sono cambiamenti, trasformazioni, interventi di carattere generale che promettono di migliorare la qualità della vita, economica, sociale, religiosa (il Concilio Vaticano II e, prima, la Riforma Protestante), istituzionale. Non sono, nella maniera più categorica, leggine ad hoc per salvare qualcuno. Il carattere generale e molto concreto delle riforme serve a segnalare con sufficiente chiarezza le differenze dai provvedimenti di salvataggio (non soltanto di persone, ma di aziende e di specifiche categorie sociali). Senza bisogno di interrogarsi su quanto il discorso, ipocrita, ripetitivo, privo di contenuti precisamente valutabili, serva essenzialmente a oscurare l’ignoranza e l’incapacità dei politici, si noti, sia quelli al governo sia quelli all’opposizione, appare opportuno chiedersi perché nessuno, a cominciare dai mass media, chiami il bluff.

Naturalmente, neppure nei mass media si trovano commentatori sufficientemente esperti, in chiave comparata, per capire di che cosa parlano in maniera cifrata i politici e a quali modelli bisognerebbe guardare. D’altronde, i politici comunicano fra di loro deliberatamente in maniera cifrata, ma vogliono anche mandare messaggi ai loro elettorati di riferimento. Il federalismo fiscale è certamente una riforma; probabilmente è anche una riforma fatta male, ma l’elettorato leghista lo percepisce come un grande successo del Bossi, del Calderoli e del Maroni. La manipolazione del linguaggio è andata talmente avanti che neppure il Partito Democratico riesce a chiamarsi fuori. D’altronde quello di cui sembra discutersi è la magica “bozza” di un loro esponente: Violante. Non è chiaro in quale sede di partito quella bozza sia stata discussa. Non è neppure chiaro se esista una sede nella quale discuterla. Il problema, però, è che a questo punto sembra difficilissimo per Bersani chiamarsi fuori. Utile, anzi, imperativo, dire no alle leggi ad personam, ma indispensabile ricordarsi che esistono anche limiti costituzionali a qualsiasi riforma, ad esempio, della forma di governo e, ancor più, dei diritti dei cittadini. Il fatto è che, già caduto nella trappola di un federalismo che non è comunque tale, il Partito Democratico teme che chi non si dichiara riformista verrà delegittimato anche come oppositore.

Le cosiddette riforme, a cominciare da quelle “salva premier”, che non sono riforme, ma “sbreghi” (ricorro alla mitica terminologia di Gianfranco Miglio), se le faranno comunque gli esponenti del Popolo della Libertà, a colpi di maggioranza. No problem, replicherebbero i Costituenti che, nella loro saggezza, hanno previsto un referendum popolare, confermativo o op-positivo, facile da attivare. Saranno i cittadini a decidere se quanto viene approvato da una maggioranza che corre da sola alla riforma della Costituzione, merita di essere mantenuto o deve essere cancellato. Certo, il gioco verbale potrà continuare anche dopo con l’accusa da parte dei sovvertitori della Costituzione all’opposizione, pavida e tremolante, priva di unità di intenti, di essere conservatrice, forse, addirittura, reazionaria. Epperò, è probabile che anche la maggioranza dei cittadini ascolti la parola riforme con qualche fastidio, se non con disgusto. Ma davvero il federalismo si fa moltiplicando le province e i prefetti? Ma davvero non si possono fare alcune riformette anche a spizzichi: riduzione del numero dei parlamentari, riforma della legge elettorale, voto di sfiducia costruttivo? Ma davvero bisogna scrivere una lunga e impraticabile lista della spesa per accontentare un po’ tutti e non ottenere niente di niente? E se poi dalla bozza Violante uscissero soltanto un Lodo Alfano-bis e un salvacondotto Ghedini per il Presidente del Consiglio, sarebbero questi provvedimenti gabellabili come riforme? No, la parola riforme viene usata, spesso anche dall’opposizione, come cortina fumogena per nascondere qualche malefatta o qualche inclinazione al mal(af)fare. Prima chiariamo i termini del discorso, controlliamo se il mazzo di carte (non) è truccato, poi, sapendo a che gioco si giocherà, ci si potrà anche sedere al tavolo delle molto eventuali riforme.

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