giovedì 24 dicembre 2009

“Processo breve” e parte civile: profili di incostituzionalità

Dal Blog Uguale per Tutti
del 22 dicembre 2009

di Michele Leoni
(Giudice del Tribunale di Forlì)


Pescando nell’archivio della giurisprudenza della Corte Costituzionale, si può trovare qualcosa di assai interessante ai fini della valutazione della correttezza costituzionale della riforma attualmente in itinere, sul cosiddetto “processo breve”.

Ad esempio, una sentenza di quattordici anni fa (la n. 103 del 1995), in cui la Corte chiarì alcune cose assai importanti in via di principi generali, riguardanti l’estinzione dei processi ope legis.

Scrissero allora i giudici che “per individuare i limiti di costituzionalità dell'intervento del legislatore nel processo quando di questo venga definito l'esito attraverso una norma che ne imponga l'estinzione … per escludersi la menomazione del diritto di azione è necessario e sufficiente che l'ambito delle situazioni giuridiche di cui sono titolari gl'interessati risulti comunque arricchito a seguito della normativa che dà luogo all'estinzione dei giudizi”.

Aggiunse la Corte che, ove “la voluntas legis si opponga alle pretese oggetto delle controversie che si vogliono estinte ed impedisca, negandone il fondamento, la realizzazione delle stesse, il vulnus all'art. 24 della Costituzione è reso evidente dal fatto che il legislatore opera una sostanziale vanificazione della via giurisdizionale, intesa quale mezzo al fine dell'attuazione di un preesistente diritto”.

Trasferiamo questi principi alla riforma del c.d. processo breve, la quale, come si sa, impone (salve eccezioni relative a determinati reati oggetto del giudizio, tassativamente elencati dalla norma) l’estinzione del processo ove questo superi la durata di due anni per ogni grado di giudizio.

Il problema riguarda anche la parte civile, la quale vede così vanificare la sua pretesa fatta valere nel processo penale, senza che la nuova normativa preveda meccanismi nuovi e alternativi che“arricchiscano” l’ambito delle situazioni giuridiche (processuali) di cui essa era titolare.

E’ vero che la nuova disciplina (art. 2 c. 6) stabilisce che, ove la parte civile trasferisca l’azione in sede civile, i termini a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c. sono ridotti della metà e il giudice civile dovrà fissare l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita.

Ma questa non sembra una soluzione che possa “arricchire” le prerogative della parte civile né compensare la vanificazione della scelta della via giurisdizionale penale “quale mezzo al fine dell’attuazione del proprio diritto”.

Anzitutto, qui non si tratta di un “trasferimento” dell’azione civile in sede civile (come accade nel caso previsto dall’art. 82 c. 3 c.p.p., quando è la stessa parte civile a revocare la propria costituzione, e dunque si versa in un presupposto ben diverso), ma si costringe de plano la parte civile a intraprendere ex novo l’unica via che le resta, ossia il processo civile, e a perdere così tutti i vantaggi che possono venirle dalla presenza di una parte pubblica in giudizio (il PM) e anche dall’esercizio dei poteri ex ufficio (art. 507 c.p.p.) che contraddistinguono il processo penale.

E la riduzione della metà dei termini di comparizione e la precedenza nella trattazione del processo civile non vale certo a riequilibrare la perdita di uno strumento come l’azione civile nella sede penale.

Né bisogna dimenticare che ancora la Corte Costituzionale ha affermato che, nell’ipotesi di trasferimento dell’azione civile dall’una all’altra sede (penale e civile), “è la stessa azione, e quindi il medesimo ‘processo’, a proseguire in altra sede” (Corte Cost. 211/2002).

Quindi, con il c.d. processo breve, verrebbe egualmente violato il principio della ragionevole durata del processo in relazione alle ragioni della parte civile.

Il processo civile, che pure si svolge dentro il processo penale, verrebbe devoluto e “allungato” in altra sede, senza alcun ragionevole motivo che riguardi la parte civile (la quale, ai sensi dell’art. 24 c. 1 Cost., “ha agito in giudizio per la tutela dei propri diritti” e conta sulla “ragionevole durata” della via intrapresa). Come dire, il meccanismo della coperta corta.

Assai di recente, la Corte Costituzionale (sentenza n. 56/2009) ha ulteriormente affermato che “il principio della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali rilevanti nel processo medesimo; in particolare, possono arrecare un vulnus a tale principio solamente quelle norme ‘che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorrette da alcuna logica esigenza’”.

C’è da chiedersi se i “diritti inviolabili” (art. 24 c. 2 Cost.) della parte civile non costituiscano, quanto meno, una “logica esigenza”, sufficiente per non estinguere il processo.

Allora? Forse occorrerebbe riformare la riforma? Stabilire che il processo breve è possibile solo quando, per il tipo di reato, non vi è una persona offesa potenziale parte civile … Boh ...

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