del 12 novembre 2009
di Marco Travaglio
(Giornalista)
ATTO V, “DISSOCIAZIONE” BIS. Nell’ottobre 2001 Sabella è ancora al Dap, anche se il nuovo ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha sostituito Caselli con l’ex procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra. Un magistrato che non può certo vedere di buon occhio Sabella: fu proprio quest’ultimo il primo pm a mettere in dubbio la versione del pentito Vincenzo Scarantino, che si era autoaccusato della strage di via d’Amelio ed era stato preso per buono dalla procura nissena retta da Tinebra (gli stessi dubbi avevano manifestato Ilda Boccassini, all’epoca “applicata” a Caltanissetta, e i pm di Palermo che avevano interrogato il pentito su Dell’Utri, Berlusconi e Contrada). Recentemente Scarantino è stato sbugiardato dal nuovo pentito Gaspare Spatuzza, che ha indotto i pm nisseni a chiedere la revisione delle condanne definitive emesse dalla Cassazione per via D’Amelio. Sabella, a Palermo, non aveva mai “utilizzato” Scarantino, ritenendolo inattendibile persino sugli omicidi che gli aveva confessato. Lo stesso Tinebra aveva poi accolto e coltivato la denuncia, poi rivelatasi infondata, del capitano De Donno contro Lo Forte proprio alla vigilia del processo Dell’Utri. Ed ecco, come per incanto, riaffacciarsi di fronte a Sabella il fantasma della “dissociazione”. Cioè dell’eterna trattativa Stato-mafia.
“Nell’ottobre del 2001, mi telefona mia sorella Marzia, pm antimafia a Palermo. Mi dice che le è giunta da Re-bibbia una richiesta di nullaosta per Salvatore Biondino, che vuole lavorare come ‘scopino’ in carcere, così la direzione del penitenziario chiede l’autorizzazione a tutte le procure che si occupano di lui. Chiedo un po’ in giro, e scopro che, facendo lo scopino, Biondino avrebbe libero accesso alle celle di Aglieri, Farinella, Madonia e Buscemi, i quattro ideologi della dissociazione. Avverto mia sorella che nega l’autorizzazione a Biondino e blocca tutto. Subito dopo stilo una relazione al mio nuovo capo, Tinebra, e suggerisco di allertare la polizia penitenziaria perché impedisca contatti anche casuali tra i boss coinvolti nel progetto dissociazione. La relazione è del 29 novembre 2001, giovedì. L’indomani, venerdì, è sul tavolo di Tinebra, ma lui è già partito per Caltanissetta per il weekend. La legge lunedì 3 dicembre e convoca il capo dell’ufficio detenuti, Francesco Gianfrotta, per chiedere spiegazioni. Gianfrotta si dice d’accordo con me e l’indomani, 4 novembre, lo mette per iscritto. Il 5 dicembre Tinebra, senza nemmeno parlarmi, sopprime il mio ufficio e mi revoca ogni incarico”. Due mesi prima Tinebra aveva definito all’Ansa la proposta di dissociazione di Calò “veramente interessante”. E l’8 giugno 2000, nel pieno delle polemiche sulla prima proposta di dissociazione dei boss, aveva rilasciato un’intervista al Corriere della Sera dal titolo eloquente: “Dissociazione? Ero contrario, ora non più”. E aveva sostenuto di nutrire “seri dubbi” sul fatto che dietro la dissociazione ci fosse Provenza-no, come aveva invece ipotizzato Sabella in un’intervista a Peter Gomez sull’Espresso. Dopodiché, appena Berlusconi aveva vinto le elezioni, aveva nominato proprio Tinebra, un raro esemplare di magistrato antimafia favorevole alla dissociazione a costo zero dei boss, a nuovo capo del Dap al posto di Caselli, che vi si era fieramente opposto. Lo stesso Tinebra aveva appena chiesto, in tandem col suo fedelissimo sostituto Salvatore Leopardi, l’archiviazione dell’inchiesta a carico di Berlusconi e Dell’Utri come possibili mandanti esterni delle stragi del 1992, con motivazioni talmente liberatorie da indurre il titolare del fascicolo, il pm Luca Tescaroli, a dissociarsi e ad andarsene polemica-mente da Caltanissetta. E chi arriva all’Ispettorato del Dap, subito ricostituito da Tinebra dopo la cacciata di Sabella? Proprio il dottor Leopardi. Il quale sarà poi oggetto di un’indagine della procura di Roma a proposito di strane manovre al Dap per “orientare” e depotenziare, nel novembre del 2002, le rivelazioni del nuovo pentito Nino Giuffrè, guarda caso vicinissimo a Provenzano, a proposito di Dell’Utri. Manovre che non erano sfuggite all’occhiuto “analista” del Sismi Pio Pompa, uomo ombra del generale Niccolò Pollari, il quale aveva annotato in una delle sue informative che era “in atto il tentativo di ‘orientare’ le dichiarazioni” di Giuffrè, a cui i pm impegnati nell’inchiesta sulla morte di Roberto Calvi avevano rivolto domande su Dell’Utri e sulle attività del gruppo Fininvest in Sardegna. L’inchiesta sul Dap riguardava una sorta di “servizio segreto parallelo” messo in piedi nelle carceri italiane, per “monitorare” i mafiosi detenuti al 41 bis, dal Sisde allora diretto dal generale Mori. E infatti anche Mori fu sentito come testimone su quella vicenda, spiegando che la sua collaborazione con Leopardi e Tinebra era avvenuta attraverso canali del tutto istituzionali. Il tutto, ovviamente, dopo l’allontanamento di Sabella.
In alto, Alfonso Sabella
con il suo libro
“Cacciatore di mafiosi”
A lato, subito dopo
la cattura di Brusca
“Siccome la soppressione del mio ufficio era, secondo me, illegittima perché poteva deciderla soltanto il ministro, scrissi a Castelli, ma questi mi mise alla porta. E lo stesso fece di lì a poco il Csm. Capii quanto era debole un magistrato come me, mai iscritto ad alcuna corrente organizzata della magistratura. Avevo chiesto di essere trasferito alla procura di Roma, dove mi ero stabilito da meno di tre anni. Ma il Csm mi rispose che a Roma non c’erano posti e mi trasferì a Firenze. Poi, proprio il giorno dopo, lo stesso Csm applicò alla procura di Roma ben due magistrati più giovani di me: la prova che a Roma non c’era posto, ma solo per me. Oggi, ripensando a quei mesi incredibili alla luce del papello, ho scoperto ciò che mai avrei immaginato: e cioè che già nel 1992 Cosa Nostra aveva chiesto una legge per la dissociazione dei boss. Così ho maturato una serie di riflessioni pressoché obbligate: con i miei ‘no’ alla dissociazione, avevo ostacolato per ben due volte un disegno molto più grande di me, che passava sulla mia testa e rimontava alla trattativa del 1992. Una trattativa mai interrotta (o forse una trattativa con Riina interrotta dalla strage di via D’Amelio ma subito proseguita, stavolta positivamente, con Provenzano). Infatti, fra i vari punti del papello, molti dei quali francamente
inaccettabili persino per uno Stato arrendevole come il nostro, il meno irrealizzabile (dopo la chiusura delle supercarceri di Pianosa e Asinara, poi disposta dal governo di centrosinistra nel 1997) era proprio la dissociazione. Che, da sola, avrebbe consentito allo Stato di esaudire indirettamente quasi tutti gli altri: la fine dell’ergastolo, la fine del pentitismo, la fine del 41 bis, la revisione delle condanne.
Oggi, rievocando la propria cacciata dal Dap, Sa-bella s’interroga: “Sono paranoico, oppure sono autorizzato a farmi certe domande?”.
ATTO VI
IL G8 E LE ACCUSE
INFONDATE
Torniamo al 2001. Metà luglio, per la precisione. Mentre è ancora in servizio al Dap, Sabella viene inviato al G8 di Genova per coordinare l’attività dell’Amministrazione penitenziaria in vista delle annunciate violenze dei black bloc e dei prevedibili arresti. Infatti vengono arrestati centinaia di manifestanti: pochi violenti e molti ragazzi innocenti. Alcune decine di questi vengono selvaggiamente pestati nella caserma di Bolzaneto, anche daalcunielementidelGom,ilcorpospecialedella polizia penitenziaria. Sabella verrà indagato dalla procura di Genova per non essere riuscito a impedire quelle violenze (i reati contestati erano abuso d’ufficio e d’autorità contro arrestati o detenuti) e poi archiviato. Ma, sul piano umano, Sa-bella ha l’amaro in bocca:
“Dico la verità, quel giorno maledetto commisi un errore di valutazione. Non mi accorsi che il piano per gli arresti preventivi, a scopo di sicurezza, fu modificato in corso d’opera forse proprio allo scopo di aizzare gli animi, soffiare sul fuoco e far esplodere gli scontri. Altro però non posso rimproverarmi, perché non sapevo quel che stavasuccedendonellacaserma.Perunmotivomoltosemplice: non ero lì nel momento in cui si verificarono i pestaggi, ma da tutt’altra parte, nella caserma di Forte San Giuliano, dove non è successo niente. Lo dimostrano i tabulati dei quattro telefoni cellulari che usavo quel giorno. Chiesi, anzi pretesi dai magistrati di Genova che controllassero i miei spostamenti, perché nei miei confronti ogni sospetto fosse dissipato. Invece la procura non controllò nulla e chiese l’archiviazione. Le parti civili, in rappresentanza dei ragazzi pestati, si opposero. E io mi associai all’opposizione (contro una richiesta di archiviazione!): volevo che fossero condotte tutte le indagini più approfondite, pretendevo di uscire senza ombre. I carabinieri acquisirono finalmente i miei tabulati telefonici, ma rilevarono che il traffico relativo alla ‘cella’ territoriale che io occupavo durante le violenze era stato cancellato (su quattro cellulari!) e dunque era impossibile affermare se io mi trovassi a Bolzaneto o altrove. Non so chi avesse manomesso quei dati, ma in ogni caso era facilissimo localizzarmi: dove mi trovavo nelle ore delle violenze risultava daitabulatidellechiamateinentrata,cioèdelletelefonate che ricevevo in quel mentre. Visto che non lo faceva l’Arma, ricostruii tutti i miei movimenti e dimostrai che, quandoeroaBolzaneto,nonc’erastataalcunaviolenzacontro detenuti. Ma, nonostante le mie carte parlassero chiaro, il giudice se n’è infischiato e ha emesso un provvedimento di archiviazione infamante: sostenendo, cioè, che ero responsabile delle violenze, ma per colpa e non per dolo. Una tesi giuridicamente aberrante, fra l’altro, visto che le lesioni sono punibili anche quando sono colpose. E allora perché non mi ha rinviato a giudizio per quel reato? Così almeno avrei potuto dimostrare la mia estraneità nel dibattimento. Invece, a quell’archiviazione di fango, non ho potuto nemmeno oppormi: è inappellabile”.
L’indagine di Genova ha serie ripercussioni sulla carrieradiSabella:ilCsmbloccailsuoavanzamento in attesa che si definisca il procedimento di Genova. “Feci presente al Csm che i pm non avevano indagato a fondo e chiesi al procuratore generale della Cassazione e all’Ispettorato del ministero di aprire un procedimento disciplinare contro il gip che mi aveva archiviato in quel modo scandaloso. Produssi anche alla IV Commissione del Csm una memoria dettagliata dove dimostravo tutto per tabulas, con vari atti allegati, perché fossero valutati nel decidere del mio avanzamento in carriera. Ma non ci fu nulla da fare. Un muro di gomma dopo l’altro. La mia carriera in magistratura è stata definitivamente compromessa con una delibera del Csm che ignorava totalmente i miei meriti di magistrato antimafia, ma anche la mia memoria sui fatti di Genova, sulle stranezze presenti nei miei tabulati telefonici e sulle omissioni dei colleghi. Il 27 febbraio 2008, vado a riprendermi le carte che avevo prodotto sui fatti di Genova. Le cerco nel mio fascicolo personale al Csm. Sparite. Lo stesso giorno presento un’istanza per sapere dove sono finite e se sono state valutate nella pratica sulla mia promozione: scoprirò che sono state archiviate ed espunte dal mio fascicolo con una decisione adottata dall’Ufficio di presidenza delCsm,conacapoilvicepresidenteNicolaMancino.Che combinazione: ritrovo Mancino dieci anni dopo che Brusca mi aveva parlato di lui in quel verbale secretato”.
Ma non è tutto.
“La stessa sera di quel 27 febbraio, guarda caso, proprio dalCsmvienecomunicataall’Ansalanotizia,radicalmente falsa, che mi sarei candidato alle elezioni politiche nel Pdl, in quota Alleanza nazionale. Immaginare l’entusiasmo nei centri sociali alla notizia che ‘il boia di Bolzaneto’ era stato adeguatamente ricompensato con una candidatura nella destra! Mettere in circolo quella bufala significa non solo delegittimarmi, ma anche compromettere la mia sicurezza: ora un possibile attentato nei miei confronti può essere comodamente attribuito a qualche gruppo eversivo di estrema sinistra (Cosa Nostra aveva fatto lo stesso con Carlo Alberto Dalla Chiesa tentando di far rivendicare alle Br l’agguato all’allora prefetto di Palermo). Tant’è che, essendo senza scorta, ricomincio a girare armato. E chiedo al Csm di rivedere la valutazione sul mio conto in base agli atti che avevo prodotto: mi rispondono picche. Intanto scopro da un articolo di Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera che il mio nome compare nei dossier di Pio Pompa, l’analista del Sismi ai tempi in cui il servizio segreto militare era legato mani e piedi alla security della Telecom. E, si badi bene, il mio nome compariva accanto a quello di altri magistrati antimafia di Palermo. Ma accanto al mio non c’è la sigla “Pa”, bensì la sigla “Ge”. E io a Genova ci sono stato solo
nei giorni del G8. E guarda caso usavo schede Telecom. E, guarda un po’ la combinazione, qualcuno ha cancellato i tabulatichemiscagionavanodaifattidiBolzaneto.Etutto questo il Csm lo sapeva (o perlomeno doveva saperlo), avendo ricevuto subito le informative sui magistrati spiati dalSismi.Manessunomiavevadettonulla,tant’èchel’ho appreso dai giornali. Oggi mi domando: qualcuno voleva levarsidaipiediilsottoscrittoalDapperspianarelastrada alla dissociazione, ultima versione della trattativa (o meglio dell’accordo) del 1992? Sono paranoico, oppure sono autorizzato a farmi certe domande?”.
ATTO VII
L’ATTENTATO
DEI MISTERI
Il15febbraio2002Sabellasiinsediaallaprocuradi Firenze. L’indomani, giorno 16, è un sabato. Eppure il prefetto della città Achille Serra (ex deputato di Forza Italia e futuro deputato del Pd) convoca d’urgenza il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, che revoca la scorta a Sabella e la sostituisce con una semplice “tutela” (un solo uomo). Ma solo nel territorio fiorentino: niente scorta né tutela nei suoi spostamenti a Roma, dove vivono la moglie e la figlia, né in Sicilia, dove abitano i genitori. La decisione del Cosp è stata sollecitata dal direttore del Dap, Tinebra, che ha comunicato l’indisponibilitàaprestareancoraperlasuascorta gli uomini della polizia penitenziaria. E dire che soltanto 15 giorni prima il Comitato per l’ordine e la sicurezza di Roma, applicando le nuove direttive del Viminale sulla riduzione delle scorte, aveva tagliato i servizi di protezione a decine e decine di personalità, ma a Sabella aveva confermato la scortacondueautoequattrouomini,ritenendolo evidentemente un obiettivo ad alto rischio. Lui, il magistrato che ha catturato più boss mafiosi facendone condannare alcune decine a migliaia di anni di carcere, è allibito: “Mi turba l’incredibile confusione che caratterizza la gestione delle misure di protezione di noi magistrati. Quando ho chiesto alla prefettura i motivi di una decisione così radicale, il capo di gabinetto non sapeva nemmeno chi ero e che ero stato pm a Palermo. Evidentemente non avevano neanche il mio fascicolo.Tantocheillunedìsuccessivodallaprefetturami avevano chiesto di fornire loro la mia data di nascita, che evidentemente non avevano!”.
Il gruppo Ds rivolge al governo un’interrogazione parlamentare firmata anche da Luciano Violante e Beppe Lumia. Il prefetto Serra liquida la faccenda con parole sprezzanti: “Ribadisco che non intendo fare alcun commento sul merito della decisione, già valutata in ben quattro riunioni del Cosp alla presenza e col parere di alti magistrati (strano, visto che SabellaègiuntoaFirenzedaungiornosoltanto,ndr). Ma voglio stigmatizzare le critiche di sottovalutazione rivolte dal magistrato al capo di gabinetto della prefettura perché ingiuste e grossolane. Peraltro basta leggere le dichiarazioni del pm Sabella: si commentano da sole” (Ansa, 21 maggio 2002). Il procuratore capo Ubaldo Nannucci si schieracolsuosostituto:“Sonointervenutosiasul prefetto di Firenze sia sul ministero per segnalare l’estrema delicatezza della posizione del collega Sabella. Il problema, evidentemente, è nell’interpretazione del concetto di ‘attualità del pericolo’ che corre un magistrato. Certo, se il rischio è attuale durante un processo di rilievo, non è che il giorno dopo la sentenza, quando il processo è finito, quel rischio cessa” (Ansa, 22 maggio 2002). Passa poco più di un anno e il 28 ottobre Lirio Abbate rivela sull’Ansa che la procura di Palermo ha appenascopertounprogettodiattentatomafioso ai danni di un magistrato. Da una conversazione intercettata durante un summit di mafiosi vicini a Provenzano in un casolare fra le province di Agrigento e Palermo, si sentono i boss parlare di un ordine partito dalle carceri e firmato da Leoluca Bagarella di “far saltare la macchina del giudice”, conl’assensodiProvenzano.“IlprocuratorePiero Grasso – scrive l’Ansa – ha informato subito della vicenda il capo della polizia, Gianni De Gennaro, e il prefetto di Palermo per rafforzare le misure di sicurezza ai magistrati impegnati nella lotta alle cosche.Nellatrascrizione–effettuatal’11ottobre scorso, ma il dialogo sarebbe di alcuni mesi prima – non compare il nome del magistrato nel mirino di Cosa Nostra. I pm della Dda, che al momento fanno solo ipotesi, hanno avviato uno screening per cercare di individuare l’obiettivo delle cosche mafiose. Nessuno dei presenti (al summit, ndr) è stato identificato perché in quel momento non era operativo un servizio di osservazione. Il progetto di attentato potrebbe essere collegato al ‘proclama’ di Bagarella pronunciato il 12 luglio 2002 durante un processo a Trapani. In quell’occasione il boss, parlando a nome di tutti i detenuti dal carcere de L’Aquila sottoposti al carcere duro previsto dal 41 bis, fece riferimento a ‘promesse non mantenute’ e a strumentalizzazioni ‘politiche’. Dall’intercettazione emerge che la vittima designata da Cosa Nostra sarebbe un magistrato che abita in una piazza in cui arrivano furgoni. Secondo quanto emerge dall’intercettazione, infatti, il ‘gruppo di fuoco’ si sarebbe dovuto nascondere all’interno del furgone per compiere l’attentato contro l’auto del magistrato” (Ansa, 28 ottobre 2003). L’indomani, altri particolari: “Il progetto di attentato nei confronti di un magistrato che sarebbe stato messo a punto dalle cosche, scoperto in seguito ad alcune intercettazioni ambientali in un casolare della provincia di Agrigento, secondo i pm della Dda di Palermo ‘non sarebbe stato accantonato’” (29 ottobre 2003). Ma il nome del candidato all’obitorio la procura di Palermo non lo fa.
“Soltanto un cieco poteva ignorare gli elementi che, in quell’intercettazione, portavano tutti nella mia direzione. Con chi ce l’aveva sommamente Bagarella, se non con colui che l’aveva arrestato, si era occupato del ‘suo’ 41 bis e aveva fatto parlare quasi tutti i suoi fedelissimi? E poi l’intercettazioneambientaleeraavvenutaincontradaAcque Bianche, nel comune di Bivona dove sono nato, a qualche centinaio di metri in linea d’aria da casa mia. Nell’intercettazione, peraltro molto confusa per la scarsa qualità della registrazione e i continui fruscii e rumori di fondo, uno dei mafiosi dice che volevano attaccare qualcosa alla macchina del giudice, che conosce il posto e che sa “che c’è scritto La Barbera”. Secondo la procura, si riferiva al pentito Gioacchino La Barbera. Ma La Barbera è il cognome di mia madre e davanti casa mia, tuttora, c’è la targa dello studio legale dei miei: ‘Studio legale Sabella-La Barbera’. Seppi poi che, quando la cosa era finita sui giornali, il presunto capomafia locale, nel bar del paese, aveva stretto platealmente la mano a mio padre (storico esponente del Pci della zona: i due non si erano mai guardati in faccia prima di allora). Come a dire che l’attentato non aveva il suo consenso. In qualche modo, mi aveva salvato la vita. Ma in quei giorni la procura diretta da Piero Grasso, impegnato in un duro braccio di ferro con i cosiddetti ‘caselliani’, ritenne di non far uscire il mio nome.Tant’èchefuilmiocapodiFirenzeadireciòcheerachiaro a tutti quelli che avevano letto quei brani di conversazione”.
Infatti il 30 ottobre il procuratore Nannucci dichiaraall’Ansa:“C’èunabuonaprobabilitàchefosse il pm Alfonso Sabella l’obiettivo del progetto di attentatodellamafiacontrounmagistrato”.L’Ansa aggiunge che Nannucci “ha già informato il procuratore generale per avviare la procedura per assegnare la scorta a Sabella, che ora ha la tutela, con un solo agente che lo protegge”, e “a brevissimo termine dovrebbe essere convocata una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica in prefettura per decidere in merito. Sabella ha spiegato di non sapere ‘quanto sia fondato o meno’ il progetto di attentato nei suoi confronti: ‘Ho letto gli articoli di giornale e ho avuto informazioni molto generiche dai miei colleghi di Palermo. Tuttociòrientracomunquenelnormalerischiodi chi si occupa di mafia: lo abbiamo messo in conto…’”. Oggi, per completezza, aggiunge: “La scorta non mi fu riassegnata nemmeno dopo quel progetto di attentato. Anzi, un paio di anni dopo mi levarono pure la semplice tutela”.
Oggi,Sabellanonriesceproprioanoncollegarela revoca della scorta e quel progetto di attentato al suo “peccato originale”: aver ostacolato la trattativa, prima come magistrato a Palermo, poi come funzionariodelDap:“Sonostatoilprimoaraccogliere, già dieci anni fa, le rivelazioni di Brusca sulle stragi, la trattativa e la mancata perquisizione del covo di Riina. Il primo (con Ilda Boccassini) a dubitare dell’attendibilità di Scarantino. Ho tagliato fuori il Ros dalla cattura dei grandi latitanti, ho addirittura chiesto di esonerarlo dalle indagini per la cattura di Provenzano. Ho fatto saltare il complotto provenzaniano del ritorno a delinquere dei pentiti. Ho mandato all’aria due volte l’ultima versione della trattativa (o meglio dell’accordo), quella chiamata ‘dissociazione’.E,dacacciatoredimafiosicheero,sonostatocacciato dal Dap e quasi cacciato dal Csm. Da predatore a predato. Intanto tutti quelli che in questi 17 anni hanno favorito la trattativa hanno fatto carriere strepitose. Sono paranoico, oppure sono autorizzato a farmi certe domande?”.
Autorizzato, dottor Sabella. Autorizzato. (2-fine)
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