mercoledì 18 novembre 2009

Quelli che vogliono l’acqua privata

Dal Quotidiano Il Fatto Quotidiano
del 18 novembre 2009

di Daniele Martini
(Giornalista)


Più che una difficile equazione a molte incognite, la faccenda dell’acqua sembra un rompicapo apparentemente irrisolvibile che il governo, però, vorrebbe affrontare per le vie brevi dei colpi di fiducia, come ha deciso ieri. Alla Camera ci sarà il voto di fiducia sul decreto Ronchi, già approvato al Senato, che deve essere convertito in legge entro il 24 novembre. Il Pd replica che “questa fiducia non è certo motivata dall’ostruzionismo dell'opposizione ma dalla mancanza di fiducia del governo rispetto ai propri deputati”, anche la Lega si oppone.

In teoria l’acqua è un bene pubblico, e tranne alcuni talebani del privato, nessuno mette in dubbio il principio. Ma qui finisce la parte facile e cominciano i problemi. Il suo consumo, infatti, non può essere gratis perché portarla fino al rubinetto costa, e parecchio. L’acqua deve essere prelevata, analizzata, controllata, in alcuni casi opportunamente trattata per renderla bevibile. Poi va trasportata per chilometri e chilometri con acquedotti che devono essere mantenuti, sistemi di pompaggio e distribuzione che consumano energia e che a loro volta costano. Costa perfino farsela pagare l’acqua, perché ci vogliono i contatori, una struttura per la fatturazione dei consumi e un sistema di riscossione. Una volta utilizzata per bere, per far da mangiare, per le pulizie o per tutti gli altri usi consentiti, l’acqua deve essere se possibile recuperata, di nuovo trattata e poi ancora distribuita alle industrie. E chi paga? I cittadini-contribuenti-consumatori con una tariffa che in teoria dovrebbe coprire i costi di gestione. Ma siccome spesso i gestori dell’acqua sono soggetti pubblici, comuni in particolare, assai riluttanti ad adeguare (leggi: aumentare ) le tariffe per rapportarle ai costi, in quanto si tratta di un’operazione assai poco popolare, ecco che l’affare si complica. Ma senza tariffe adeguate non ci sono quattrini a sufficienza per gli investimenti, e senza investimenti gli acquedotti e le strutture per distribuire l’acqua si deteriorano.

I cittadini-clienti rischiano di subirne le conseguenze: la qualità dell’acqua comincia a peggiorare e scarseggia addirittura la disponibilità perché gli acquedotti maltenuti si bucano e perdono a fiumi. Sapete quanti soldi servirebbero per adeguare gli acquedotti e i servizi idrici (fogne e depurazione) alle esigenze di una clientela moderna? Più di 60 miliardi di euro in 30 anni secondo la valutazione del Blue Book 2009, uno studio sull’acqua eseguito dal centro di ricerca Utilitatis di Federutility e da Anea, l’associazione che raggruppa i gestori degli Ato (Ambiti territoriali ottimali), specie di enti locali istituiti una quindicina d’anni fa in seguito alla divisione del territorio dal punto di vista idrico. I comuni e gli Ato, che ne sono una filiazione, quei soldi non solo non li hanno, ma difficilmente li avranno in futuro. Per loro stessa ammissione sono in grado di finanziare investimenti per poco più di un decimo di quella cifra.

I PRIVATI. A questo punto si fanno avanti i privati che, però, ovviamente guardano all’acqua soprattutto come ad un affare; in genere rispetto ai gestori pubblici arrivano con capitali ingenti e la promessa di investimenti, ma come contropartita vogliono mano libera per aumentare le tariffe. I cittadini consumatori a quel punto cosa dicono? Preferiscono continuare a pagare poco per un bene che in prospettiva rischia di diventare scarso e di qualità peggiore oppure sono disposti ad affidarsi ai privati con i rischi del caso? Rischi che però non sarebbero ineliminabili se la faccenda dell’acqua fosse affrontata dal governo con un approccio meno drastico. La discussione in Parlamento della riforma dei servizi pubblici locali e di recepimento di una direttiva europea si inserisce proprio nel cuore della questione. La linea del governo in pratica ribalta l’impostazione precedente del verde Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente, che aveva riproposto la pubblicizzazione totale del servizio idrico. LA LEGGE. La legge approvata al Senato e ora all’esame della Camera spinge l’acceleratore sulla privatizzazione. Se passerà nella forma attuale, nel giro di pochi anni tutto il settore della gestione e distribuzione dell’acqua cambierà fisionomia. Le 8 grandi società quotate in Borsa con capitale in prevalenza pubblico e le altre aziende collegate ai comuni e agli enti locali dovranno, in pratica, farsi da parte per lasciare spazio ai privati. Si tratta di un ribaltone notevole. I meccanismi della norma sono chiari: se entro il 2013 le società pubbliche non saranno scese sotto il 40 per cento del capitale ed entro il 2015 addirittura sotto il 30, perderanno ipso facto la concessione. In pratica dovranno fare harakiri a vantaggio di nuovi soci. Ma chi sono questi pretendenti privati? A livello nazionale i più attenti sono i costruttori degli impianti idrici associati nell’Ance (Confindustria) che da anni hanno messo gli occhi sulla gestione degli acquedotti. A livello internazionale i soggetti interessati hanno le spalle ancora più larghe. In prima fila ci sono i francesi di Suez (gestori di acquedotti nell’aretino) e Veolia (ex General des Eaux), già presente in Calabria e in Sicilia. Poi ci sono le 10 sorelle private inglesi che si erano affacciate alcuni anni fa sul mercato italiano salvo poi ritrarsene in fretta di fronte allo stop and go delle leggi in materia. Tra esse spiccano l’azienda che distribuisce le acque del Tamigi e la Severn Trent che capta le acque del fiume Trent presso Nottingham.

LE TARIFFE. Queste aziende per sviluppare il business dovranno mettere mano alle tariffe. E qui cominciano i guai, perché se da una parte tutti riconoscono che il prezzo dell’acqua in Italia è tra i più bassi d’Europa, dall’altra c’è il rischio che se lasciati a briglia sciolta i privati impongano aumenti consistenti e socialmente poco gestibili. I margini per i rincari ci sono tutti considerando che appena il 4 per cento della popolazione italiana paga tariffe in linea con quelle europee. La legge in discussione non prevede, però, la costituzione di un’autorità terza che vigili proprio sull’andamento delle tariffe. Ed è un guaio. In teoria un’autorità ci sarebbe e si chiama Conviri, ma è come se non ci fosse, mentre invece dovrebbe stare con gli occhi bene aperti perché quello dell’acqua è un monopolio naturale, nel senso che non può esserci concorrenza tra diversi soggetti se non nella fase di aggiudicazione della concessione. In questo l’acqua è diversa sia dal gas sia dall’elettricità sia dalle telecomunicazioni dove le liberalizzazioni sono possibili. I governi che in passato hanno privatizzato e liberalizzato si sono sempre preoccupati di istituire delle agenzie di controllo per impedire o almeno limitare gli abusi, soprattutto sulle tariffe. L’esperienza e la storia insegnano, inoltre, che affidare un monopolio naturale ai privati non è una bella trovata, anzi. All’inizio del secolo passato fu proprio per reagire alle soverchierie dei gestori privati nei confronti dei cittadini che fu approvata una legge per affidare il servizio a soggetti pubblici, e così nacquero le municipalizzate. Quell’esperienza ha fatto il suo tempo ed è nella logica delle cose che si ricerchino nuove forme di gestione. Ma passare di colpo e senza precauzioni da un oligopolio pubblico temperato dalla preoccupazione politica di non aumentare le tariffe, ad un oligopolio privato senza regole, sarebbe come saltare da una gora immobile ad un Far West ingestibile.

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