del 12 dicembre 2009
di Peter Gomez e Marco Lillo
(Giornalisti)
Lui quei sacchetti di raso blu pieni di diamanti dice di ricordarseli bene. Suo padre, don Vito Ciancimino, li mostrò alla moglie e al figlio più grande. Mentre Massimo, che all’epoca aveva più o meno quindici anni, venne tenuto a debita distanza. Il ragazzo in famiglia era del resto considerato uno scavezzacollo. Don Vito, per evitare che si sfracellasse in motorino, aveva persino chiesto agli amici, uomini d’onore, di fare un giro per le concessionarie di Palermo in modo che a nessuno saltasse in testa di vendergli un ciclomotore. Non era insomma il caso che Massimo avesse le pietre per le mani. Se ne fosse sparita una, una soltanto, sarebbero stati guai seri. Perché quel tesoro, dal valore di molti miliardi di lire, non era roba di suo padre. Era dei suoi clienti. Era dei Bonura, dei Bontade, dei Buscemi. Era dei grandi costruttori mafiosi di Palermo dei quali, per tutti gli anni Settanta, l’uomo politico di Corleone era stato consulente .
Oggi il racconto sui diamanti di Cosa Nostra è al centro delle nuove indagini dei magistrati di Palermo e Caltanissetta che stanno cercando i riscontri alle parole del figlio dell’ex sindaco. Ai pm Ciancimino junior ha infatti spiegato che il padre, molto prima della guerra di mafia del 1981, dava una mano alle più importanti famiglie “di rispetto” nel trovare aree al nord dove si potessero costruire palazzi. Don Vito, protagonista del sacco di Palermo, di urbanistica se ne intendeva e, soprattutto, aveva gli agganci giusti nel mondo della politica e delle banche. Non per nulla, secondo il testimone, quei sacchetti pieni zeppi di pietre non erano altro che il contante ritirato agli sportelli della Banca Rasini, l’istituto di credito dove lavorava il padre di Silvio Berlusconi e dove, come hanno già stabilito le inchieste, molti prestanome e amici degli uomini d’onore palermitani avevano i loro depositi.
Stando al racconto di Ciancimino junior le cose sarebbero andate più o meno così. Intorno al 1979-‘80, in coincidenza con il crac del gruppo immobiliare Inim presso il quale all’epoca lavorava Marcello Dell’Utri, suo padre consiglia ai clienti di smobilitare gli investimenti. I soldi vengono trasformati in preziosi grazie all’intervento di un commerciante ebreo, di cui Massimo Ciancimino ha fornito il nome: un personaggio già noto a Giovanni Falcone. Il giudice assassinato dalla mafia incappò infatti in lui nel 1983 quando scoprì che l’ex sindaco di Palermo aveva acquistato diamanti per mezzo miliardo di lire. Don Vito si mette i sacchetti in tasca e, come faceva spesso in quegli anni, sale in treno per essere venti ore dopo nell’isola. Non è chiaro invece se tra gli investimenti dei siciliani vi fossero anche gli immobili e i terreni del giovane Berlusconi. Che tra Ciancimino – allora considerato un politico chiacchierato, ma incensurato – e il futuro Cavaliere vi fossero rapporti sembra dimostrato da un’intercettazione telefonica in cui, anni fa, proprio Massimo parla con la sorella di un assegno da 35 milioni versato a loro padre da Berlusconi. Ciancimino junior poi, davanti ai magistrati, sostiene di aver saputo dal genitore di giri di soldi tra la Banca Rasini e la Saf, una delle fiduciarie Bnl, dietro la quale si nascondevano i primi finanziamenti alla Fininvest. Adesso, invece, si arriva alla cascata di diamanti. Scene da film che presto però potrebbero trasformarsi in pagine di cronaca giudiziaria.
Anche perché Massimo Ciancimino, continua a produrre documenti su documenti. Accanto ai pizzini che sarebbero stati scritti da Bernardo Provenzano a suo padre (il condizionale è d’obbligo visto che lo stile non corrisponde per nulla a quello sgrammaticato del boss corleonese) vi sono altre carte. Fogli in cui si parla del gruppo Inim, nel quale Dell’Utri, prima di ritornare in Fininvest, lavorava al fianco di imprenditori legati a doppio filo all’ex sindaco mafioso.
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