del 7 dicembre 2009
di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)
Qualche sera fa, il dott. Nicola Gratteri [Procuratore della Repubblica Aggiunto presso il Tribunale di Reggio Calabria] ha partecipato ad un trasmissione televisiva portando in video la sua disarmante chiarezza.
Ad una domanda se vi fosse, realmente, la volontà politica di sconfiggere la mafia, ha dato una risposta ad dir poco agghiacciante.
Qualsiasi governo (ammesso che negli ultimi anni vi sia stata alternanza in Italia) ha e ha avuto come scopo primario un potere giudiziario imbrigliato (in modo che non si possa disturbare il manovratore) e una scuola inadeguata (in modo che non si formino nuove generazioni colte e intellettualmente capaci di cogliere i significati reconditi delle “questioni dell’agenda politica”).
Il dott. Gratteri è certamente uno di quelli che hanno inteso il proprio lavoro come un dovere e non come occasione di vivere bene nel senso che la sua funzione e il suo potere lo hanno esposto al rischio di perdere la vita e non ad essere in prima fila a teatro.
Nessun compromesso onde consentire anche a suoi figli di vivere bene.
Il suo linguaggio mediatico è diverso da altri, più semplicemente disarmante, più diretto; quasi quello di una discussione tra amici fidati nessun compromesso, messaggio semplice e diretto.
Un attimo prima, aveva detto che nel territorio di sua competenza il capo mafia è capace di determinare qualsiasi cosa, anche l’imbianchino che tinteggerà la casa di un quisque de populo che ha deciso di costruirsi o comprarsi un nuovo immobile.
Enorme potenza delle organizzazioni mafiose.
Questione criminale si dirà.
In Calabria, tuttavia, non molto tempo fa, una famosa inchiesta oggi al vaglio della magistratura penale giudicante, disvelò un sistema diffuso dall’altra parte della società (quella non criminale sic!) per cui il potere era in grado di determinare consulenti, incarichi, vite da stabilizzare, investimenti da realizzare.
Questione politica si dirà.
In Calabria, in realtà, quella inchiesta e quei comportamenti (la cui rilevanza penale non sono ovviamente di nostra competenza) hanno disvelato il vero problema di questa terra: non esistono, se non in forma minimale, spazi di libertà assoggettati alle norme del diritto se è vero come sembra che dal lato criminale esistono forme di pressione che, per ciò che qui interessa, impediscono a chi lavora bene di prosperare nel suo lavoro valendo come regola quella della appartenenza e, dal lato del potere esistono altrettante forme di pressione e di violazione delle norme del diritto valendo anche lì (seppure con aspetti meno pericolosi dal punto di vista criminale) la regola dell’appartenenza sopra il merito e le predette regole.
Il lavoro privato, quello cioè sottratto alle due influenze, è minimale e si occupa delle briciole della torta.
Questione meridionale si dirà.
Si questione meridionale che, tuttavia, per tornare alla disarmante semplicità e chiarezza delle posizioni di Gratteri, porta a chiedersi del perché in tanti anni non si sia voluto capire che basterebbe applicare le regole, esistenti, per risolvere molti annosi problemi.
Sottomissione al potere romano dicono le classi dirigenti calabresi.
Anche su questo viene da dire che è un luogo comune poiché il politico nostrano, forte di ruoli o di rapporti ben consolidati con il potere centrale, critica la sua sudditanza dal potere romano ma crea sudditanza con il suo elettorato di riferimento in modo da potere contare su un gruppo consolidato di condizionamento che si esplica quasi come un Giano bifronte in cui da un lato si sfrutta la forza elettorale verso il centro e dall’altro si sfrutta la contropartita del centro verso il gruppo di riferimento.
Degenerazione della politica, male atavico delle classi dirigenti e delle genti meridionali.
La situazione, in realtà, è del tutto diversa poiché essa, in realtà, è proprio il frutto della codificazione del principio del rovescio del diritto di cui esistono notevoli esempi proprio qui in Calabria.
Rimanendo sull’esempio di Why not basta soffermarsi sulle regole costituzionali per il problema dell’accesso al lavoro.
Sul punto, l’art. 97 recita testualmente “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.
Tale norma va letta in sistema (sistematicamente ndr) con l’art. 51, a mente del quale “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e con l’art. 3, II° comma, Cost., “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Dal quadro delle norme costituzionali, evidentemente cogenti anche in Calabria, si inferisce che al lavoro nelle pubbliche amministrazioni (il c.d. posto fisso) si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge, e che è obbligo delle istituzioni della Repubblica (che ovviamente non è un fatto astratto ma l’insieme degli uomini che ricoprono cariche istituzionali negli organi della Repubblica) garantire l’uguaglianza dei cittadini nell’accesso agli uffici pubblici nonché quello di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscano il pieno sviluppo anche economico della persona umana.
Le regole del diritto quindi sono molto chiare sia per gli uomini che ricoprono ruoli istituzionali sia per i cittadini: i gruppi di potere che influiscono sull’accesso ai pubblici uffici e agli incarichi pubblici (ovvero derivanti da investimenti di soldi pubblici) violano il dettato costituzionale; in altri termini violano la legge.
Non ha rilevanza, almeno qui, stabilire se ciò ha rilevanza penale: ha certamente rilevanza costituzionale nel senso di essere certamente una prassi un comportamento contrario alle regole dettate dalla nostra carta costituzionale. Nella sua disarmante semplicità (non semplicismo), si può affermare che interferire, almeno nel settore che interessa i soldi pubblici, sull’ingresso nel lavoro, la carriera, i guadagni, le condizioni di vita delle persone e dei suoi familiari è contrario alla nostra Costituzione.
Tutto chiaro e condivisibile?
No, sbagliato, la codificazione della regola del rovescio del diritto porta ad affermare che raccomandare è un fatto banale quasi umanitario; quando si prova ad indagare ipotizzando voto di scambio o altre figure di reato, i rappresentanti del rovescio del diritto banalizzano il problema affermando che si tratta, in realtà di semplici raccomandazioni con finalità umanitarie.
Verrebbe da chiedersi ma tutti i lavoratori a contratto, a termine (per il diritto non per il rovescio), frutto di chiamate dirette non violano la Costituzione?
La gratitudine che il selezionato tra migliaia di aspiranti prova per il suo amico politico non influenza le scelte del suo voto che dovrebbe essere libero?
Tutto questo quadro non è chiara indicazione di violazione dei precetti costituzionali?
Secondo i teorici del rovescio del diritto no o, quantomeno, ciò non rappresenta un problema visto che il cittadino elettore, anche sapendo che il politico tizio opera in questo modo lo legittima nuovamente con il suo voto libero.
Su questo il legislatore ha scelto che il voto di scambio è punibile solo quando avviene in cambio di denaro e, si sa, che in Italia, figuriamoci in Calabria, ci si dimette o si lascia la politica solo dopo l’esecuzione, a volte implorata, di sentenze definitive afferenti a gravi reati penali.
Questa piccola analisi, però, illumina le ragioni della speranza perché la diminuzione delle canches a disposizione dei nostri filantropici politici fa aumentare quelli fuori dai giochi e, soprattutto sembra avere prodotto, almeno qui in Calabria, non una illuminata elitè ma molti uomini e donne silenziose che nella loro vita quotidiana hanno deciso di dire che i teorici del rovescio del diritto in realtà violano la legge.
Speriamo si continui a camminare gridando che il rovescio del diritto in realtà era un titolo ironico di un saggio sui mali della legge e non una regola di codificazione.
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