del 1 dicemre 2009
di Elio Veltri e Marco Travaglio
(Giornalisti)
Il 26 novembre 2002, dopo molti rinvii, il Tribunale di Palermo che sta processando Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa si reca finalmente a Palazzo Chigi per ascoltare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in veste di “testimone assistito” (in quanto a suo tempo indagato in vari procedimenti connessi per associazione mafiosa e riciclaggio, poi archiviati), a domicilio e a porte chiuse, come gli consente il Codice di procedura penale e come lui ha espressamente chiesto. E’ stato lo stesso Dell’Utri a indicarlo nella lista dei testimoni della sua difesa. Niente telecamere né giornalisti, per carità: “Motivi di sicurezza”. La scena, poi, non è delle più edificanti. I giudici Leonardo Guarnotta, Giuseppe Sgadari e Gabriella Di Marco, assieme ai pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo, ai loro consulenti tecnici, agli avvocati difensori e di parte civile, vogliono ascoltarlo a proposito delle origini delle sue fortune e dei suoi rapporti con alcuni mafiosi, soprattutto Vittorio Mangano. Ma lui ha già fatto sapere che intende avvalersi della facoltà di non rispondere: lui, il capo del governo che dice di “non avere nulla da nascondere”. E dire che le domande preparate da giudici e pm non sembrano difficili, per chi non abbia scheletri nell’armadio. Domande che lo inseguono da un quarto di secolo, senza mai ottenere risposta.
Nell’ultima campagna elettorale del 2001 il Cavaliere ha assicurato che, sulle origini delle sue fortune, “non ci sono misteri”. Ma al processo Dell’Utri qualche dubbio l’ha lasciato trapelare persino il consulente della difesa, il professor Paolo Iovenitti dell’Università Bocconi, ingaggiato dagli avvocati di Dell’Utri per tentare di rintuzzare le consulenze di Francesco Giuffrida (dirigente della Banca d’Italia, consulente della procura, ndr) e della Dia. Il 25 giugno 2002, incalzato in udienza dai pm, Iovenitti ha dovuto ammettere che certe operazioni di finanziamento e aumento di capitale delle 22 holding che dal 1978 controllano la Fininvest “potremmo definirle potenzialmente non trasparenti”. Ha detto proprio così: “Non trasparenti”, a proposito delle “operazioni non di aumento di capitale gratuito”, quelle che i consulenti dell’accusa classificano secondo la dizione di “franco valuta”, già censurate nel 1994 dagli ispettori della Bnl. Un mezzo autogol, almeno per l’imputato Dell’Utri, che deve rispondere proprio dell’accusa (lanciata da diversi pentiti) di aver procurato a Berlusconi decine di miliardi di provenienza mafiosa, per riciclarli nelle televisioni sullo scorcio degli anni Settanta. Nemmeno Iovenitti ha potuto consultare l’intera documentazione su quel tourbillon di operazioni da capogiro – parte (14 miliardi) in contanti, parte in assegni circolari e bonifici – compiute fra il 1978 e il 1983, per 99 miliardi di lire dell’epoca. Tutti quattrini ancora in cerca di autore.
Il mistero più buio, che solo Berlusconi può sciogliere, riguarda un pacco di documenti che lui stesso ritirò nel 1998 presso Servizio Italia spa, una delle due fiduciarie Bnl che agivano per suo conto (l’altra è Saf spa). L’operazione è dimostrata da due lettere indirizzate a Servizio Italia, firmate l’una da Berlusconi e l’altra dal suo legale Ennio Amodio. Siamo nell’estate 1998, all’indomani del primo blitz della Dia nelle banche e nelle fiduciarie legate alla Fininvest. Il 30 luglio Amodio chiede “di poter accedere alla documentazione in vostro possesso” per “ricostruire le operazioni poste in essere dalla Fininvest Roma srl nel periodo 1978-1984”. Un mese dopo Berlusconi scrive alla fiduciaria: “Con la presente vi confermo che il dr. Salvatore Sciascia è autorizzato, a mio nome e conto, a prendere visione ed estrarre copia dei documenti relativi ai mandati fiduciari conferitiVi a partire dal 1975 per la gestione della società Finanziaria d’Investimento Fininvest spa”. Il 24 settembre 1998 Sciascia, capo dei servizi fiscali della Fininvest, ritira i dossier. Tre anni di buio: di quelle carte non c’è traccia nei documenti depositati dalla difesa Dell’Utri, né in quelli messi a disposizione del consulente della difesa. Strano: Amodio, nella lettera, giura di averne bisogno “al fine di esercitare il diritto di difesa”. Ma si accontenta di quelli a partire dal 1978 (anno di nascita delle holding). Berlusconi invece chiede anche le carte dal 1975 (data di nascita della Fininvest, prima con sede a Roma e poi a Milano) al 1978, ma poi non le trasmette ai difensori e al consulente di Dell’Utri. Tre anni della sua vita coperti da omissis. Quelle carte contengono per caso qualcosa di segreto, delicato, compromettente? Il 25 giugno 2002 Ingroia rivela a Iovenitti che Berlusconi ha fatto spazzolare i documenti sul 1975-‘78. Il professore cade dalle nuvole: “Non ne ero al corrente… Non ne ho preso visione… L’incarico che mi è stato assegnato era quello di esaminare criticamente l’elaborato del dottor Giuffrida relativo ai flussi che hanno interessato le cosiddette holding dal 1978 al 1985… Le holding sono state costituite a metà del 1978…”. Prima, meglio non avventurarsi.
Il triennio 1975-‘78 è fra i più misteriosi della biografia berlusconiana: il Cavaliere non figura quasi mai ai vertici delle sue società. Sono gli anni di Mangano ad Arcore e dell’iscrizione alla P2. Ma in sostanza, secondo Iovenitti, quella montagna di quattrini servita a Berlusconi per finanziare le sue holding proviene dallo stesso Berlusconi. Per l’accusa, resta pur sempre da capire chi gli ha fornito la “provvista”. Dove ha preso i soldi.
Ma quando il 26 novembre 2002 i giudici siciliani entrano nella sala verde di Palazzo Chigi per porgli quella domanda semplice semplice – signor presidente del Consiglio, ci può dire dove ha preso i soldi? – lui taglia corto: “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. I pm Ingroia e Gozzo hanno preparato un lungo “papello” di domande. Quasi cento interrogativi che abbracciano trent’anni di biografia. Perché nel 1974 Berlusconi ingaggiò come stalliere o fattore Mangano, nonostante i suoi gravi precedenti penali? Perché due anni dopo Mangano se ne andò da Arcore: licenziato perché sospettato del sequestro D’Angerio dopo una cena in casa Berlusconi, come ha sempre sostenuto il Cavaliere, oppure per sua scelta autonoma, come ha riferito il boss? Perché Mangano continuò a frequentare Arcore? Perché Dell’Utri seguitò a incontrarlo anche dopo la condanna per mafia nel processo Spatola e per traffico di droga nel maxi-processo alla Cupola, nei giorni caldi della nascita di Forza Italia (1993) e del primo governo Berlusconi (1994)? Perché nel 1987, quando esplose una bomba contro la sede Fininvest di Milano, Berlusconi telefonò a Dell’Utri per dirgli che sospettava di Mangano? Che rapporti ha avuto il Cavaliere con il finanziere Filippo Rapisarda, amico di Vito Ciancimino e di altri mafiosi, con Gaetano Cinà, uomo d’onore del clan Malaspina, e con gli altri boss indicati da Rapisarda come suoi frequentatori ed elemosinieri? La Fininvest ha mai pagato il pizzo alla mafia per le televisioni in Sicilia e per la Standa di Catania? Mai saputo niente di rapporti tra la Fininvest siciliana e un lontano parente di Buscetta? Perché nel 1998 Berlusconi mandò a prelevare copia delle carte sulle holding e poi le nascose al consulente della difesa Dell’Utri? Perché quelle casalinghe, quei disabili colpiti da ictus, quei disoccupati a fare da prestanomi? E da dove arrivavano tutti quei soldi di provenienza ignota, 99 miliardi di lire dell’epoca pari a 30 milioni di euro attuali, affluiti nelle holding Fininvest fra il 1978 e il 1983? E quei 14 miliardi in contanti? E così via.
Quando il Cavaliere, affiancato dall’on. avv. Niccolò Ghedini, oppone il suo “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”, Ingroia non si arrende e prova a stuzzicarlo, spiegandogli che la procura è stata molto garantista, riconoscendogli la veste di indagato in procedimento connesso archiviato e dunque la facoltà di non rispondere; però molte domande riguardano la posizione del solo Dell’Utri, sulla quale il premier sarebbe un semplice testimone e potrebbe rispondere senza accusare se stesso, ma anzi fornendo un prezioso contributo all’accertamento della verità. Poi, “a titolo esemplificativo”, ne espone qualcuna. Il premier fissa con sguardo interrogativo l’avvocato Ghedini. Come a dire: ma quando finisce questa tortura? Finisce in dieci minuti. Verso la decima domanda, il presidente Guarnotta si riprende la parola: “Presidente, lei ha capito la situazione: che intende fare? Potrebbe tacere sulle questioni che la riguardano direttamente e risponderci a proposito di Dell’Utri, che fra l’altro l’ha indicata come testimone della difesa...”. Ancora un’occhiata a Ghedini, che anticipa la risposta: “Convengo che su certe questioni il presidente è testimone. Ma la sua deposizione sarebbe inutile. Pertanto gli consiglio di continuare a tacere”. Il premier raccoglie l’invito. Il giudice Guarnotta lo licenzia. I difensori di Dell’Utri chiedono di cancellare il Cavaliere dalla loro lista testi: “Non ha più nulla da chiarire”. Bocca cucita per tutti. Anche per l’amico Marcello.
L’11 dicembre 2004 arriva la sentenza di primo grado su Dell’Utri (9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa) e Cinà (6 anni per partecipazione a Cosa Nostra). Nelle motivazioni depositate il 5 luglio 2005 i giudici scrivono che il gruppo Berlusconi ha ricevuto finanziamenti “non trasparenti” a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. E ha versato “per diversi anni somme di denaro nelle casse di Cosa Nostra”. Dell’Utri infatti, “anziché astenersi dal trattare con la mafia [...], ha scelto, nella piena consapevolezza di tutte le possibili conseguenze, di mediare tra gli interessi di Cosa Nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi (un industriale, come si è visto, disposto a pagare pur di stare tranquillo)”. Quanto all’origine delle fortune di Berlusconi, “la scarsa trasparenza o l’anomalia di molte operazioni Fininvest negli anni 1975-‘84 non hanno trovato smentita dal consulente della difesa Dell’Utri; non è stato possibile risalire [...] all’origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. E allora le ‘indicazioni’ dei collaboranti e del Rapisarda (sul riciclaggio di denaro mafioso) non possono ritenersi del tutto ‘incompatibili’ con l’esito degli accertamenti svolti”. Poteva chiarire tutto Berlusconi. Ma “si è avvalso della facoltà di non rendere interrogatorio e si è lasciato sfuggire l’imperdibile occasione di fare personalmente, pubblicamente e definitivamente chiarezza sulla delicata tematica, incidente sulla correttezza e trasparenza del suo precedente operato di imprenditore che solo lui, meglio di qualunque consulente o testimone, avrebbe potuto illustrare. Invece ha scelto il silenzio”.
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