del 1 dicembre 2009
di Salvo Palazzolo
(Giornalista)
Simone Castello, il tesoriere di Bernardo Provenzano, si era trasferito in Spagna dopo essere uscito dal carcere. E da Murcia, centro commerciale e industriale, sarebbe tornato a gestire i segreti finanziari del capo di Cosa nostra ormai in cella dal 2006.
I poliziotti della Guardia Civil l’hanno bloccato questa notte in esecuzione di un mandato d’arresto europeo. Da mesi, i carabinieri del Reparto Operativo di Palermo seguivano le tracce di Castello: dalla Spagna, dove ufficialmente lavorava per una società che si occupa di import-export di frutta e ortgaggi, era in costante contatto con la sua Bagheria. Attraverso un gruppo di fidati imprenditori, il manager di Cosa nostra stava cercando di vendere alcune società formalmente intestate a prestanome. Altre indagini, condotte dalla squadra mobile di Palermo, hanno individuato la rete di favoreggiatori su cui Castello e Provenzano potevano contare a Bagheria.
Nel blitz scattato fra la Spagna e Palermo sono finite in carcere 11 persone. Assieme a Castello, il cognato Massimiliano Ficano, 34 anni; il nipote, Luciano Castello, 35 anni; Dario e Giuseppe Comparetto, di 27 e 33 anni; Leonardo Ficano (il padre di Massimiliano), 67 anni; Emanuele Giovanni Leonforte, 39 anni; Stefano Lo Verso, 48 anni; Cristofaro Morici, 56 anni, Onofrio Morrreale, 44 anni; Francesco Pipia, 52 anni.
Fra gli ultimi affari della cosca di Bagheria, anche l’imposizione del pizzo sulla costruzione delle tombe nel cimitero della vicina Ficarazzi. Il racket del “caro estinto” prevedeva la classica tassa del tre per cento sui lavori. Ma in tempi di crisi, date le insistenze degli imprenditori, i boss facevano uno sconto. Così hanno ascoltato gli investigatori nel corso delle intercettazioni: “ Quante sono queste tombe, novanta? – esordiva Ficano - Sono trecentosessantamila euro, mettiamo al tre per cento sono diecimila euro, lui gli ha fatto fare lo sconto di altri mille euro, se io parlo con chi devo parlare mi fate fare brutta figura per cinquemila euro? Gli ho detto le faccio fare metà a Natale e metà a Pasqua”.
Le indagini erano partite già prima dell’arresto di Provenzano. Nel 2005, i sostituti procuratori Michele Prestipino e Marzia Sabella avevano orientato le ricerche del capo di Cosa nostra latitante da 40 anni su Corleone, ma tenevano comunque sotto controllo i movimenti della cosca di Bagheria, storica roccaforte del padrino latitante. E in effetti, il giorno dopo il blitz della polizia che portò Provenzano in manette, i mafiosi bagheresi ricordavano di quando erano stati loro a gestire la latitanza del capo. Non sospettavano di essere intercettati e parlavano in libertà: si vantavano di non essere stati mai scoperti, e si chiedevano se quella macchina da scrivere trovata nel covo di Corleone fosse quella che loro avevano donato a Provenzano.
Nella richiesta di arresto per gli 11 boss, che porta anche la firma del pm Adriana Blasco, sono ricostruiti soprattutti gli ultimi affari di Castello, oggi sessantantenne, personaggio da sempre poliedrico: dal passato di attivo militante del Partito Comunista a grande elettore corteggiato da alcuni esponenti siciliani di Forza Italia, e intanto postino dei pizzini di Provenzano, e suo manager di fiducia. L’ordinanza di custodia del gip Piergiorgio Morosini che riporta Castello in cella ha disposto anche il sequesto di una sua società di import-export di frutta, che ha sedi a Bagheria e nel Ragusano.
“Purtroppo, accade ormai troppo di frequente che dopo il carcere i mafiosi tornino a gestire gli affari dell’organizzazione – dice il colonnello Teo Luzi, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo – la nostra attenzione resta comunque costante. Cosa nostra continua ad avere una grande capacità di ricambio dei suoi vertici”.
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